La Magia, per chi ha riconosciuto il suo contenuto energetico non
è altro che la Scienza suprema. Questa, assolutamente fraintesa e
inopportunamente concepita dalla modalità
scientista-materialista-determinista, non è che una retrograda, se
non pericolosa, barzelletta e realtà assurda, per la quale non c’è
ragione di occuparsene, quindi reietta. Così, non ci risulta il
carattere relazionale della realtà a favore della sua natura
pretestuosamente oggettiva e dei suoi attributi che esisterebbero
indipendentemente da noi.
Per magia
“Ma prendere sul serio la meccanica quantistica, riflettere sulle
sue implicazioni, è un’esperienza quasi psichedelica: ci chiede di
rinunciare, in un modo o nell’altro. a qualcosa di quanto ci sembra
solido e inattaccabile nella nostra comprensione del mondo. Ci chiede
di accettare che la realtà sia profondamente diversa da quanto
immaginavamo”. (p, 15) [Vedi Note per la fonte di tutti i
brani citati.]
Se candeggiati dall’intossicazione scientista-materialista, si può
riconoscere in che termini le dinamiche filosofiche presenti
ed evincibili dalla fisica quantistica siano, nel loro modo di agire,
sovrapponibili a quelle della magia o della realtà energetica,
relazionale o, meglio e più semplicemente – o magicamente –
della conformazione della realtà. Cioè, della realtà stessa.
“La realtà potrebbe essere più complessa dell’ingenuo
materialismo della fisica settecentesca”. (p, 134)
“Non ci sono fenomeni quantistici in laboratorio e fenomeni non
quantistici altrove: tutti i fenomeni sono in ultima analisi
quantistici”. (p, 142)
La narrazione del mondo esaurito nel misurabile ha le sue verità
(La verità è nel discorso.
Foucault) (1), che questa cultura
concepisce però come assolute. È un abbaglio, che la
filosofia sorta dalla fisica quantistica riduce da definitive a
parziali, esattamente come noto da millenni nell’ordine della
scienza suprema.
Le consapevolezze che entro il dualismo ogni proposizione è
necessariamente limitata, che entro l’egocentrismo è
necessariamente interessata, quindi faziosa in quanto destinata a
sostenere se stessi, permette di riconoscere che ogni narrazione non
è che un’agiografia di chi la esprime, basata sulla scomposizione
dell’intero, in quanto non in potere di coglierlo.
Una storiografia siffatta è mossa dal movente di allontanare il
crollo che la morte garantisce all’ego con cui siamo identificati.
Una disfatta impossibile se emancipati dal dualismo, in quanto la
morte, come una sedia, le siamo già, e così pure tutto il resto.
Quelle consapevolezze, infatti, ci offrono un orizzonte altrimenti
precluso, oltre il quale possiamo vedere e vivere l’unità degli
opposti, gli altri come dei noi e il cosmo come energia, quella
stessa che vibra in tutte le cose e che, in molta letteratura
evolutiva è detta amore. Nonostante ciò comporti armonia, la
diffusa concezione distorta sulla scienza suprema è così radicale
da garantire, a chi la condivide, il diritto illuministico di
estradarla dalla cultura, di ghettizzarla in enclave come un’untrice
del male.
Nonostante la boriosa vanagloria con la quale la cultura
analitico-logico-razionalista si pavoneggia, alla pari della diva del
momento, puntando il dito in direzione della – secondo lei – vera
conoscenza, essa, proprio essa, nient’altro che essa è all’origine
del fraintendimento della natura della magia.
Esattamente come dicono tutte le tradizioni magico-sapienziali
accreditare di verità le narrazioni mondane è impedirsi di vedere
come queste non siano che ologrammi che compaiono solo e soltanto al
nostro cospetto e secondo certa angolazione, fuori dalla quale
scompaiono. A suo tempo Claudio Rocchi lo aveva raccontato
liricamente. (2)
Ma ora, alla voce delle tradizioni si unisce quella della filosofia
della fisica quantistica.
“Ma allora attribuire sempre e necessariamente proprietà a una
cosa, anche quando non interagisce, è superfluo, e può essere
fuorviante. È parlare di qualcosa che non esiste: non ci sono
proprietà al di fuori delle interazioni”. (p, 87-88)
L’egemonia del pensiero meccanicista è molto simile a quello
progressista: senza coercizione, entrambi impongono ai loro sudditi,
servi e idolatri, il pensiero unico. Se ne hai di non conformi sei
fuori. Ah, cosa ti combinano i paladini della scienza e quelli della
democrazia! Popper e Voltaire hanno di che soffrire.
Nonostante la prosopopea del pensiero razionalista, quale solo idoneo
a condurci verso i confortanti lidi della verità, l’equivoco –
non solo quello nei confronti della magia – infesta le relazioni
come un’erbaccia immune alle sue medicine di presunta discernente
saggezza. Così, i caldi arenili tropicali della conoscenza che
pretende di garantirci, si rivelano essere un miraggio, evanescente
suggestione della chiesa scientista, che si rivelano aride terre
sterilizzate dal sangue della sofferenza e dei conflitti.
“C’è stato un momento in cui la grammatica del mondo sembrava
chiarita: alla radice di tutte le variegate forme della realtà
sembravano esserci solo particelle di materia guidate da poche forze.
L’umanità poteva pensare di avere sollevato il velo di Maya: aver
visto in fondo alla realtà”. (p, 12)
A patto di non interrompere il candeggio su citato, cioè
l’emancipazione dalle regole culturali apprese a casa e a scuola,
viste in tv e lette sui giornali e ricalcate dalla politica, per
riconoscerne l’autoreferenzialità e per liberarsi dalla
coercizione di creatività che implicano, è a disposizione di
chiunque l’accesso alla prospettiva nella quale l’assolutismo
logico-meccanicista cessa di mortificare l’infinito che siamo, per
divenire semplice strumento funzionale per certi lavori
amministrativo-regolamentati, ma inidoneo a fornire alcun servizio,
se non quello dell’equivoco, quando si tratta di relazioni aperte.
Dunque assai utile per muoversi entro un meccanismo chiuso,
caratterizzato dalla presenza di regole note e condivise, ma inetto a
muoversi in campo libero, che ne è l’opposto, cioè un territorio
relazionale dove il nostro stato ne incontra un altro o si relaziona
a qualcosa di sconosciuto.
Se l’equivoco è descrivibile anche a mezzo di emozioni differenti
che contengono gli interlocutori, tale figurazione permette di
comprendere come il significato che diamo a un’affermazione possa
non passare indenne da deformazioni da una persona ad un’altra,
cioè da un universo a un altro. Le emozioni sarebbero infatti forze,
che generano in noi precisi universi personali, corrispondenti ai
sentimenti e ai pensieri della coscienza. Nelle libere interlocuzioni
tra due entità non sempre, anzi raramente, si toccano nel punto e
nel momento funzionale alla comunicazione. Per alzare il rischio di
contattare l’altro ente, più che la dialettica razionale torna
utile quella dell’ascolto, più che il giudizio, l’accoglienza.
L’equivoco che, come detto da Marshall McLuhan e ribadito da
Paul Watzlawick, Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Gregory
Bateson, Ernst von Glasersfeld e chissà quanti altri, regna nella
comunicazione. Esso sorprende soltanto i razionalisti, convinti
che una buona affermazione sintatticamente compiuta comporti
comunicazione, ma non la madre, né il didatta, né il terapeuta. Il
razionalista non vede né rispetta il gradiente di motivazione, né
lo stato del destinatario della sua affermazione.
Ed è sempre lui, il razionalista, che davanti all’equivoco
conclamato non ne fa scuola e preferisce giudicare. Non si mette a
cercare l’origine dell’incomprensione: la mia affermazione era
compiuta! Dice. No! Lui si accontenta, anzi, è soddisfatto di
poter giudicare e valutare l’altro che non ha capito la sua
perfetta affermazione. Così parla l’ignaro meccanicista,
ovvero colui che ritiene ci sia un solo mondo per tutti e che tutti
lo si stia vedendo come lo vede lui.
Altro che caldi lidi tropicali.
Il razionalista per ragioni di autostima, per parare il colpo della
inspiegabile – direbbe lui – inefficacia della sua forbita
e argomentata azione-affermazione, è costretto dai suoi schemi a
rifugiarsi nell’attribuzione di responsabilità: è lui che non
capisce, al contrario, il mago, nient’altro che il consapevole
del potere delle emozioni e degli universi diversi che siamo o
possiamo essere, ha in sé la chiaroveggenza per indagare le ragioni
del fallimento della comunicazione tra infiniti.
Non solo. Egli osserva che, al fine della condivisione del discorso,
l’accredito della fonte da parte del destinatario, è sostanziale.
Egli vede lo stato permanente di latente mutamento di quegli
infiniti, fino ad essere in grado di riconoscere quando e come
mettervisi in contatto o rinunciare quando, a sua volta, sente di
essere perturbato.
Un infinito, il cui mutamento non è limitato ad una caotica
rivoluzione delle entità che li compongono, nonché agli
stocastici scontri tra queste, ma ad un cangiante allineamento e
selezione personalizzata di queste, che avviene (Heidegger)(3) e si
cristallizza nel momento in cui ne siamo al cospetto, e avvengono nel
pensiero.
“L’onda evolve nel tempo
seguendo l’equazione scritta da Schrödinger, solo fintanto che
non la guardiamo. Quando la guardiamo, puff!, si concentra
in un punto, e lì vediamo la particella.
Come se il solo fatto di osservare fosse sufficiente a modificare la
realtà”. (p, 42)
È quello l’istante in cui l’emozione che ci avviluppa impone i
suoi dictat selezionatori tra infiniti elementi e la conseguente
concezione del mondo fondata sui pochi che ha scelto e alla relativa
piatta e sterile – salvo per chi condivide la cernita –
descrizione della realtà per quello che effettivamente è. Così
fanno tutti i devoti all’attuale ordine culturale e della sua
narrazione di realtà.
Nonostante l’evidenza che ci sia qualcosa da capire se tutti
siamo allenatori, cioè se tutti abbiamo in bocca la vera
descrizione, ciò non ci spinge a sospettare che stiamo adottando un
sistema bacato, né ad indagarlo per scovare l’ontologia
dell’equivoco. Ma, con la pistola fumante del giudizio e della
valutazione, ci affrettiamo a cercare ulteriori selezioni
dall’infinito a sostegno di quanto già affermato.
Se tutto ciò non facesse rabbrividire, farebbe ridere. Se non
comportasse guerre e pene si potrebbe stare tranquilli entro
l’enclave senza il terrore di persecuzioni, colpevolizzazioni, di
andare a finire male.
E i diritti
delle minoranze? Chiese.
Ma quali
minoranze, quelli sono ciarlatani. Uccideteli. Rispose.
Come le crune allineate delle asce di Ulisse, appena accade di
coniugare alcuni frammenti dell’infinito e vederne la
costellazione, scocchiamo il dardo, l’affermazione, la verità. E
chi non sa cogliere dal proprio cielo interno nessun disegno, ha
sempre la stella polare del luogo comune a cui fare appello.
Le crune ideologiche, quelle moralistiche e quelle religiose, nonché
quelle dell’interesse personale dispongono dell’incantevole
fascino al quale non manchiamo di sottometterci, che non manchiamo di
difendere con qualunque mezzo, con qualunque potenza di fuoco, fino
alla morte dei rei se necessario. Cioè di coloro giudicati colpevoli
di aver allineato altre scuri per altre ideologie, religioni,
moralismi, interessi personali. Nel mondo, che se non fosse
tragico sarebbe ridicolo, quello in cui io non sono tu, la battaglia
è permanente, vincere è un dovere, soccombere è latente.
Facci caso
“L’errore è assumere che la fisica sia la descrizione delle cose
in terza persona. È il contrario: la prospettiva relazionale mostra
che la fisica è sempre descrizione della realtà in prima persona,
da una prospettiva”. (p, 178-179)
Quando anche la fisica quantistica, per il medesimo candeggio, cessa
di essere costretta entro la cosmogonia dell’infinitamente piccolo,
essa diviene disponibile a rappresentare le dinamiche aperte delle
relazioni infra e intrapersonali. Quindi della realtà tutta, visto
che questa non è che arbitraria, autoreferenziale e autopoietica
narrazione generata da noi, dai nostri sentimenti e dalle nostre
esigenze e costellazioni.
Tutto ciò, tende a sussistere, nonostante la legittima e ineludibile
prospettiva egoica, in quanto, riconoscendo il processo di
identificazione con essa, possiamo emanciparcene, prenderne le
distanze e avviarci a vedere la verità di una narrazione non
meccanicista del mondo.
Così accadendo, diviene accessibile anche l’interruzione della
crociata razionalista contro il mondo quantico o magico, nel quale
altri si identificano. Tale frattura dell’incantesimo culturale è,
a sua volta, la premessa per avviare un cammino di conoscenza che
nulla ha a che fare con i saperi parcellizzati e superficialmente
cognitivi, gabbie esiziali delle consapevolezze necessarie al cambio
di paradigma esistenziale. Da quello conflittuale ed egologico
a quello armonico ed ecologico.
“Ma le grandi speranze di noi minuscole creature mortali sono brevi
sogni. La chiarezza concettuale della fisica classica è stata
spazzata via dai quanti. La realtà non è come la descrive la
fisica classica”. (p, 82)
A patto di unire i punti giusti, sono diverse sovrapposizioni tra
fisica quantistica, conoscenza e condizione umana.
L’intreccio (entanglement), allude alla permanenza del
legame tra due entità prima unite e poi separate e allontanate. La
simultanea reazione di entrambe – quindi il perdurare dello stato
di unità originario – allo stimolo su una soltanto è disponibile
a rappresentare quanto accade nei legami sentimentali-affettivi.
Proprio come se il cosiddetto infinitamente piccolo (fisica)
sottostesse a dinamiche corrispondenti a quelle del cosiddetto mondo
sottile (magia). Gli oggetti, energia in forma di materia, sono
legati tra loro, il vuoto creato dalla scienza, che li separerebbe,
non esiste, è un’illazione.
“La sua matematica non descrive la realtà, non ci dice «cosa
c’è». Oggetti lontani sembrano connessi tra loro magicamente”.
(p13)
Se da quanto appena detto, lo spazio perde i suoi connotati
meccanicistici che ne fanno un’estensione entro la quale trovano
posto gli elementi del reale, necessariamente li perde anche il
tempo, visto che nel dualismo, uno è interfaccia e misura
dell’altro.
Ciò non avviene solo entro il piccolo mondo subatomico. Pari disegno
si mostra anche in quello macroscopico della realtà a misura d’uomo.
Accade nell’emozione, ancora lei.
A mezzo di essa possiamo rivivere una condizione esistenziale del
cosiddetto passato, come se il tempo di adesso fosse tornato al
presente di allora, annullando nella sua durata anche lo spazio in
cui ci troviamo.
Sebbene tutti abbiamo esperienza della brevissima vita di questi
stravolgimenti spazio-temporali, possiamo considerare l’eventualità
di una loro più lunga o permanente presenza in noi. È esattamente
quanto accade in occasione delle nuove consapevolezze, nient’altro
che immersioni in nuove emozioni, in cui ci troviamo a condividere le
verità altrui, prima rifiutate. Un nuovo stato in cui, si realizza
uno spazio in cui vedere l’altro come un noi e il tempo esteso al
solo presente, ovvero l’arbitrarietà meccanicista della creazione
del passato e del futuro, del tempo lineare e della sua
irreversibilità.
A mezzo dell’immaginifica linearità della nostra biografia e della
storiografia possiamo seguitare per una vita a dire io e storia,
pensando di riferire entità oggettive come neppure un posacenere può
essere.
L’io, la storia, e la realtà che raccontiamo non sono che verità
strumentali alla loro esistenza, quindi effimere o impermanenti.
Null’altro che una rappresentazione bidimensionale e temporale
dell’infinito, che componiamo e siamo, utile alla gestione
amministrativa della vita. Vera solo non in quella piccola
prospettiva scambiata per tutto ciò che esiste e che declamiamo come
se il mondo fosse perennemente così come lo stiamo vedendo. Come una
fotografia, che pur non potendo riferire l’insieme della realtà
fotografata, è di fatto, tanto da chi la scatta, quanto da chi la
vede, concepita con quel potere. Uno slittamento di piani che fa
perdere di vista la realtà dell’immagine, cioè che comporta la
sovrapposizione di questa alla realtà più ampia della quale ha
ripreso un frammento, un disegno, una costellazione. L’accredito
che diamo a qualcosa, ha il potere magico di indurre in noi
cambiamenti e nuove realtà.
Quindi, si può osservare come la realtà, per esistere, faccia a
meno dei principi della logica classica. I principi d’identità, di
non contraddizione e del terzo escluso, oltre che l’intreccio, li
oltrepassa anche nella duplice disponibilità energetica ad essere
particella o onda, prima di decantare in una delle due
espressioni in funzione dell’osservatore (magia) o del tipo di
strumento di misurazione (fisica). E anche la considerazione che
un’affermazione è sempre vera se ne individuiamo e condividiamo la
narrazione dalla quale scaturisce. Onde per cui, il terzo escluso non
è che la fotografia scambiata per il tutto.
Nonostante i paradossi della logica, spontanee confessioni della sua
inettitudine alla conoscenza che non sia tecnico-amministrativa, che
non sia senza peccato se non nei campi chiusi, regolamentati e
condivisi nelle regole, nel linguaggio e nel gergo specifico, i suoi
boriosi cultori non se curano e tirano dritto ad applicarla e farsene
vanto in tutti i contesti umani.
È anche per questo che l’intelligenza piatta della logica non può
intendere la portata della filosofia evincibile dal comportamento del
mondo subatomico, né di quella della magia, della reversibilità del
tempo, dell’ubiquità, dell’essere io e l’altro.
La posizione e/o la velocità della particella riscontrata dallo
strumento dell’osservatore non sono altro che la nostra descrizione
del mondo: altre osservazioni la riscontrano in altro punto e con
altra quantità di moto. Come davanti a un disegno di Escher o al
nastro di Möbius, non si sa dove ognuno posi gli occhi e quale
realtà possa descrivere di ciò che vede.
La figurazione umanistica di questa assurdità – direbbero Einstein
e tanti altri – si evince dal nostro mutare in funzione
dell’interlocutore. Un cangiare ad ampio spettro, visto che la
matrice del caleidoscopio che siamo è alimentata, come già detto,
da esigenze, emozioni, sentimenti, eccetera.
Dunque noi siamo sempre il solito io, nonostante questo possa
rappresentare nel tempo ambo le parti di qualunque dualità. Un’unità
quindi che pur rimanendo se stessa può essere A quanto, nel tempo,
essere B nell’istante dell’interlocuzione. Anche in questo caso
il principio di non contraddizione viene a perdere il suo dominio, in
quanto l’io non avverte alcuna contraddizione, né interruzione di
se stesso, se non appunto logica.
Sul piano di realtà che stiamo adottando per riconoscere le
similitudini tra microscopico e macroscopico, si trova una terza
circostanza.
Come per la particella subatomica non si può prevedere
contemporaneamente, con approssimazione meccanicistica, la quantità
di moto (velocità) e la sua posizione nello spazio, così di un
interlocutore non possiamo anticipare la sua reazione al nostro
cospetto. Quindi, urtando qualcuno, potremmo trovarci davanti alle
sue scuse o al suo coltello. In sostanza, in relazioni aperte,
sussiste sempre l’imprevedibilità assoluta. Nei confronti della
quale si cerca maldestramente di adottare il rischioso criterio del
calcolo delle probabilità per ipotizzare gli epiloghi degli eventi.
“Possibile che qualcosa sia reale rispetto a te ma non rispetto
a me?
Dove si parla finalmente di relazioni”. (p,79)
Si può dire che il punto centrale, tanto della fisica quantistica,
quanto di quello umanistico, sia la relazione. Chi riscontra la
costellazione che sostiene questa affermazione si trova costretto a
rivedere i pilastri sui quali aveva eretto le proprie convinzioni.
L’incastellatura generata dalla narrazione della meccanica classica
della realtà oggettiva, della conoscenza analitica, della
scomponibilità dell’intero come criterio di conoscenza, e del
principio di causa-effetto, ha ragione di essere spodestata dal suo
dominio culturale.
“Una realtà più sottile di quella del materialismo semplicistico
delle particelle nello spazio. Una realtà fatta di relazioni, prima
che di oggetti”. (p, 13)
In tutte le relazioni insorge una mente (Bateson)(4) che governa le
descrizioni del reale che ne seguono. La realtà quindi non può che
essere altro da esse come se, istante per istante, inconsapevolmente
fermassimo lo stocastico vorticare di tutto, un attimo prima
dell’evento heideggeriano, cioè di vederlo apparire alla coscienza
statico e descrivibile.
Come già detto, non possiamo fuggire a questa trappola ma possiamo
riconoscerla e vedere come ci cattura, per poi interrompere il
processo di identificazione con essa ed evolvere da uomini-ego a
uomini-cristo.
La sedia siamo noi
“Se andiamo a cercare la sedia in sé, indipendentemente dalle sue
relazioni con l’esterno, e in particolare con noi, non la
troviamo”. (p, 147)
Mentre il bambino gioca ad arrampicarsi, il nonno pensa al rischio
che corre, se l’affare è lo stesso, le due realtà sono
differenti. Tanto la vita piena del piccolo, quanto quella timorata
dell’adulto non sono che loro creature.
Gli istanti e l’eternità precedenti al momento della decantazione
della realtà descrivibile, hanno carattere contiguo, quantico e
magico, in quanto le forze emozionali-energetiche nel contesto (che
però, nulla esclude, come il battito d’ali della farfalla monarca
in Texas che fa scatenare la tempesta in Messico) fluttuano come
nugoli di moscerini, stormi nuvolari di storni, branchi di sardine
prendendo una certa forma nel momento in cui li osserviamo, base
della nostra narrazione.
“La conclusione è radicale. Fa saltare l’idea che il mondo debba
essere costituito da una sostanza che ha attributi e ci sforza a
pensare tutto in termini di relazioni”. (p, 143)
Lorenzo Merlo
Note
Tutti i brani citati sono tratti da:
Carlo Rovelli, Helgoland, Milano, Adelphi, 2020.
L’ordine
del discorso, Einaudi.
https://www.youtube.com/watch?v=wU-JcKB9hC4
Contributi
alla filosofia (Dall’evento), Adelphi.
Verso
un’ecologia della mente, Adelphi; Mente e natura - Un’unità
necessaria Adelphi; Una sacra unità - Altri passi verso
un’ecologia della mente Adelphi.