lunedì 10 febbraio 2025

L'industrializzazione ed il precipitare della civiltà umana...

 


Sebbene il bottone rosso dell’allarme sia stato pigiato fin dagli albori dell’industrializzazione – mi riferisco a Ralph Waldo Emerson a Henry David Thoreaue a Walt Whitman – per segnalarne l’implicito potenziale nefasto, il pazzo treno dell’ingordigia non è stato fermato. Non solo, la sirena non ha mai cessato di diffondere l’avvertimento per tutto il tempo che ne è seguito fino a noi. Mi riferisco a Spencer, Heidegger, Jünger, Guénon, Nietzsche, Debord, Pasolini, Næss, Ceronetti, Gaber, De André e, per ultimo Todd (1), per ricordare tra tutti quelli al momento affacciati alla mia memoria. Ma anche la loro voci, le loro poesie, le loro canzoni e le loro argomentate critiche sono cadute nel liquamoso pozzo nero del pensiero unico. Un sito oscuro in cui tutto l’umanesimo non è che cibo per i caimani del profitto e del controllo che vi sguazzano. Il totem dell’uniformizzazione emerge al centro come un faro nella nebbia. Intorno ad esso nuotano i resti umani degli uomini. Dal bordo del pozzo ne si sente il vociare disperato e le urla strazianti. Sono le loro speranze e loro preghiere di salvezza. I due sintomi terminali del si salvi chi può.

Grida, questa volta, dal basso e corifere, non più solo intellettuali e raffinate, tutte di carne, per nulla organizzate e neanche razionali, ma spontaneo e irreprimibili che, più di quanto possa un discorso, un proclama o un intento, corrono su ponti emozionali, diffondendosi e raggiungendo per simpatia, prima delle orecchie, i cuori di molti.

Se l’edonismo, con la sua nostrana Milano da bere, aveva rotto gli argini di un modo di pensare economico, politico e privato di tipo analogico, quindi umano, e la foga globalistica ha invece avuto il nefasto merito di inondarne i solchi tradizionali, in cui la vita trovava il suo senso e il suo scopo, annegando le ragioni di identità individuale e comunitaria, è stata la digitalizzazione a frantumare l’orizzonte di terra, sostituendolo con uno virtuale così ben fatto e soddisfacente da entusiasmarne i nativi. Perché digitale significa senza alcuna possibilità di relazione umana, millimetrico controllo fisico e psicologico da remoto, al fine dell’elaborazione di algoritmi sempre più preveggenti dei nostri gusti consumistici e dei nostri intenti di potenziale fastidio dell’ordine imposto. Due momenti sostanziali per mantenere la rotta egemonica che i potentati occidentali cercano di non perdere.

Lo smarrimento nei confronti del futuro è generale, in quanto è chiaro che in esso non siamo previsti se non come carte di credito da consumi. Il progetto di ciò che verrà non ha spazio se non per qualsivoglia strategia obbediente al solo comandamento di ridurre il costo del lavoro al fine di tenere testa alle flotte del mar giallo d’oriente, in navigazione verso occidente, e contemporaneamente cercare di arginare quelle acque per evitare diventino il solo oceano del mondo.

Per questo e nessun altro motivo siamo arrivati al 24 febbraio 2022, alla conseguente criminalizzazione della Russia, orso da abbattere al più presto per poi occuparsi dei panda ancora più a est. Per questo motivo l’opera immonda di Israele, peggiore di quella hitleriana, in quanto venuta dopo, non ha motivo d’essere contrastata. Come rinunciare all’occasione ben provocata, di istituire una più solida base occidentale nel cuore del Medio Oriente?

Alla digitalizzazione, quale discendenza spontanea ha fatto seguito l’intelligenza artificiale, portatrice sana dei virus più devastanti di un’atomica, geniale arma di innocente distruzione di massa, formidabile strumento fratricida, i cui untori inconsapevoli siamo noi, cavallette devastatrici dell’ultimo campo esistenziale in cui si potevano coltivare gli ultimi nutrimenti umani.

Il valore della solidarietà, il senso di umanità, la percezione di essere misteriosi miracoli cosmici non poteva che perire sotto il fuoco che una volta, fino a pochi anni fa, era amico, cioè sparato dai tanti invaghiti che, come al tempo delle dittature, hanno scelto di adeguarsi per cercare di raggiungere un posto al sole.

Ma la caduta del plinto storico sul quale gli uomini poggiavano se stessi e il loro immaginario già indebolito, è dovuto anche ad altre crepe demolenti. Anche se l’elenco di ciò che ha insistito sul plinto fino a farlo cedere è ben più consistente, esso è crollato anche per l’insostenibile peso della finanziarizzazione dell’economia, dell’immigrazione sconsiderata, della prostrazione dei sindacati, primi fautori della vittoria del precariato nella sua sarcomerica forma liberistica.

Il vorticoso precipitare è simile a una orgiastica festa eticamente blasfema, bagnata da rovesci di coriandoli e cascate di champagne, come quelle dei campioni sul podio, alla quale la sinistra, mossa dalla convinzione di trovare di che rinnovare sé stessa, ha partecipato con entusiasmo. Nell’ebbrezza del nuovo corso, ha dimenticato che l’aggiornamento di sé avrebbe dovuto quantomeno non ripudiare la propria missione popolare. Così si è data svendendo, se non regalando anima e corpo, abbracciando le nuove politiche economiche e dei diritti individuali, con le quali, credendo di stare al passo dei tempi, di fatto ha reciso il canapone che la teneva ormeggiata alla banchina sociale che l’aveva varata.

Il progressismo, idolatria dei progressisti assolutamente europeista e occidentale, sembra il protagonista di uno psicothriller artefatto, ma invece è vero ben più di quanto potesse esserlo 1984 di George Orwell. L’Unione Europea, ora con le pazze donne che la guidano, quell’entità nata per calcolo economico, abortita da subito per mancanza di un’anima comunemente sentita e riconosciuta da nessuno se non dai commercianti e dai non eletti che ne ciucciano denaro seduti al più autoreferenziale parlamento della storia umana, tenuta in vita da un accanimento ideologico pari alle opere d’ingegno umano tra le più mirabolanti e per la quale nessuno è disposto a staccare la spina. È questo il cuore freddo dell’Unione Europea, un protostato dello spessore del domopack, senza una politica degna di questo nome, che non sia fare i desiderata di pochi e essere sorda alla voce dei molti. Un comandante arrogante e repressivo, ma senza seguito, sta conducendo una battaglia, prima che contro il nemico che ha inventato, o che gli è stato indicato, contro i suoi popoli, che sa essere ammutinati in fieri.

Come se non bastasse il presente, nel passato il calcolo della maternità surrogata dalla quale è nata la Comunità Economica Europea, poi Europa Unita e oggi Unione Europea era errato. E c’è da credere lo sapessero. Se Prodi e i suoi amici dicevano che il cambio lira/euro sarebbe stato a favore degli italiani, se diceva che avremmo perciò potuto lavorare meno e guadagnare di più, siamo ora – e da tempo – alla resa di impietosi conti, il cui totale tecnico lascio agli esperti, ma la cui somma negativa è un fatto, ovvero l’allargata e crescente fascia sociale sempre più vessata, sempre più povera, sempre più larga, sempre più precarizzata e sempre più odiata, proprio e in primis da quella sinistra che l’aveva avuta come madre. Ma sempre meno tollerante.

Mentre precipitiamo aumenta il numero di chi finalmente sta vedendo l’onda lunga, quella che a star dietro al gossip del mondo non ha modo di sorgere all’orizzonte della consapevolezza. Così, la ricchezza mondiale, sempre più concentrata nelle mani di infime percentuali di entità e di uomini, che fa quadrato e spontaneo cartello contro il resto del mondo per costringerlo entro il paddok e seguitare a mungerlo, non è più identificata come una notizia bufala, da complottista, ma qualcosa a cui prestare attenzione, qualcosa per cui prendere le distanze dal divano. Cosicché, siamo al punto che i privati controllano il mondo, più di quanto non possano i nostri voti, in particolare quello cosiddetto occidentale e democratico. Spadroneggiano con il presunto diritto di uccidere e con quello di decidere le sorti politiche degli stati e di miliardi di persone. La storia nell’epoca del digitale sanguina assai di più di quanto non accadesse in quello analogico dell’arma bianca.

Dunque l’urlo corifero – dicevamo in apertura – come ad ogni tornata, cioè ad ogni volta che si ritorna a fare mente locale di quanto sta accadendo, del buco nero in cui stiamo precipitando, dovrebbe ora condensarsi in azioni di contrasto, almeno fino a quando un altro diversivo, come zucchero a velo cosparso sulla torta della realtà non sia cosparso come bombe a grappolo sui nostri pensieri e sentimenti dai droni della grande comunicazione per distrarci e finalmente lasciarci tornare sul divano guardare Sanremo.

Lorenzo Merlo




P.S. Da quando il precipitare ha cessato di essere mala prospettiva e fastidioso sentore ed è divenuto sempre più chiaro agli occhi di un popolo che, grossolanamente, può essere rappresentato solo dal partito dell’astensione, sono susseguiti innumerevoli interventi di denuncia socio-politico-economico-sociale. Se tutte queste energie siano cadute nel niente – che resta dietro le reti a strascico del digital-capitalismo – o se hanno qualche potere di fare breccia non si sa. La loro natura dipende da chi sente il vuoto sotto di sé. Giungeremo in fondo sfracellandoci o avremo modo di salvarci? La nostra identità e i nostri valori saranno spariti o potremo ancora credere nella politica, nella democrazia?


Nota

  1. Emmanuel Todd, La sconfitta dell’Occidente, Fazi, 2024.

  2. vedi anche: https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/02/05/dazi-trump-austerita-unione-europea/7864150/


domenica 9 febbraio 2025

Ritorno al passato... nel futuro!

 


Fino a poco tempo fa le parole con il prefisso ‘pro’—progresso, produttività, prosperità e termini affini—erano obiettivi a cui miravano tutte le società ‘evolute’. Spesso erano identificate con concetti come ‘sviluppo’, ‘modernizzazione’ e—anche se il termine non si usa più in senso positivo—perfino ‘industrializzazione’. Ora stiamo facendo una veloce marcia all’indietro… Abbiamo ‘visto il futuro’ e non ci piace poi tanto…

La fuga sociale davanti al ‘futuro passato’ è particolarmente evidente in un recente annuncio dell’attuale governo ‘laburista’ inglese, intenzionato a ridurre gli spazi agricoli nel paese di oltre il 10%, perlopiù restituendoli ‘alla natura’. È una proposta che corrisponde alla visione dell’elettorato ‘Labour’, fortemente concentrato nei grandi centri metropolitani con una popolazione che tende ad identificare emotivamente le terre agricole con il ‘verde urbano’—cioè, con i parchi—e che alla domanda: ‘Da dove vengono gli alimenti che consumiamo?’, è incline a replicare: “Dal supermercato, ovviamente”. Lasciare tutti quegli ettari di ‘verde’ a gente che ci sparge sopra il letame gli pare uno spreco ovvio quanto terribile…

La mossa era stata in qualche modo già preparata con una modifica al sistema di tassazione delle eredità in Gran Bretagna che rende molto difficile il passaggio generazionale dei terreni agricoli, in passato sostanzialmente esentasse e ora invece molto caro. Il problema politico degli agricoltori, spesso trasformati dalla propaganda sul tema in ‘proprietari terrieri’—e dunque implicitamente in ‘ricchi’—è che qualche ettaro di pascolo non è che produca molta prosperità. Tuttavia, senza quegli spazi non produce proprio niente e il senso economico dell’operosità agricola scompare del tutto.

Ad ogni modo, la stampa inglese riferisce che il Department for Environment, Food and Rural Affairs (Defra) del Governo britannico prevede che: “Circa il 9% dei terreni agricoli dovrà essere sottratto alla coltivazione entro il 2050 per soddisfare gli ‘obbiettivi green’ prestabiliti. Un altro 5% dovrebbe restare incolto a causa di un previsto declino della produzione alimentare e un ulteriore 4% ancora dovrebbe essere ‘condiviso con gli alberi’…” 

Un alto esponente del Defra, il Segretario per l’Ambiente Steve Reed, ha chiarito: “Il Governo ha l’obiettivo di incrementare la copertura boschiva in Inghilterra del 20%—cioè, di 265mila ettari—entro il 2050. Ciò verrà sostenuto per circa un terzo da un cambiamento nell’utilizzo dei terreni agricoli (...) e in più conserveremo il 30%  delle nostre terre per la natura…”

 James Hansen 



sabato 8 febbraio 2025

Magia. Scienza suprema...



La Magia, per chi ha riconosciuto il suo contenuto energetico non è altro che la Scienza suprema. Questa, assolutamente fraintesa e inopportunamente concepita dalla modalità scientista-materialista-determinista, non è che una retrograda, se non pericolosa, barzelletta e realtà assurda, per la quale non c’è ragione di occuparsene, quindi reietta. Così, non ci risulta il carattere relazionale della realtà a favore della sua natura pretestuosamente oggettiva e dei suoi attributi che esisterebbero indipendentemente da noi.

Per magia

“Ma prendere sul serio la meccanica quantistica, riflettere sulle sue implicazioni, è un’esperienza quasi psichedelica: ci chiede di rinunciare, in un modo o nell’altro. a qualcosa di quanto ci sembra solido e inattaccabile nella nostra comprensione del mondo. Ci chiede di accettare che la realtà sia profondamente diversa da quanto immaginavamo”. (p, 15) [Vedi Note per la fonte di tutti i brani citati.]

Se candeggiati dall’intossicazione scientista-materialista, si può riconoscere in che termini le dinamiche filosofiche presenti ed evincibili dalla fisica quantistica siano, nel loro modo di agire, sovrapponibili a quelle della magia o della realtà energetica, relazionale o, meglio e più semplicemente – o magicamente – della conformazione della realtà. Cioè, della realtà stessa.

“La realtà potrebbe essere più complessa dell’ingenuo materialismo della fisica settecentesca”. (p, 134)

“Non ci sono fenomeni quantistici in laboratorio e fenomeni non quantistici altrove: tutti i fenomeni sono in ultima analisi quantistici”. (p, 142)

La narrazione del mondo esaurito nel misurabile ha le sue verità (La verità è nel discorso. Foucault) (1), che questa cultura concepisce però come assolute. È un abbaglio, che la filosofia sorta dalla fisica quantistica riduce da definitive a parziali, esattamente come noto da millenni nell’ordine della scienza suprema.

Le consapevolezze che entro il dualismo ogni proposizione è necessariamente limitata, che entro l’egocentrismo è necessariamente interessata, quindi faziosa in quanto destinata a sostenere se stessi, permette di riconoscere che ogni narrazione non è che un’agiografia di chi la esprime, basata sulla scomposizione dell’intero, in quanto non in potere di coglierlo.

Una storiografia siffatta è mossa dal movente di allontanare il crollo che la morte garantisce all’ego con cui siamo identificati. Una disfatta impossibile se emancipati dal dualismo, in quanto la morte, come una sedia, le siamo già, e così pure tutto il resto. Quelle consapevolezze, infatti, ci offrono un orizzonte altrimenti precluso, oltre il quale possiamo vedere e vivere l’unità degli opposti, gli altri come dei noi e il cosmo come energia, quella stessa che vibra in tutte le cose e che, in molta letteratura evolutiva è detta amore. Nonostante ciò comporti armonia, la diffusa concezione distorta sulla scienza suprema è così radicale da garantire, a chi la condivide, il diritto illuministico di estradarla dalla cultura, di ghettizzarla in enclave come un’untrice del male.

Nonostante la boriosa vanagloria con la quale la cultura analitico-logico-razionalista si pavoneggia, alla pari della diva del momento, puntando il dito in direzione della – secondo lei – vera conoscenza, essa, proprio essa, nient’altro che essa è all’origine del fraintendimento della natura della magia.

Esattamente come dicono tutte le tradizioni magico-sapienziali accreditare di verità le narrazioni mondane è impedirsi di vedere come queste non siano che ologrammi che compaiono solo e soltanto al nostro cospetto e secondo certa angolazione, fuori dalla quale scompaiono. A suo tempo Claudio Rocchi lo aveva raccontato liricamente. (2)

Ma ora, alla voce delle tradizioni si unisce quella della filosofia della fisica quantistica.

“Ma allora attribuire sempre e necessariamente proprietà a una cosa, anche quando non interagisce, è superfluo, e può essere fuorviante. È parlare di qualcosa che non esiste: non ci sono proprietà al di fuori delle interazioni”. (p, 87-88)

L’egemonia del pensiero meccanicista è molto simile a quello progressista: senza coercizione, entrambi impongono ai loro sudditi, servi e idolatri, il pensiero unico. Se ne hai di non conformi sei fuori. Ah, cosa ti combinano i paladini della scienza e quelli della democrazia! Popper e Voltaire hanno di che soffrire.

Nonostante la prosopopea del pensiero razionalista, quale solo idoneo a condurci verso i confortanti lidi della verità, l’equivoco – non solo quello nei confronti della magia – infesta le relazioni come un’erbaccia immune alle sue medicine di presunta discernente saggezza. Così, i caldi arenili tropicali della conoscenza che pretende di garantirci, si rivelano essere un miraggio, evanescente suggestione della chiesa scientista, che si rivelano aride terre sterilizzate dal sangue della sofferenza e dei conflitti.

“C’è stato un momento in cui la grammatica del mondo sembrava chiarita: alla radice di tutte le variegate forme della realtà sembravano esserci solo particelle di materia guidate da poche forze. L’umanità poteva pensare di avere sollevato il velo di Maya: aver visto in fondo alla realtà”. (p, 12)

A patto di non interrompere il candeggio su citato, cioè l’emancipazione dalle regole culturali apprese a casa e a scuola, viste in tv e lette sui giornali e ricalcate dalla politica, per riconoscerne l’autoreferenzialità e per liberarsi dalla coercizione di creatività che implicano, è a disposizione di chiunque l’accesso alla prospettiva nella quale l’assolutismo logico-meccanicista cessa di mortificare l’infinito che siamo, per divenire semplice strumento funzionale per certi lavori amministrativo-regolamentati, ma inidoneo a fornire alcun servizio, se non quello dell’equivoco, quando si tratta di relazioni aperte. Dunque assai utile per muoversi entro un meccanismo chiuso, caratterizzato dalla presenza di regole note e condivise, ma inetto a muoversi in campo libero, che ne è l’opposto, cioè un territorio relazionale dove il nostro stato ne incontra un altro o si relaziona a qualcosa di sconosciuto.

Se l’equivoco è descrivibile anche a mezzo di emozioni differenti che contengono gli interlocutori, tale figurazione permette di comprendere come il significato che diamo a un’affermazione possa non passare indenne da deformazioni da una persona ad un’altra, cioè da un universo a un altro. Le emozioni sarebbero infatti forze, che generano in noi precisi universi personali, corrispondenti ai sentimenti e ai pensieri della coscienza. Nelle libere interlocuzioni tra due entità non sempre, anzi raramente, si toccano nel punto e nel momento funzionale alla comunicazione. Per alzare il rischio di contattare l’altro ente, più che la dialettica razionale torna utile quella dell’ascolto, più che il giudizio, l’accoglienza.

L’equivoco che, come detto da Marshall McLuhan e ribadito da Paul Watzlawick, Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Gregory Bateson, Ernst von Glasersfeld e chissà quanti altri, regna nella comunicazione. Esso sorprende soltanto i razionalisti, convinti che una buona affermazione sintatticamente compiuta comporti comunicazione, ma non la madre, né il didatta, né il terapeuta. Il razionalista non vede né rispetta il gradiente di motivazione, né lo stato del destinatario della sua affermazione.

Ed è sempre lui, il razionalista, che davanti all’equivoco conclamato non ne fa scuola e preferisce giudicare. Non si mette a cercare l’origine dell’incomprensione: la mia affermazione era compiuta! Dice. No! Lui si accontenta, anzi, è soddisfatto di poter giudicare e valutare l’altro che non ha capito la sua perfetta affermazione. Così parla l’ignaro meccanicista, ovvero colui che ritiene ci sia un solo mondo per tutti e che tutti lo si stia vedendo come lo vede lui.

Altro che caldi lidi tropicali.

Il razionalista per ragioni di autostima, per parare il colpo della inspiegabile – direbbe lui – inefficacia della sua forbita e argomentata azione-affermazione, è costretto dai suoi schemi a rifugiarsi nell’attribuzione di responsabilità: è lui che non capisce, al contrario, il mago, nient’altro che il consapevole del potere delle emozioni e degli universi diversi che siamo o possiamo essere, ha in sé la chiaroveggenza per indagare le ragioni del fallimento della comunicazione tra infiniti.

Non solo. Egli osserva che, al fine della condivisione del discorso, l’accredito della fonte da parte del destinatario, è sostanziale. Egli vede lo stato permanente di latente mutamento di quegli infiniti, fino ad essere in grado di riconoscere quando e come mettervisi in contatto o rinunciare quando, a sua volta, sente di essere perturbato.

Un infinito, il cui mutamento non è limitato ad una caotica rivoluzione delle entità che li compongono, nonché agli stocastici scontri tra queste, ma ad un cangiante allineamento e selezione personalizzata di queste, che avviene (Heidegger)(3) e si cristallizza nel momento in cui ne siamo al cospetto, e avvengono nel pensiero.

“L’onda evolve nel tempo seguendo l’equazione scritta da Schrödinger, solo fintanto che non la guardiamo. Quando la guardiamo, puff!, si concentra in un punto, e lì vediamo la particella.

Come se il solo fatto di osservare fosse sufficiente a modificare la realtà”. (p, 42)

È quello l’istante in cui l’emozione che ci avviluppa impone i suoi dictat selezionatori tra infiniti elementi e la conseguente concezione del mondo fondata sui pochi che ha scelto e alla relativa piatta e sterile – salvo per chi condivide la cernita – descrizione della realtà per quello che effettivamente è. Così fanno tutti i devoti all’attuale ordine culturale e della sua narrazione di realtà.

Nonostante l’evidenza che ci sia qualcosa da capire se tutti siamo allenatori, cioè se tutti abbiamo in bocca la vera descrizione, ciò non ci spinge a sospettare che stiamo adottando un sistema bacato, né ad indagarlo per scovare l’ontologia dell’equivoco. Ma, con la pistola fumante del giudizio e della valutazione, ci affrettiamo a cercare ulteriori selezioni dall’infinito a sostegno di quanto già affermato.

Se tutto ciò non facesse rabbrividire, farebbe ridere. Se non comportasse guerre e pene si potrebbe stare tranquilli entro l’enclave senza il terrore di persecuzioni, colpevolizzazioni, di andare a finire male.

  • E i diritti delle minoranze? Chiese.

  • Ma quali minoranze, quelli sono ciarlatani. Uccideteli. Rispose.

Come le crune allineate delle asce di Ulisse, appena accade di coniugare alcuni frammenti dell’infinito e vederne la costellazione, scocchiamo il dardo, l’affermazione, la verità. E chi non sa cogliere dal proprio cielo interno nessun disegno, ha sempre la stella polare del luogo comune a cui fare appello.

Le crune ideologiche, quelle moralistiche e quelle religiose, nonché quelle dell’interesse personale dispongono dell’incantevole fascino al quale non manchiamo di sottometterci, che non manchiamo di difendere con qualunque mezzo, con qualunque potenza di fuoco, fino alla morte dei rei se necessario. Cioè di coloro giudicati colpevoli di aver allineato altre scuri per altre ideologie, religioni, moralismi, interessi personali. Nel mondo, che se non fosse tragico sarebbe ridicolo, quello in cui io non sono tu, la battaglia è permanente, vincere è un dovere, soccombere è latente.

Facci caso

“L’errore è assumere che la fisica sia la descrizione delle cose in terza persona. È il contrario: la prospettiva relazionale mostra che la fisica è sempre descrizione della realtà in prima persona, da una prospettiva”. (p, 178-179)

Quando anche la fisica quantistica, per il medesimo candeggio, cessa di essere costretta entro la cosmogonia dell’infinitamente piccolo, essa diviene disponibile a rappresentare le dinamiche aperte delle relazioni infra e intrapersonali. Quindi della realtà tutta, visto che questa non è che arbitraria, autoreferenziale e autopoietica narrazione generata da noi, dai nostri sentimenti e dalle nostre esigenze e costellazioni.

Tutto ciò, tende a sussistere, nonostante la legittima e ineludibile prospettiva egoica, in quanto, riconoscendo il processo di identificazione con essa, possiamo emanciparcene, prenderne le distanze e avviarci a vedere la verità di una narrazione non meccanicista del mondo.

Così accadendo, diviene accessibile anche l’interruzione della crociata razionalista contro il mondo quantico o magico, nel quale altri si identificano. Tale frattura dell’incantesimo culturale è, a sua volta, la premessa per avviare un cammino di conoscenza che nulla ha a che fare con i saperi parcellizzati e superficialmente cognitivi, gabbie esiziali delle consapevolezze necessarie al cambio di paradigma esistenziale. Da quello conflittuale ed egologico a quello armonico ed ecologico.

“Ma le grandi speranze di noi minuscole creature mortali sono brevi sogni. La chiarezza concettuale della fisica classica è stata spazzata via dai quanti. La realtà non è come la descrive la fisica classica”. (p, 82)

A patto di unire i punti giusti, sono diverse sovrapposizioni tra fisica quantistica, conoscenza e condizione umana.

L’intreccio (entanglement), allude alla permanenza del legame tra due entità prima unite e poi separate e allontanate. La simultanea reazione di entrambe – quindi il perdurare dello stato di unità originario – allo stimolo su una soltanto è disponibile a rappresentare quanto accade nei legami sentimentali-affettivi. Proprio come se il cosiddetto infinitamente piccolo (fisica) sottostesse a dinamiche corrispondenti a quelle del cosiddetto mondo sottile (magia). Gli oggetti, energia in forma di materia, sono legati tra loro, il vuoto creato dalla scienza, che li separerebbe, non esiste, è un’illazione.

“La sua matematica non descrive la realtà, non ci dice «cosa c’è». Oggetti lontani sembrano connessi tra loro magicamente”. (p13)

Se da quanto appena detto, lo spazio perde i suoi connotati meccanicistici che ne fanno un’estensione entro la quale trovano posto gli elementi del reale, necessariamente li perde anche il tempo, visto che nel dualismo, uno è interfaccia e misura dell’altro.

Ciò non avviene solo entro il piccolo mondo subatomico. Pari disegno si mostra anche in quello macroscopico della realtà a misura d’uomo. Accade nell’emozione, ancora lei.

A mezzo di essa possiamo rivivere una condizione esistenziale del cosiddetto passato, come se il tempo di adesso fosse tornato al presente di allora, annullando nella sua durata anche lo spazio in cui ci troviamo.

Sebbene tutti abbiamo esperienza della brevissima vita di questi stravolgimenti spazio-temporali, possiamo considerare l’eventualità di una loro più lunga o permanente presenza in noi. È esattamente quanto accade in occasione delle nuove consapevolezze, nient’altro che immersioni in nuove emozioni, in cui ci troviamo a condividere le verità altrui, prima rifiutate. Un nuovo stato in cui, si realizza uno spazio in cui vedere l’altro come un noi e il tempo esteso al solo presente, ovvero l’arbitrarietà meccanicista della creazione del passato e del futuro, del tempo lineare e della sua irreversibilità.

A mezzo dell’immaginifica linearità della nostra biografia e della storiografia possiamo seguitare per una vita a dire io e storia, pensando di riferire entità oggettive come neppure un posacenere può essere.

L’io, la storia, e la realtà che raccontiamo non sono che verità strumentali alla loro esistenza, quindi effimere o impermanenti. Null’altro che una rappresentazione bidimensionale e temporale dell’infinito, che componiamo e siamo, utile alla gestione amministrativa della vita. Vera solo non in quella piccola prospettiva scambiata per tutto ciò che esiste e che declamiamo come se il mondo fosse perennemente così come lo stiamo vedendo. Come una fotografia, che pur non potendo riferire l’insieme della realtà fotografata, è di fatto, tanto da chi la scatta, quanto da chi la vede, concepita con quel potere. Uno slittamento di piani che fa perdere di vista la realtà dell’immagine, cioè che comporta la sovrapposizione di questa alla realtà più ampia della quale ha ripreso un frammento, un disegno, una costellazione. L’accredito che diamo a qualcosa, ha il potere magico di indurre in noi cambiamenti e nuove realtà.

Quindi, si può osservare come la realtà, per esistere, faccia a meno dei principi della logica classica. I principi d’identità, di non contraddizione e del terzo escluso, oltre che l’intreccio, li oltrepassa anche nella duplice disponibilità energetica ad essere particella o onda, prima di decantare in una delle due espressioni in funzione dell’osservatore (magia) o del tipo di strumento di misurazione (fisica). E anche la considerazione che un’affermazione è sempre vera se ne individuiamo e condividiamo la narrazione dalla quale scaturisce. Onde per cui, il terzo escluso non è che la fotografia scambiata per il tutto.

Nonostante i paradossi della logica, spontanee confessioni della sua inettitudine alla conoscenza che non sia tecnico-amministrativa, che non sia senza peccato se non nei campi chiusi, regolamentati e condivisi nelle regole, nel linguaggio e nel gergo specifico, i suoi boriosi cultori non se curano e tirano dritto ad applicarla e farsene vanto in tutti i contesti umani.

È anche per questo che l’intelligenza piatta della logica non può intendere la portata della filosofia evincibile dal comportamento del mondo subatomico, né di quella della magia, della reversibilità del tempo, dell’ubiquità, dell’essere io e l’altro.

La posizione e/o la velocità della particella riscontrata dallo strumento dell’osservatore non sono altro che la nostra descrizione del mondo: altre osservazioni la riscontrano in altro punto e con altra quantità di moto. Come davanti a un disegno di Escher o al nastro di Möbius, non si sa dove ognuno posi gli occhi e quale realtà possa descrivere di ciò che vede.

La figurazione umanistica di questa assurdità – direbbero Einstein e tanti altri – si evince dal nostro mutare in funzione dell’interlocutore. Un cangiare ad ampio spettro, visto che la matrice del caleidoscopio che siamo è alimentata, come già detto, da esigenze, emozioni, sentimenti, eccetera.

Dunque noi siamo sempre il solito io, nonostante questo possa rappresentare nel tempo ambo le parti di qualunque dualità. Un’unità quindi che pur rimanendo se stessa può essere A quanto, nel tempo, essere B nell’istante dell’interlocuzione. Anche in questo caso il principio di non contraddizione viene a perdere il suo dominio, in quanto l’io non avverte alcuna contraddizione, né interruzione di se stesso, se non appunto logica.

Sul piano di realtà che stiamo adottando per riconoscere le similitudini tra microscopico e macroscopico, si trova una terza circostanza.

Come per la particella subatomica non si può prevedere contemporaneamente, con approssimazione meccanicistica, la quantità di moto (velocità) e la sua posizione nello spazio, così di un interlocutore non possiamo anticipare la sua reazione al nostro cospetto. Quindi, urtando qualcuno, potremmo trovarci davanti alle sue scuse o al suo coltello. In sostanza, in relazioni aperte, sussiste sempre l’imprevedibilità assoluta. Nei confronti della quale si cerca maldestramente di adottare il rischioso criterio del calcolo delle probabilità per ipotizzare gli epiloghi degli eventi.

Possibile che qualcosa sia reale rispetto a te ma non rispetto a me?

Dove si parla finalmente di relazioni”. (p,79)

Si può dire che il punto centrale, tanto della fisica quantistica, quanto di quello umanistico, sia la relazione. Chi riscontra la costellazione che sostiene questa affermazione si trova costretto a rivedere i pilastri sui quali aveva eretto le proprie convinzioni. L’incastellatura generata dalla narrazione della meccanica classica della realtà oggettiva, della conoscenza analitica, della scomponibilità dell’intero come criterio di conoscenza, e del principio di causa-effetto, ha ragione di essere spodestata dal suo dominio culturale.

“Una realtà più sottile di quella del materialismo semplicistico delle particelle nello spazio. Una realtà fatta di relazioni, prima che di oggetti”. (p, 13)

In tutte le relazioni insorge una mente (Bateson)(4) che governa le descrizioni del reale che ne seguono. La realtà quindi non può che essere altro da esse come se, istante per istante, inconsapevolmente fermassimo lo stocastico vorticare di tutto, un attimo prima dell’evento heideggeriano, cioè di vederlo apparire alla coscienza statico e descrivibile.

Come già detto, non possiamo fuggire a questa trappola ma possiamo riconoscerla e vedere come ci cattura, per poi interrompere il processo di identificazione con essa ed evolvere da uomini-ego a uomini-cristo.

La sedia siamo noi

“Se andiamo a cercare la sedia in sé, indipendentemente dalle sue relazioni con l’esterno, e in particolare con noi, non la troviamo”. (p, 147)

Mentre il bambino gioca ad arrampicarsi, il nonno pensa al rischio che corre, se l’affare è lo stesso, le due realtà sono differenti. Tanto la vita piena del piccolo, quanto quella timorata dell’adulto non sono che loro creature.

Gli istanti e l’eternità precedenti al momento della decantazione della realtà descrivibile, hanno carattere contiguo, quantico e magico, in quanto le forze emozionali-energetiche nel contesto (che però, nulla esclude, come il battito d’ali della farfalla monarca in Texas che fa scatenare la tempesta in Messico) fluttuano come nugoli di moscerini, stormi nuvolari di storni, branchi di sardine prendendo una certa forma nel momento in cui li osserviamo, base della nostra narrazione.

“La conclusione è radicale. Fa saltare l’idea che il mondo debba essere costituito da una sostanza che ha attributi e ci sforza a pensare tutto in termini di relazioni”. (p, 143)

Lorenzo Merlo




Note


Tutti i brani citati sono tratti da:

Carlo Rovelli, Helgoland, Milano, Adelphi, 2020.


  1. L’ordine del discorso, Einaudi.

  2. https://www.youtube.com/watch?v=wU-JcKB9hC4

  3. Contributi alla filosofia (Dall’evento), Adelphi.

  4. Verso un’ecologia della mente, Adelphi; Mente e natura - Un’unità necessaria Adelphi; Una sacra unità - Altri passi verso un’ecologia della mente Adelphi.


venerdì 7 febbraio 2025

Un discorso vegano sugli aminoacidi...



E’ opinione abbastanza diffusa che le proteine di derivazione animali siano di alto valore biologico perché dotate di  tutti i 22 aminoacidi, compresi quelli ritenuti essenziali che (si ritiene) che l’organismo non sia in grado di sintetizzare e che bisogna introdurli con gli alimenti. Ma l’eccellente salute di chi, da moltissimi anni, non fa uso di proteine animali dimostra che il nostro organismo sintetizza tutti gli aminoacidi, compresi quegli essenziali, attingendo  alle proprie riserve proteiche, come confermato dai vegan e dal famoso fisico francese Louis Kervran, membro dell’Accademia delle Scienze di New York, che dichiara: “Il nostro organismo, con intermediazione della flora batterica intestinale, può sintetizzare anche gli aminoacidi essenziali”. 

Diversamente come farebbero gli animali erbivori ad assicurarsi gli aminoacidi necessari a costruire le loro possenti masse scheletriche e muscolari mangiando solo vegetali?

Nella sostanza tutti gli aminoacidi sono essenziali; ma anche in una proteina completa di tutti i 22 aminoacidi quello presente in minore quantità assume le funzioni di “limitante” e la nuova proteina verrà prodotta solo finché dura la scorta dell’aminoacido presente in misura minore, che però l’organismo sarà in grado di sintetizzare.


Non solo, se per ipotesi, abbiamo bisogno di 40 grammi di proteine e un alimento, essendo carente di un aminoacido, è in grado di costruirne solo 20 gr di proteine, sarà sufficiente consumare un quantitativo doppio del medesimo alimento per arrivare ad avere i 40 gr suddetti di proteine. L’identico meccanismo che si verifica nell’alimentazione del gorilla, il bue, la mucca, il cavallo, il panda ecc. la cui alimentazione è esclusivamente vegetale.


Se per realizzare un metro cubo di calcestruzzo sono necessari 800 kg di ghiaia, 400 di sabbia, 300 di cemento e 150 litri di acqua; se di sabbia ne ho solo 250 kg non è che questo mi impedirà di realizzare il mio calcestruzzo, lo farò ugualmente finché avrò la giusta proporzione dei componenti necessari dopo di chè prenderò il resto che mi manca da un’altra scorta completa fino ai 250 kg di sabbia.


Ritengo fazioso affermare che le proteine animali siano superiori alle proteine vegetali e che i vegani per sopperire a tale carenza devono necessariamente abbinare cereali e legumi e che senza questo abbinamento non si potrebbe garantire all’organismo le proteine necessarie. Non si considera che sia i cereali che i legumi sono una realtà recente nella storia dell’alimentazione umana;  non si considera che i nostri progenitori sono vissuti per milioni di anni (cioè fino a circa diecimila anni fa) senza consumare cereali e legumi.


Coloro che mangiano prodotti animali per assicurarsi le proteine trascurano che insieme a queste assorbono anche tutte le sostanze dannose della carne e dei prodotti di derivazione animale, che è come mangiare la cicuta perché ricca di potassio trascurando i suoi effetti letali.



Franco Libero Manco - AVA  - francoliberomanco@fastwebnet.it






giovedì 6 febbraio 2025

Il Giardino della Gioia si arricchisce...

 


Il Giardino della Gioia, di San Nicandro Garganico (FG), insediamento sostenibile di case di terra e paglia e yurte, sparse in un uliveto sul mare, lancia nuove iniziative di ripopolamento del bosco e della comunità. 

Nell’ambito di un progetto europeo di agroforestazione in agricoltura sintropica, si piantumeranno 1000 piante tra alberi da frutto, piante erbacee e officinali, producendo cibo, bellezza e biodiversità. 

Contemporaneamente il Giardino lancia una chiamata, a chi sogna una vita in sintonia con la natura e gli umani, di andare a respirare l’energia armonica del posto, per magari accorgersi che è proprio il luogo che sognano per cambiare se stessi e il mondo. 


Due prime occasioni possono essere il corso sull’agricoltura sintyropica dell’8-9 febbraio e quello sui sistemi agroforestali del 21-23 marzo 2025.

Per info giardinidellagioia@gmail.com
Padma tel. 3299842608




mercoledì 5 febbraio 2025

Puglia. Mille proroghe mille disastri...

 


ll decreto Milleproroghe non ripristina e spazza via le norme che tutelavano gli ulivi in Puglia. Un ecocidio che diventa così permanente

Comunicato di: Associazione “Attuare la Costituzione” _ Comitato Ulivivo _ Associazione “Terra d’Egnazia” del 10.01.2025

Addio alla Puglia degli ulivi, dell’olio e della terra. Con il “milleproroghe”, il Governo ha deciso di distruggere definitivamente un territorio già martoriato da un decennio di leggi scellerate che, con il pretesto del batterio Xylella, hanno consentito l’abbattimento di migliaia di ulivi, secolari e monumentali, la devastazione di un ecosistema già fragile e la distruzione di un’economia locale florida.

Tantissimi cittadini, associazioni e agricoltori, attendevano con trepidazione il ripristino delle normative sospese esclusivamente grazie alla cosiddetta emergenza. Normative che impedivano l’abbattimento degli ulivi e tutelavano così un paesaggio unico al mondo. Oggi, grazie al decreto milleproroghe, quelle leggi vengono spazzate via per sempre, insieme al territorio pugliese.

All’art. 19 della bozza del decreto “milleproroghe” si fa riferimento infatti al Decreto 27/2019 art. 8 e seguenti (poi trasformato nella Legge 44/2019) che prevede la possibilità per sette anni di procedere all’estirpazione degli olivi in zona infetta con una semplice comunicazione alla Regione e «in deroga a ogni disposizione vigente, comprese quelle di natura vincolistica» (incluse VIA e VAS).

Un ecocidio legalizzato che ora, da tempo determinato, rischia di diventare permanente. Abrogando la dicitura “per un periodo di sette anni”, infatti, si da definitivamente spazio, a tempo indeterminato, ai loschi appetiti dei molteplici speculatori che stanno uccidendo la terra di Puglia.

Chi vorrà potrà abbattere ulivi anche monumentali senza dover dimostrare né la presenza del batterio né, tanto meno, il disseccamento. Questo significherebbe portare a compimento la completa riconfigurazione della regione Puglia, “liberando”, come qualcuno da tempo auspicava, i terreni dagli ulivi “obsoleti” (così definiti da alcune associazioni di categoria) e consegnarli alla speculazione del superintensivo e degli impianti agro-fotovoltaici.

Tutto ciò in evidente e imbarazzante violazione della normativa europea, essendo la verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (VIA) di diretta attuazione della Direttiva europea n. 2011/92/UE (così come modificata dalla Direttiva 2014/52/UE) sia per quel che concerne l’impatto ambientale di progetti pubblici e privati, sia per quel che riguarda gli “interventi sull’ambiente naturale o sul paesaggio”.

Pertanto, prevedere una deroga a vita alla normativa sulla Valutazione di Impatto Ambientale comporterà l’attivazione di una procedura d’infrazione per violazione della normativa comunitaria, che verrà pagata dai cittadini e, quindi, oltre al danno la beffa.

Qualora tale abrogazione fosse confermata, l’Associazione “Attuare la Costituzione”, insieme al Comitato Ulivivo e all’Associazione “Terra d’Egnazia” valuteranno la possibilità di procedere anche sul piano legale.

Associazione “Attuare la Costituzione”

Associazione “Terra d’Egnazia”

Comitato Ulivivo





martedì 4 febbraio 2025

Terra dei Fuochi e classe politica...

 


La Corte europea dei diritti umani (Cedu) condanna l’Italia per aver messo a rischio la vita degli abitanti della Terra dei Fuochi, dove oggi vivono 2,9 milioni di persone e dove gli scarichi illeciti di rifiuti pericolosi e le morti non sono un capitolo chiuso, qui, dove la criminalità organizzata ha gestito il traffico di rifiuti provenienti da ogni parte d’Italia, dalle concerie ai petrolchimici, fino alle industrie di alluminio, distruggendo la fertilissima Campania Felix, della quale non è rimasto più nulla. 

Nella vasta area della regione Campania, tra Caserta e Napoli,  compromessa dagli interramenti e dalle sostanze tossiche, le bonifiche vanno a rilento e c’è chi ancora aspetta i risultati dello studio Spes, un biomonitoraggio sulla popolazione residente promosso nel giugno 2016 da Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno e Istituto Pascale. Spesa: 30 milioni di euro.
 
La Cedu ha stabilito che il governo dovrà introdurre, senza indugio, misure generali in grado di affrontare in modo adeguato il fenomeno dell’inquinamento della Terra dei Fuochi. Significa che l’Italia ha due anni di tempo per sviluppare una strategia correttiva, mettere in piedi un sistema di monitoraggio che sia indipendente e una piattaforma di informazione pubblica.

Le campagne intorno Acerra sono uno dei Sin (siti di interesse nazionale) più vasti e densamente popolati d’Italia, con 80 comuni coinvolti e 1,8 milioni di persone che vivono nell’area. Qui le bonifiche sono solo agli inizi, mentre i roghi continuano. E i cittadini continuano ad ammalarsi.
 
E dal 2009 è entrato in funzione il più grande inceneritore d’Italia, un impianto per i rifiuti urbani che incenerisce 111 chili pro capite all’anno di rifiuti, quanto incenerisce la Lombardia in 13 impianti e altrettanti territori”
Alla sentenza del Cedu si è arrivati attraverso quarantuno istanze collettive presentate nel 2015 da più di 3.500 persone e da cinque organizzazioni con sede in Campania. Molte di queste persone hanno visto morire figli, fratelli, nipoti, si sono ammalati. Nell’area interessata, infatti, insieme all’inquinamento delle falde acquifere, saliva anche il numero dei casi di cancro.
 
Per Legambiente, la sentenza della Cedu richiama alla responsabilità un’intera classe politica bipartisan “che per anni ha sottovalutato, nascosto quello che accadeva in quel territorio”. Legambiente ha coniato il termine Ecomafia per il suo rapporto, raccogliendo le denunce che arrivavano dai circoli presenti sul territorio. “Si sono succeduti 12 governi nazionali e 5 a livello regionale senza trovare un ‘vaccino’ efficace.

Rete Ambientalista


lunedì 3 febbraio 2025

Candele, vino e formaggio... - Una storia bioregionale di Ferdinando Renzetti



...sto coltivando acqua e un piccolo orticello nei vasi, antica tecnica araba, i vasi creano una piccola zona di umidità, nutrono e si nutrono, come imbuti nella terra condensano humus. Ho cucinato i cagigni con aglio i fagi e il riso. 

La cucina è molto calda sono due giorni che mantengo il fuoco acceso. Ho raccolto altri cacigni e domani li voglio rifare com l’aglio e voglio fare pure la pizza di granoturco, in dialetto grandign tradotto grano India, il mais  arrivava dalle nuove indie scoperte da Colombo. Ho curato relazioni con nuovi amici e conoscenti in lunghe discussioni al bar nella grande piazza del paese. 

Vado in giro anche a raccogliere legna nei campi abbandonati. ho ripulito il giardino dalle plastiche lasciate dal contadino che lo curava in precedenza e raccogliendo tutto humus e il materiale organico accumulato sotto le siepi sto realizzando un bancale circolare di orto sinergico. attorno a un pozzetto di cemento che ho scelto come centro del nuovo progetto di coltivazione. ho celebrato la candelora tenendo il fuoco acceso tre giorni anche di notte e ho dormito sul tatami davanti al fuoco. 

Sono a Guastaneroli di Frisa vicino Lanciano in provincia di Chieti in Italia meridionale una dimensione spaziale rurale parallela campane silenzio e nient’altro. la casa molto bella pure il fuoco che mi riscalda. sto seminando e coltivando semi piante e nuove relazioni e mostra estiva di oggetti di design in terra nel laboratorio che sto allestendo. molto bello dormire tutta la notte davanti al fuoco alla stessa sua altezza con le candele accese, non c'è elettricità, un autentico sogno. mi piacciono molto anche i peperoni secchi dolci da friggere e usare per condire la pizza di grano turco. 

Ieri è venuta a trovarmi una amica che non vedevo da molto tempo e mi ha portato un barattolo di marmellata di mele cotogne. Siamo andati a fare una passeggiata per la campagna tra sentieri sterrati querce arbusti erbe e campi incolti. Il suo prezioso cane si è perso e quindi abbiamo impiegato parecchio tempo a ritrovarlo. 

Un'altra amica mi ha portato dolcetti tipici i celletti ripieni di marmellata d uva che si fanno nella zona per sant’antonio. Un signore che conosco mi ha portato una cassetta di arance e limoni locali speciali. Pranzo domenicale con amici locali molte specialità cucinate e assaggiate, tante chiacchiere vino e formaggio...

Ferdinando Renzetti



domenica 2 febbraio 2025

Sopravvivere anche in città...?

 


...potremmo sopravvivere anche nelle  città, senza allevamenti intensivi e senza agricoltura industriale. Basta cambiare completamente l'impostazione, diminuendo drasticamente il consumo della carne si possono aumentare la coltivazione di frutta, verdura, legumi recuperando suolo ed acqua che vengono  impegnati per produrre quello che mangiano gli animali nei 24 mesi della loro crescita. 

Naturalmente bisognerebbe anche riprogrammare la distribuzione evitando gli sprechi. Se noi smettessimo di comprare cetrioli quando è tempo di broccoli, avocado invece che arance, mandorle anziché anacardi, se le industrie alimentari smettessero di indirizzare verso i consumi più redditizi e scegliessero quelli che con lo stesso sforzo e la stessa acqua producessero una maggiore quantità di prodotti altrettanto proteici, che possano sfamare un numero maggiore di persone, se la grande distribuzione, la piccola distribuzione smettessero di sprecare cibo distribuendolo meglio, ecc. ecc. ecc. 

Se tutti insomma smettessimo di sprecare ed il cibo fosse ridistribuito in modo logico non ci sarebbe più chi butta e chi digiuna E l'ho semplificata ovviamente, ma partiamo da un concetto già acclarato che è "lavorare meno, lavorare tutti" parafrasando si potrebbe dire "mangiare meglio, mangiare tutti" e ovviamente per meglio intendo in modo più organizzato e responsabile... 

Emanuela Gennuso