martedì 30 luglio 2019

2019 - Armageddon climatico


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La breve parentesi di maltempo in Italia, dei giorni scorsi,  non deve distoglierci dal problema madre: il riscaldamento globale del pianeta. Anche l’estremizzazione dei fenomeni meteo sono dovuti proprio al calore in eccesso presente in atmosfera, quindi un semplice temporale estivo può trasformarsi in un tornado o in un uragano. 

 Non avremmo mai pensato che i nostri antichi timori relativi ad uno sconvolgimento climatico globale si sarebbero concretizzati così presto. Si perché, come ci assicuravano gli scienziati dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite), il massimo rischio per l’umanità era quello di arrivare a più 2 gradi di temperatura rispetto al 2.000. 

Climatologi, fisici dell’atmosfera, storici del clima ed altri scienziati a metà degli anni ‘70 indicavano il rischio di un’accelerazione della temperatura terrestre (come sta accadendo ora) intorno al 2050, ma solo se fosse iniziato a sciogliersi il permafrost, perché in quel momento oltre alla CO2 si sarebbe immesso nell’atmosfera il CH4, ossia il metano, gas serra 22 volte più pericoloso dell’anidride carbonica. Il rischio previsto per il 2050 è stato abbondantemente superato, infatti il permafrost in Alaska e in Siberia ha iniziato a sciogliersi molto prima, già alla fine degli anni ’80 ed ora, mentre la media della temperatura terrestre ha raggiunto 1 grado in più, nelle aree vicine al circolo polare artico ha raggiunto un aumento di oltre 2 gradi centigradi. 

Dimostrazione questa che la situazione climatica del pianeta è definitivamente compromessa. Ora molti scienziati stanno rivedendo i propri studi previsionali. Si parlava del rischio per l’umanità di arrivare al 2050 con più due gradi di temperatura media del pianeta, oggi invece, vista questa accelerazione inarrestabile dell’aumento della temperatura globale, c’è chi azzarda che nel 2050 non 2 gradi in più, ma forse 4 o 5. A quel punto cosa fare? 

A parte che emigrare vicino ai poli, forse sarà necessario, come affermava il famoso astrofisico Stephen William Hawking (morto lo scorso anno) pensare a trovarci un altro pianeta. In tutto questo alcuni “grandi” della Terra ancora si chiedono se l’effetto serra è un’invenzione dei cinesi o di noi ambientalisti…

Filippo Mariani - AK. Informa n. 31

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Ancona ridotta a hub del turismo barcaiolo di massa...

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Questi mesi sono decisivi per il futuro di Ancona, pesantemente condizionato dal progetto di porto crocieristico sul quale i cittadini non sono stati preventivamente coinvolti dalla Amministrazione comunale ed a favore del quale è in atto una intensa e fuorviante campagna pubblicitaria.


Con il nuovo approdo crocieristico al molo Clementino avremo l'abbandono del progetto di recupero dell'apertura del Porto Antico con la città storica, perdendo così ogni possibile valorizzazione di un rapporto fisico e culturale che ha caratterizzato secoli di storia urbana e che potrebbe fornire nuova linfa vitale all'intera città. Infatti con il porto crocieristico avremo la privatizzazione del Molo Clementino per almeno 50 anni ed un aumento notevole dell’inquinamento dell’aria, grazie a oltre 6.000 approdi di navi, vere bombe ecologiche: a parità di distanza percorsa, una nave da crociera emette inquinanti atmosferici pari a 5 milioni di automobili. Oltre all’aumento della CO e del black carbon è la stessa proponente Autorità Portuale che prevede che per ogni approdo e per ogni nave avremo la produzione, dai soli motori delle navi, di 5,13 tonnellate di ossidi di azoto, 400 kg di anidride solforosa, 170 kg di PM 10, 160 kg di PM 2,5, kg.440 di composti organici volatili non metanici. Per la durata di 50 anni prevista della concessione il costo sociale dell’inquinamento (malattie, decessi, aumento ricoveri ospedalieri, danni ai monumenti storici) è stimato in € 774 milioni in aggiunta al costo sociale già oggi derivante dai traghetti. Questo incremento dei costi sociali saranno tutti a carico dei cittadini di Ancona e dei lavoratori in ambito portuale. La eventuale rinuncia, pubblicizzata ieri sera, al parcheggio multipiano e quindi alla mobilità con auto private vale solo 3 milioni aggiuntivi di danni ambientali in 50 anni e dimostra, piuttosto, le difficoltà di convivenza con lo sviluppo di Fincantieri.

I supposti benefici, come risulta dal progetto, a vantaggio di chi andrebbero? alla Autorità Portuale per le concessioni; ai piloti del porto, agli ormeggiatori e rimorchiatori; a chi gestirà lo smaltimento dei rifiuti, il rifornimento dell’acqua, il rifornimento di carburante peraltro operato da fornitori nazionali e non locali; alla società che gestirà il terminal; a chi gestirà i parcheggi delle auto dei crocieristi. Sull’ipotesi di una spesa supposta di circa € 70 a testa dei crocieristi ed equipaggi si basa poi il presunto guadagno per i gestori di attività commerciali. Per i cittadini? Solo inquinamento!

La scelta strategica alternativa che noi sosteniamo è invece quella di liberare dalle attuali attività tutto il porto realizzato dal Vanvitelli, dal Molo Clementino al Lazzaretto, restituendo alla città la sua vera passeggiata con l’insediamento di tutte le possibili e compatibili attività turistiche, dell’intrattenimento e del tempo libero. Questo obiettivo può essere raggiunto recuperando i ritardi della Autorità Portuale nel completamento della banchina Marche e nella realizzazione della “penisola” in programma fin dal 2010! Questo permetterebbe di spostare l’ormeggio dei traghetti e dell’ eventuale porto crocieristico – se si volesse insistere su questa scelta - sulla nuova darsena più lontana dalla città e più vicino alle vie di comunicazione. In tal modo tutte le reti di Schengen sarebbero abbattute e si potrebbe completare il progetto strategico del recupero del Porto Antico alla città.

Peraltro l’allungamento dei tempi di realizzazione della “penisola”, rispetto ai 2 anni per la nuova banchina al Molo Clementino, sarebbe compatibile con la realizzazione dell’uscita a nord, altrimenti tra due anni tutta la città sarà bloccata per almeno 260 giorni da ulteriori 140.000 veicoli da e per il porto, aggiungendosi al traffico che già oggi è presente sulla Flaminia ed a Torrette. Ed anche questo è un danno alla comunità.


Italia Nostra - SEZIONE DI ANCONA 
Vincenzo Pirani” Il Consiglio Direttivo  
Sede: via Bonda,1/b , 60121 Ancona, cell. 327/8238123, email:ancona@italianostra.org
Posta certificata italianostramarcheancona@pec.it, sito: https://www.italianostra-ancona.org/ 

2035: "The Ends of the world" - Afa mortale e guerra climatica


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Se l’umanità non interromperà le emissioni di CO2 entro il 2035, le temperature medie annue verso la fine del XXI secolo aumenteranno di 4-4,5° C, ammoniscono gli scienziati.
Ciò significa che metà della popolazione mondiale morirà per catastrofi naturali estreme e l’altra metà comincerà a combattere per accaparrarsi le risorse rimaste. Si profila, dunque, il rischio di una guerra mondiale.

Non è la prima volta

L’estinzione di massa di praticamente tutti gli esseri terrestri è già avvenuta almeno 5 volte. Una di queste, l’estinzione dei dinosauri, si è verificata in seguito alla caduta di un asteroide, mentre le altre per il brusco riscaldamento climatico provocato dai gas serra.
Ad esempio, l’aumento di 5° C delle temperature medie annue, registrato circa 252 milioni di anni fa, ha portato alla morte del 96% di tutte le specie marine e del 73% delle specie terrestri vertebrate, osserva il giornalista Peter Brannen nel libro The Ends of the world. Visti i ritmi attuali di riscaldamento, già verso la fine del secolo il pianeta si riscalderà di altri 4,5-5° C, secondo alcuni studiosi australiani. Se chiaramente nei prossimi 16 anni l’umanità non risolverà il problema delle emissioni di CO2.
Secondo i ricercatori, la quota di fonti rinnovabili di energia (eolica, idroelettrica, solare) nel mix energetico di tutti i Paesi dovrebbe aumentare del 2% annuo, altrimenti dopo il 2035 sarà già troppo tardi. Misure tempestive consentiranno un aumento di soli 2° C entro la fine del secolo. Questo scenario viene considerato relativamente pericoloso: le conseguenze dei cambiamenti climatici non saranno così gravi e l’umanità potrà affrontarle.

Un’afa mortale

Studiosi svedesi, danesi e britannici, però, sono più pessimisti. I cambiamenti scatenati dal preoccupante livello di riscaldamento potrebbero riuscire ad avviare processi sui quali l’uomo non potrebbe agire. Si tratta innanzitutto del disgelo del permafrost, dell’emissione di idrati di metano dal fondo oceanico e della scomparsa delle foreste. Questo, a sua volta, provocherebbe un aumento delle temperature medie di altri 3-4° C. Infine, buona parte della barriera corallina scomparirebbe, le zone costiere verrebbero inondate, il settore agricolo subirebbe ingenti danni.
Inoltre, parte della popolazione sul pianeta dovrebbe fare i conti con un’afa anomala con livelli piuttosto elevati di umidità. In queste condizioni l’organismo non sarebbe in grado di raffreddarsi, cosa essenziale per la sopravvivenza. Per questo, è altamente probabile che sarà impossibile vivere nei pressi dell’Equatore.
Laddove le condizioni atmosferiche permetteranno di non bruciare vivi, incrementerà in maniera sensibile la mortalità per i colpi di caldo. Secondo i calcoli di un gruppo internazionale di esperti, tra il 2031 e il 2080 si morirà molto più spesso per il caldo. Ad esempio, in Brasile la mortalità legata all’afa aumenterà del 770%, negli USA del 400-525%, in Europa del 400%.

Il mondo sull’orlo della guerra

Quando 128.000 anni fa nella regione oggi occupata dalla Francia le temperature medie annue aumentarono bruscamente di 2° C, gli uomini di Neanderthal che vivevano là furono costretti a diventare cannibali. Il riscaldamento mutò sensibilmente il paesaggio: al posto delle praterie comparvero foreste dove era molto più difficile andare a caccia. All’interno della dieta di questi nostri avi i mammut e le renne furono sostituiti da daini, piccoli roditori, tartarughe e serpenti. Per questo, questi nostri avi furono costretti a mangiare i loro simili più deboli per avere proteine animali a sufficienza.
Oggi è poco probabile che il cambiamento climatico trasformi gli uomini in cannibali, ma potrebbe scatenare violenti conflitti armati. Secondo uno studio della Stanford University, in caso di un aumento di 2° C delle temperature medie annue (lo scenario migliore) il rischio di scontri armati nel mondo aumenterebbe del 13%. Mentre se la Terra subirà un aumento del 4%, la probabilità che scoppino guerre salirebbe fino al 26%. Tra l’altro, le guerre avviate tra Stati singoli potrebbero essere inglobate in un macro-conflitto tutti contro tutti.
Già oggi tra il 3 e il 20% dei conflitti armati nel mondo è legato ai cambiamenti climatici, confermano gli esperti. Anche piccole differenze di temperature e cambiamenti nelle precipitazioni possono scatenare violenza: da conflitti tra singoli a guerre su larga scala. Sempre più spesso questi avvengono in caso di un aumento considerevole e brusco delle temperature.
Secondo un gruppo internazionale di studiosi questo potrebbe essere legato al fatto che l’afa è in grado di influenzare la biochimica del cervello distruggendo i neuromediatori che regolano le emozioni. Dall’altro lato, poi, le temperature elevate contribuiscono alla produzione di testosterone nell’organismo, cosa che, a sua volta, influisce sul livello di aggressività dell’uomo. Proprio per questo, ogni anno che passa il numero maggiore di crimini e suicidi si registra nei periodi di afa anomala.
Cielo e diamanti
Anche se venissero rispettate tutte le condizioni dell’Accordo di Parigi sul clima sarebbe praticamente impossibile fermare l’aumento delle temperature medie annue, affermano convinti gli esperti. Tuttavia, vi è la possibilità di frenare questo processo. In particolare, se già ora si riuscissero a ridurre in maniera considerevole le emissioni di gas serra, entro la fine del secolo la Terra si riscalderà di soli 2° C, un valore relativamente sicuro.
Secondo gli studiosi, i metodi più sicuri per combattere il cambiamento climatico sono rinunciare all’uso delle automobili e degli aerei, passare a una dieta vegetariana. Ma vi sono anche alternative più insolite. In particolare, i ricercatori di Harvard hanno proposto di nebulizzare nell’atmosfera piccolissime particelle di diamanti e ossido di alluminio. Ciò diminuirebbe la quantità di luce solare sulla superficie terrestre raffreddando il pianeta.
Nessuno mette in dubbio che questo metodo funzioni, ma sarebbe troppo costoso. Anche utilizzando diamanti artificiali e poco costosi (meno di 100$/kg), si toccherebbero cifre grandissime. Infatti, per mantenere il flusso di radiazione solare al livello necessario, servirebbero centinaia di migliaia di tonnellate di polvere di diamanti ogni anno.
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lunedì 29 luglio 2019

Lorenzo Merlo: "Da Milano alla Mongolia. Un Land Rover Defender, 30.000 chilometri e 104 giorni e con mia figlia Jandira"



La scintilla non è stata mia. “Papà andiamo in Mongolia?” Le parole di Jandira, mia figlia 24enne, non mi avevano fatto immaginare la bellezza della Mongolia, né tutte quelle in mezzo. Sono andate invece subito a mostrarmi l’esclusiva di poter stare con lei – da anni giramondo –finalmente tutto il tempo che volevo. Quante cose si sarebbero aggiustate, quante si sarebbero rinforzate, quanto saremmo stati complici. Era lei invece che dal selvaggio della Mongolia sentiva il richiamo. Cavalli nel vento e nelle praterie, donne e uomini forti, bimbi senza nulla e magnifici per i quali aveva voluto fare una lista di regali.

Pur sapendo che la stagione scelta non era la più favorevole, in particolare per il tracciato che volevamo seguire, il 5 aprile 2019 lasciavamo Milano. Avevamo davanti circa 30.000 chilometri che ci avrebbero richiesto più di tre mesi e meno di quattro secondo le stime a tavolino. Ma nessuno dei due ne pareva consapevole. Ognuno aveva la sua bellezza da inseguire.

Ma cominciammo con una memoria dedicando una visita alla Risiera di San Sabba e alle foibe. Poi, tutti i balkani rimasero coperti da una perturbazione che ci lasciò pochi momenti asciutti. La costa dalmata sotto gli scrosci dei temporali; le piramidi di Visoko, a nord –ovest di Sarajevo, dal sentiero così fangoso e ripido da non riuscire ad arrivare in vetta; l’albergo diffuso di Mokra Gora, quello di Kusturica, in Serbia, inno alla contestazione consumistica – una specie di Campell’s Soup Cans di Andy Warhol 50 anni dopo, ormai destinazione di pullman e gite scolastiche, ma anche celebrazione di un mondo fatto solo di cinema e del suo popolo divistico.

In poco tempo aveva imparato a sfruttare tutti i segni delle carte e perciò ad essere un ottimo navigatore.

Questioni di tempi dei visti spingono il pedale del gas. Saltiamo così la Macedonia, una delle perle balkaniche e percorriamo la nota Valle delle Rose in Bulgaria. Ma è poco oltre, nella regione Haskovo, che tocchiamo la povertà e la segregazione di un popolo apparentemente abbandonato a se stesso.

Io le dicevo quello che sapevo sulle regioni davanti a noi e lei selezionava i luoghi da visitare.

Poi la Turchia, quel punto dal quale le voci dei muezzin sostituiranno le campane fino ad orizzonti sempre più lontani. L’acqua continua a non lasciarci in pace. Nonostante le diverse varianti che avevamo pensato prima di raggiungere la Georgia, le perturbazioni si succedono a ritmo serrato. Tanto vale stare sulla linea più semplice. Seguiamo così la costa del Mar Nero. Le zone balneari del suo tratto orientale si diradano nell’ombrosa e povera parte centrale, per poi riprendere respiro nella provincia di Trabzon.

Impiegò poco anche per aggiornare la concezione del viaggio e il criterio per guidarlo. Non più prendere e partire, come faceva viaggiando in aereo, né andiamo di qui e andiamo di là. Aveva messo al centro i due protagonisti veri: le ore di luce della giornata e le condizioni della strada.

Nel buio della sera, a pochi chilometri dall’ingresso in Georgia, cerchiamo un albergo a Akhaltsikhe, un sopruso della polizia, che inventa un’infrazione, è il benvenuto che ci è toccato. Ne seguirà un altro a Tbilisi, altrettanto vergognoso, ma non sufficiente a farci dimenticare un popolo serenamente orgoglioso di se stesso, quasi abitante di un’isola lontana da tutte le altre terre. Incapace di sapere le ragioni delle sue guerre con l’Abkazia e L’Ossezia del Sud. Solo preoccupato del nostro transito in Azerbaijan, dove, ci ripetono, “non troveremo persone come loro”.

Dalla letteratura che aveva studiato in fase organizzativa, aveva segnato sulle carte monumenti, nature, musei, villaggi e città.

Prima di andare a verificare come fossero le persone azere, quasi al confine con l’Ossezia Settentrionale, a Stepantsminda nel gelo di una bufera caucasica, avevamo visitato l’emozionante chiesa della Trinità di Gergeti. Ma, assorbiti dalla dolcezza delle oceaniche onde collinose dell’Azerbaijan, era ormai un fatto lontano. Se la natura ci parlava di bellezza, nelle città, e a Baku in particolare, era evidente che il paese, come altri incontrati lungo la linea del nostro viaggio, si era chiaramente votato all’abbraccio del liberismo e del consumismo. Quella azera è forse una delle culture musulmane che più si sono allontanate dal principio puro della sharia, ovvero di una società regolamentata dai precetti religiosi.

La sera, bivaccando in natura, sulla terra stepposa, o sul pavimento di qualche stanza di locanda apriva la carta e tracciava il percorso della giornata.

Il Turkmenistan, al di là del mare, è più lontano delle miglia d’acqua che separano Baku da Turkmenbashi. Molte ore in banchina attendono chi ha scelto la via del mare invece che il passaggio via terra dall’Iran. E molte ore anche dopo l’imbarco prima di salpare. E altre ancora una volta a destinazione, per la burocrazia scatenata e shackerata con la peggior comunicazione.
E poi Ashgabat, dove il bianco, il verde e l’oro sono i soli colori ammessi. Ma ancor più, dove anche se ci vai di persona fatichi a credere ai tuoi occhi. Una specie di The Truman Show aleggia tra le emozioni che senza soluzione di continuità attraversano l’animo di chi non aveva mai visto la capitale del Paese.

In viaggio compilava un excell con molte colonne, computo di molti aspetti delle tappe.

L’obbligo di scelta della via da seguire, imposto dalle autorità turkmene, ci portava nel nord del paese per entrare in Uzbekistan poco a sud della latitudine di Nukus. Lungo la strada rispettammo la deviazione d’obbligo per affacciarci alla bocca della voragine sempre in fiamme di Darvaza, turisticamente, o meglio, volgarmente detta Porta dell’Inferno. Kiwa, Samarkanda erano sulla strada. Ma insieme a loro e alle loro storie in forma di mosaici e muqarnas, si vede tutto lo sbrago al turismo occidentale che evidentemente è stato scelto dal governo locale. Sebbene sulla storica Via della Seta, non se ne vede degna celebrazione.
Arrivare alla mitica Samarcanda è ormai un fatto scontato e sfregiato dal consumismo turistico.

Nelle soste e nelle visite la vedevo fotografare e filmare. Era bella la sua autonomia: in buona misura io guardavo e riprendevo altro e non di rado la copiavo.

Partimmo da Dushambe per andare a percorrere la Pamir Highway, la seconda strada più elevata del mondo, superata solo dalla Karakorum Highway. Nonostante le pioggie e il disgelo scegliamo di seguire la via con meno garanzie di successo, quella che corrisponde ad una parte della famosa M41. La Pamir Highway permette più varianti di pari o superiore soddisfazione. Noi scegliemmo quella che segue il Panj, il corso d’acqua che separa il Tajikistan dall’Afghanistan, prima di diventare l’Amu Darya, un tempo chiamato Oxus, limes naturale oltre il quale nei secoli passati c’era l’immenso turkestan, una terra ignota a tutta la civiltà occidentale. E misteriosa. In corrispondenza della quale, sulle mappe dell’epoca si leggeva, hic sunt dracones. Ma più dei paesaggi che ammalierebbero chiunque, è stato il popolo tajiko che senza sforzo ci è entrato nel cuore. Avevamo la sensazione fossero fortemente in equilibrio, al punto da esprimere serenità indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla condizione sociale.

Nei pochi momenti vuoti, nei luoghi con il wifi proseguiva ad arricchire il profilo instagram che aveva creato:riding.to.mongolia. Fotografie e didascalie piene di sensibilità e amore modulato a favore di chi le avrebbe viste e lette.


Le dure piste della Pamir Highway scomparvero al passaggio in Kirgizistan. Cavalli di razza novo kirghisa, possenti e contemporaneamente leggiadri e pascoli collinari dal sottofondo paradisiaco ne presero il posto. Il piccolo stan è stata una delle inattese perle del viaggio.

Nei mercati facevamo la spesa alimentare per rimpolpare la piccola cambusa della macchina. Nonostante l’attrazione verso le bancarelle di abiti, oggetti, bracciali e collane – a 24 anni assai più magnetica di quanto non fosse per me sapeva rinunciare ai luccichii, sapeva preservare la macchina come fosse lei a sapere per prima che più materiale trasportavamo, più si sarebbe ridotta la frugale comodità, più ne avremmo ridotta la funzionalità.

Abbiamo percorso la parte meridionale dell’oriente kazakho dentro la bolla dell’armonia kirghiza. Canyon, laghi, vallate e spazi illimitati, sebbene non più così verdi e dolci, sono il territorio fino ad Almaty. Lasciando il capoluogo, l’incanto non poteva che frangersi. Seguirono centinaia di chilometri uniformi, nuovamente duri e senza variazioni, né per lo spirito, né per gli occhi.

Seguiva e si interessava alle riparazioni della macchina. Non era una generica curiosità. In quelle settimane aveva conosciuto il furgone Uaz. Un rustico mezzo adatto a terreni naturali. E pensava già di acquistarne uno, trasformarlo e riprendere a girare per il mondo. Quindi conoscere le componenti e le problematiche di una macchina era un sapere che acquisiva con serietà.

Anche se la Mongolia era a un passo, qualche giornata di Russia era obbligatoria. Nessun punto di contatto infatti con il Kazakhstan, obbliga un transito siberiano prima della meta. I circa quindici giorni da dedicare alla terra di Gengis Khan lo sappiamo sono pochi. Non riusciremo infatti a visitare le montagne dell’occidentale regione di Olgij né le meraviglie del settentrionale lago Khovsgol. Passammo in centro nelle verdi regioni del Khangai, reame di fiori, foreste, cavalli e placidi fiumi. Poi a sud nel deserto e tra le dune. Infine a Ulan Batar. La rada densità della popolazione impressiona sulla carta: cinque volte la superficie italiana per tre milioni di persone, di cui la metà nella capitale. Ma è un dato senza emozione carnale finché dopo ore di pista, davanti a orizzonti altrettanto lontani trovi una gher – come si chiamano le iurte là – un bimbo che gioca e forse una moto. E se sulla carta un popolo di cultura buddhista – peraltro devoto, a giudicare dalla loro frequentazione dei monasteri che abbiamo visitato – ci aveva indotto alla curiosità di vedere in quale modalità quella cultura si esprimeva nel quotidiano, sul campo siamo rimasti sorpresi dal nostro apparentemente neutro pregiudizio. A parte buona parte dei russi, sono stati proprio i mongoli i più indifferenti e disinteressati alla relazione con noi.

La prima a memorizzare i nomi dei luoghi e dei nuovi idiomi era Jandira. Un particolare di un certo valore per gestire le relazioni a volte anonime con le persone locali. Non è stato un caso che lei abbia risolto più di un impasse con albergatori o ristoratori. Capaci di promettere servizi ma meno di mantenere e di prendersi la responsabilità.

Della Siberia tutti sanno. Sanno che i gulag erano là; che fa freddo; che è terra poco popolata. Ma nessuno sa che chiunque sia catapultato in Siberia non potrà che terminare il resto della vita, in quel punto di atterraggio. Centinaia, migliaia di chilometri di fitta foresta non permettono di scappare a nessuno. Sconfinato, impraticabile territorio selvaggio. E quando le foreste di conifere hanno termine, il copione si ripete con altrettanto smisurati acquitrini ornati dai bianchi tronchi di betulla. Non c’è mezzo che possa muoversi in quel terreno. Ma non così lungo il tracciato della transiberiana. Tutto un popolo in perenne movimento vi vive sopra e ai margini terrosi, polverosi, fangosi. È il grande popolo dei camionisti. Alberghi, ristoranti, market, gommisti, meccanici li attendono in piazzole che in futuro saranno autogrill raffinati e forniti come già è nella parte occidentale della Russia, in Ucraina, Polonia ed Europa tutta. La lunga strada crea una trincea tra gli alberi. Guardare avanti è la sola ed unica possibilità.
Ad occidente passammo a visitare la sponda occidentale del fiume Don e Nikolaevska, oggi, assorbita da Livenka. Fu là che decine di migliaia di uomini italiani, mal attrezzati, furono mandati durante la Seconda Guerra Mondiale. Fu da là che sotto il fuoco e l’inverno russo dovettero ritirarsi. Fu là che perirono, per il freddo o per mano del fuoco nemico, circa 80.000 persone. Nostri concittadini inspiegabilmente troppo dimenticati.

Jandira premeva per tornare. Il viaggio, lo aveva constatato, è una macina che non risparmia nessuno. Tuttavia condivise di fermarsi il tempo necessario per visitare alcuni luoghi, parlare con le persone, posare un fiore.


Nonostante sia a suo modo offensivo, anche a noi toccava la nostra ritirata di Russia. Proprio da Livenka. Rumori sinistri arrivavano dalla ruota anteriore. Poi un movimento come se il defender avesse scartato qualcosa di sua iniziativa e contemporaneamente i freni che andarono a vuoto. Seguirono chilometri a passo d’uomo prima di trovare la fortuna di un artigiano capace di rimuovere il giunto spezzato e di saldare i pezzi “almeno fino a Charkiv, in Ucraina” – disse – “circa duecento chilometri più avanti, dove troverai i ricambi”. Non li trovammo né lì, né a Kiev. E a sessanta all’ora, dopo aver attraversato la Polonia meridionale, senza mancare Aushwitz e Birkenau, la repubblica Ceca, un po’ di Germania e l’Austria occidentale, abbiamo concluso MilMon il 16 luglio 2019 nuovamente a Milano.

La mattina dell’ultimo giorno Jandira posizionò il telefono per un autoscatto nella piazzola di un piccolo borgo in Germania dove passammo l’ultima notte, la centotreesima. Era il 12 luglio 2019. Sapevamo che avevamo fatto qualcosa di meraviglioso. Sapevo che molto si era aggiustato con lei. Ed ancora più meraviglioso.


Testo e foto di  Lorenzo Merlo - 23.07.19





Articolo collegato: http://www.milanomeravigliosa.it/lorenzo-merlo-milanese-giramondo-qui-sono-a-casa-mia-ma-da-lontano-la-mia-citta-sembra-molto-provinciale/

Festa dell'acqua cotta a Vignola. Resoconto del 28 luglio 2019




Il 28 luglio 2019 a Vignola sembrava dalle previsioni che dovesse piovere tutto il giorno, ciò non ostante Caterina ed io abbiamo preparato una bella pentola di acqua cotta per festeggiare assieme con alcuni amici coraggiosi questa celebrazione di mezza estate in cui si ricorda una tradizione pastorale e contadina. Il clima è stato clemente e proprio quand'era il momento giusto ha smesso di piovere e con l'aria rinfrescata ci siamo seduti ad un tavolo improvvisato per gustare assieme l'acqua cotta, secondo la ricetta della Tuscia.

Come ho raccontato durante la degustazione tenuta nell'azienda agricola La Bifolca di Maria Miani questa semplice zuppa veniva preparata al volo nei mesi estivi, durante la transumanza verso i monti o durante i lavori di campagna che richiedevano una maggiore dedizione e tempo, per la preparazione si raccoglievano erbe selvatiche reperite lì sul posto, qualche crosta di cacio e pan secco dalla bisaccia, il tutto ribollito sul fuoco serviva a sedare la sete e la fame, senza pretese culinarie. Eppure la zuppa così realizzata risultava sempre talmente piacevole al palato da essere rimasta nella tradizione fino al punto di diventare una sagra paesana in parecchi paesini del centro Italia.

Così succedeva anche a Calcata, da noi presso il Circolo Vegetariano, in cui verso la fine di luglio od i primi di agosto si organizzava la Festa dell'Acqua Cotta. Ad una di quelle primissime edizioni, svoltasi attorni alla metà degli anni '90, vollero partecipare anche i “Turisti per caso”, Syusy Blady e Patrizio Roversi (http://www.circolovegetarianocalcata.it/2009/07/18/calcata-2009-riedizione-di-un-gioco-dettato-dal-caso-%E2%80%9C%E2%80%A6-8-agosto-cosi-abbiamo-scoperto-l%E2%80%99acqua-calda-con-syusy-blady-e-patrizio-roversi%E2%80%9D/). Quello fu un evento alquanto mondano, l'acqua cotta però era talmente buona che terminò prima dell'arrivo dei celebri ospiti, che erano in pauroso ritardo, quando essi giunsero dovettero accontentarsi di una panzanella.

Così non è stato durante l'edizione del 28 luglio a Vignola in cui i pochi convenuti si sono saziati con razioni anche doppie di una squisita acqua cotta. Le piante selvatiche erano state raccolte in parte nel giardino di Caterina a Spilamberto ed in parte nel campo di Maria a Vignola. Al termine della degustazione ci siamo satollati con la frutta di stagione maturata al punto giusto: susine, pesche, albicocche, more... A farci compagnia i “festeggiati”: il pony, la pecora, le galline e due gatti spellacchiati ma simpatici assai. (vedi: https://circolovegetarianotreia.wordpress.com/2019/07/18/festa-dellacqua-cotta-e-convivenza-con-gli-animali-vignola-domenica-28-luglio-2019/)

Paolo D'Arpini

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P.S. Ci scrive Giorgio Quarantotto da Bologna: “Caro Paolo, Ti segnalo questo evento che forse non conosci. Se apri in link puoi leggere la ricetta che la prossima volta potremmo fare a casa di Maria (tanto per cambiare): 11° Sagra dell’acqua cotta e 46° Festa di Mezz’estate, 3 e 4 agosto 2019 , Verghereto - Montecoronaro (FC)




mercoledì 24 luglio 2019

Pesticidi. Danni e dannati... - Note sull’inquinamento da pesticidi in Italia.


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Nel dicembre del 2017 l’ISPRA pubblicò un corposo dossier, curato dal noto tecnologo e ricercatore dell’ISPRA, il dott. Pietro Massimiliano Bianco, che affrontava il problema che stiamo anche noi oggi affrontiamo: L’inquinamento da pesticidi nel nostro Paese.

A questo dossier hanno partecipato: 1 ISPRA, 2 PAN Italia, 3 Gruppi Ricerca Ecologica, 4 Università Politecnica delle Marche, 5 ISDE – Medici per l’Ambiente, 5 Università degli Studi di Parma, 6 European Consumers.

Questo importante lavoro si può richiedere direttamente all’ISPRA, non ci siamo limitati ad estrapolare un breve capitolo che vi presentiamo:


La contaminazione diffusa è una delle più gravi minacce alla salute del suolo, degli ecosistemi e degli esseri umani riconosciute in campo internazionale (European Commission, 2006; ISPRA, 2012). Essa può determinare difetti e disturbi cronici nelle piante e negli animali (oltre ad accumularsi nei funghi, che è un regno quasi mai esplorato circa quest’argomento, v. Cenci et al., 2010), determinando sui singoli nodi della rete alimentare effetti a medio e lungo termine, e può ritrovarsi, pertanto, nel cibo e nei mangimi destinati agli allevamenti (European Commission, 2001; Wiebe, 2003; European Commission, 2004; van Lexmond et al., 2015). Inoltre, può diminuire la resistenza degli habitat, delle specie e dei singoli organismi a stress di altra natura (come frammentazione degli areali, inquinamenti puntuali, pressioni fisiche, invasione di specie alloctone e cambiamenti climatici), ponendo in maniera sfuggente e pericolosa problemi sanitari all’ambiente e anche alla salute umana (Prasad, 2008; EFSA, 2015). I valori di contaminazione diffusa sono veramente difficili da raccogliere, poiché in genere si tratta di emissioni assai diluite in atmosfera, scarsamente rintracciabili da monitoraggi diretti e più facilmente rilevabili solo da un’analisi completa della “valutazione del ciclo vitale” (LCA, Cherubini et al., 2009; Zucaro et al., 2009; Margni et al., 2002; APAT 2004) delle sostanze in esame (POPs, HM, VOC, IPA...). 

La causa più conosciuta di contaminazione diffusa sono le infrastrutture, che detengono il triste primato di consumare la maggior parte della superficie fertile persa ogni anno a causa della cementificazione del suolo (ISPRA, 2014), oltre a frantumare gli habitat naturali, causare morti da collisione a moltissime specie naturali, ed essere interessate, almeno nelle aree urbane, proprio per cercare di ridurre gli impatti sulla salute umana, da provvedimenti quali le restrizioni nelle emissioni gassose (circolazione consentita solo a veicoli Euro 6, auto elettriche o a gas), i blocchi temporanei del traffico, la circolazione a targhe alterne, ecc., con dubbi risultati sulla qualità dell’aria, notevoli fastidi per la popolazione e una serie di noiose restrizioni alla mobilità. Oltre alla concentrazione di CO2, assurta all’attenzione del grande pubblico a seguito della convenzione internazionale sui cambiamenti climatici, il protocollo di Kyoto e le successive decisioni internazionali, all’irrigazione utilizzando acque sotterranee compromesse e alla dispersione di idrocarburi policiclici aromatici (IPA, antidetonanti usati al posto del piombo nei carburanti di nuova generazione), un pericolo ancora più insidioso si trova nelle emissioni di sostanze di sintesi, genericamente chiamate coll’ambiguo nome di “prodotti fitosanitari”, “fito-” o “agro-farmaci”, e che corrispondono in effetti alle peggiori classi di pesticidi da cui dovremmo tutti imparare a difenderci, vista la loro pericolosità e diffusione. L’esposizione a pesticidi costituisce uno dei più importanti fattori di rischio per le patologie cronico-degenerative che oggi ci affliggono: digitando su un motore di ricerca quale pub med in data 23 maggio 2017 parole chiave quali “pesticides human health” o “pesticides children” compaiono rispettivamente 16.393 e 6289 lavori scientifici, una mole quindi davvero enorme! Se già negli anni 50’ era stata la biologa americana Rachel Carson ad intuire i devastanti effetti di queste molecole sugli habitat naturali e sugli ecosistemi, oggi è sempre più evidente che, anche a dosi minimali, esse possono risultare estremamente nocive per la salute umana e rappresentare quindi un vero e proprio problema di salute pubblica. E’ ormai assodato in modo inequivocabile che l’esposizione a pesticidi comporta non solo gravi ed irreversibili alterazioni a carico dell’ambiente, dei suoli, degli ecosistemi e di svariate forme di vita, ma si correla anche a gravi conseguenze sulla salute umana. Questi effetti, dapprima evidenziatisi per esposizioni professionali, riguardano oggi tutta la popolazione umana, stante l’utilizzo sempre più massiccio e diffuso di questi prodotti in ogni parte del pianeta ed la loro presenza costante in 6 aria, acqua, suolo, cibo e nello stesso latte materno. Queste conseguenze sono particolarmente gravi per esposizioni - anche a dosi minimali - che si verificano durante la vita embrio-fetale e la prima infanzia, comportando in special modo danni sullo sviluppo cerebrale e rischio di malattie non solo nell’infanzia, ma anche nelle fasi più tardive della vita. I pesticidi hanno dimostrato di alterare l’omeostasi dell’organismo umano in quanto in grado di indurre molteplici e complesse disfunzioni a carico praticamente di tutti gli apparati, organi e sistemi, comportando quindi patologie di tipo endocrino, nervoso, immunitario, respiratorio, cardiovascolare, riproduttivo, renale. Vi è ormai evidenza di forte correlazione fra esposizione a pesticidi e patologie in costante aumento quali: cancro, malattie respiratorie, Parkinson, Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica (SLA), autismo, deficit di attenzione ed iperattività, diabete, infertilità, disordini riproduttivi, malformazioni fetali, disfunzioni metaboliche e tiroidee.

La possibilità che tali disfunzioni si trasmettano anche alle generazioni future, attraverso alterazioni epigenetiche della linea germinale, non può che accrescere le nostre preoccupazioni, stimolandoci a ricercare e realizzare pratiche agronomiche in grado di soddisfare i bisogni alimentari delle popolazioni senza comprometterne in modo, forse irrimediabile, la salute. Dal momento che sono soprattutto le esposizioni precoci, in particolare in utero, quelle più pericolose e alla luce di quanto emerso da alcuni studi che hanno dimostrato l’effetto protettivo della alimentazione biologica, riteniamo che la popolazione debba essere adeguatamente informata per scelte più consapevoli. E’ auspicabile inoltre che il biologico non rimanga un privilegio per pochi, ma un diritto per tutti, specie nelle fasi della vita più delicate quali gravidanza, allattamento ed infanzia. Una recente metanalisi dell'Università di Berkeley (Ponisio et al., 2014) ha esaminato 115 ricerche scientifiche per confrontare agricoltura biologica e convenzionale, concludendo che, almeno per alcune colture, non vi sono prove per affermare che l'agricoltura convenzionale sia più efficiente e dia rese maggiori rispetto a quella biologica. Ha soprattutto affermato che: “aumentare la percentuale di agricoltura che utilizza metodi biologici e sostenibili non è una scelta, è una necessità. Non possiamo semplicemente continuare a produrre cibo senza prenderci cura del nostro suolo, dell’acqua e della biodiversità”.

Le formulazioni commerciali presenti in Italia per uso agricolo sono oltre un migliaio, ma molti principi attivi sono presenti anche in prodotti per uso domestico, per il controllo del verde pubblico e privato, per uso veterinario etc. per un totale di più di 350 molecole attive. Va ricordato che 15 pesticidi, unitamente a diossine e PCB, sono stati inclusi nella Convenzione di Stoccolma stilata per difendere la salute umana dai composti organici persistenti POP’s (Persistent Organic Pollutants), Convenzione sottoscritta anche dall’Italia, unico paese in Europa, tuttavia a non averla ancora ratificata. La legislazione che regola il settore appare complessa e spesso contraddittoria. Il recente recepimento da parte del nostro paese della Direttiva Comunitaria 2009/128/CE (pdf, 810 KB) per un “utilizzo sostenibile dei pesticidi” con il Decreto del 22 gennaio 2014 “Adozione Piano d’Azione Nazionale sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150” non appare rassicurante e la tutela della salute umana non può essere in alcun modo ritenuta soddisfacente. Infatti ad. es. sostanze vietate o messe fuori commercio per la loro elevata tossicità possono godere ancora di deroghe, le valutazioni tossicologiche sono molto spesso frammentarie e lacunose, per non dire infine che il concetto stesso di “uso sostenibile” di prodotti noti per essere veleni appare un ossimoro! 

1 Stockholm Convention. Status of ratification.
http://chm.pops.int/Countries/StatusofRatifications/tabid/252/Default.aspx.
Il problema delle conseguenze per la salute umana da esposizione “ cronica” a pesticidi , ovvero
dell’esposizione a dosi piccole e prolungate nel tempo non riguarda solo la popolazione esposta per motivi lavorativi, ma tutta la popolazione generale, essendo queste molecole o i loro metaboliti, spesso ancor più tossici e persistenti, ormai stabilmente presenti sia nelle matrici ambientali ( aria, acqua, suolo) che nella catena alimentare e nei nostri stessi corpi, ritrovandosi nel latte materno, nel cordone ombelicale e nelle urine di donne gravide. Una mole crescente di evidenze scientifiche conferma come l’esposizione cronica a pesticidi possa comportare alterazioni di svariati organi e sistemi dell’organismo umano quali quello nervoso, endocrino, immunitario, riproduttivo, renale, cardiovascolare e respiratorio.
Vi è necessità di una “nuova agricoltura” (Polyxeni et al., 2016) in grado di preservare la qualità dei suoli, la salubrità del cibo e quindi della salute umana perché ormai, “aumentare la percentuale di agricoltura che utilizza metodi biologici e sostenibili non è una scelta, è una necessità. Non possiamo semplicemente continuare a produrre cibo senza prenderci cura del nostro suolo, dell’acqua e della biodiversità” . I costi umani, sociali ed economici correlati all’esposizione a pesticidi non sono più tollerabili ed affinché non debba ulteriormente crescere l’elenco delle “Lezioni imparate in ritardo da pericoli conosciuti in anticipo” (EEA, 2013) si devono promuovere senza esitazioni attività produttive ed agricole che non prevedano l’uso della chimica di sintesi, quali i metodi di tipo biologico/biodinamico, in grado di rispettare e preservare non solo l’ambiente in cui viviamo, ma soprattutto la salute umana ed in special modo quella delle generazioni a venire.


Su questo tipo d’inquinamento, temibile quanto silenzioso, sarebbe auspicabile avere un’interrogazione parlamentare, per verificare se, quanto e fino a che punto intere strutture amministrative (dello Stato, delle Regioni e Province Autonome, delle Province e dei Comuni, fino ai condomini e ai consorzi privati) abbiano messo da parte le preoccupazioni per la salute pubblica per seguire e favorire specifici interessi economici. A tal fine, riteniamo opportuno raccogliere in una sede sintetica una serie di informazioni sui principali prodotti diffusi nell’ambiente italiano dalle attività agricole. Queste sostanze sono per la maggior parte come minimo dannose per l’ambiente, e agiscono in sinergia tra di loro e con altri contaminanti ambientali, incidendo fortemente sugli ambienti naturali e sulla stessa salute umana.
Alcune di esse si ritrovano costantemente nelle acque superficiali e sotterranee, altre si rintracciano con frequenze inquietanti anche nei nostri cibi e nel vino. Una gran parte di esse, infine, è stata riconosciuta responsabile della crisi delle api e di altri impollinatori in tutto il mondo.

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Fonte: A.K. Informa n. 30


martedì 23 luglio 2019

Il succo del bioregionalismo: "Solve et coagula" - Ovvero come integrare le differenze e riconoscersi nella stessa Unità

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…non tutti la pensiamo allo stesso identico modo e magari pur avendo idee simili le mettiamo in pratica in modi diversi. Pur dichiarandoci ecologisti, vegetariani, spiritualisti, etc. talvolta -anzi spesso- troviamo motivi di disaccordo anche fra noi. 
Tempo fa parlando con una amica del più e del meno siamo andati a toccare il tema del bioregionalismo e le ho raccontato di come partendo dalla stessa idea i fautori di questa "filosofia attiva" siano poi andati disperdendosi in varie compagini, talvolta anche antagoniste fra loro e lo spezzettamento ancora è in atto. "Da parte mia -le ho detto- cerco di seguire il sistema alchemico del “solve et coagula”, cercando di mantenere rapporti decenti  e dialogo con tutti.".
Questo atteggiamento non viene però sempre apprezzato, c’è qualcuno che mi chiede una maggiore coerenza e adesione all’idea “pura” e “dura”. Che posso farci… sono nato per stare nella via di mezzo, nel possibile. Anche perché sciogliere i nodi si può solo se ci si mette attenzione e santa pazienza. D’altronde se non si riesce a convivere con persone che almeno hanno qualcosa in comune con noi come potremo sperare di accettare il resto del mondo? In varie occasioni ho subito però critiche virulente per il mio atteggiamento, critiche che -dal mio punto di vista- sono ingiustificate.
Ad esempio sul mio diario "Il Giornaletto di Saul" in cui pubblico generi diversi di notizie (a volte anche controverse),  mi limito a fare qualche commentino e a dare qualche rispostina o resto in silenzio, operando come l’acqua -che scorre dove l’ostacolo è minore. Spesso, col tempo, ho notato che i toni tendono ad ammorbidirsi ed anche la comprensione reciproca aumenta…
Paolo D’Arpini - Rete Bioregionale Italiana
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bioregionalismo.treia@gmail.com

Parco nazionale delle 5 Terre - Camminare informati con Legambiente



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AL VIA IL PROGETTO "CAMMINARE INFORMATI" DEL PARCO NAZIONALE CINQUE TERRE, PER UN MESE SUI SENTIERI DEL PARCO CON LEGAMBIENTE  CON I CAMPI VOLONTARIATO LEGAMBIENTE SICUREZZA SUI SENTIERI E QUALITA' DEL TURISMO AL CENTRO DELL'ATTENZIONE”

Dopo due anni di indagini condotte grazie alla somministrazione dei questionari a residenti e turisti che frequentano le Cinque Terre con il progetto "Camminare informati" prosegue la collaborazione per l'estate 2019 tra l'Ente Parco Nazionale delle Cinque Terre e Legambiente.

Quest'anno, dopo la raccolta dati avvenuta nel 2017 e 2018 e la loro
elaborazione, si punta ad una informazione capillare, direttamente a
contatto coi turisti che frequentano i sentieri. (*)

La necessità di questo tipo di intervento è emersa dalla analisi dei
risultati ottenuti: solo il 35,5% degli intervistati ha affermato di
conoscere la lunghezza del percorso che sta affrontando, tre turisti
su quattro dichiarano di non sapere se lungo il percorso sono presenti
sorgenti d'acqua e punti ristoro; soltanto il 24,3% è a conoscenza
dell'esistenza di un sistema di allerta nel caso di previsioni meteo
avverse che porta alla chiusura dei sentieri e afferma di saper
indicare i numeri di emergenza eventualmente da contattare un campione
molto basso, pari al 51% degli intervistati e, tra questi, indica
quello corretto (il 112) il 68%. Per quanto riguarda l'abbigliamento
il 62,4% indossa scarpe non idonee alla percorrenza dei sentieri.

"Grazie a questi dati il Parco è intervenuto- dice Patrizio
Scarpellini, direttore del Parco. - Grazie all accordo con le
amministrazioni comunali delle Cinque Terre, Carabinieri Forestali ,
Ati , Cai e Soccorso Alpino oggi gli interventi sui sentieri causati
da chi li percorre in modo errato sono diminuiti. Importante la
conoscenza delle regole!"

"Con questa attività - commenta Santo Grammatico, Presidente di
Legambiente Liguria - puntiamo a trasferire una maggiore
consapevolezza sia ai volontari e alle volontarie partecipanti,
fornendo adeguate conoscenze e scoprendo il territorio all'avvio del
campo che, conseguentemente, ai turisti che frequentano i sentieri.
Organizzeremo infatti dei presidi informativi, all'ingresso dei
sentieri più frequentati, intercettando così i flussi turistici. Il
progetto "Camminare informati" risulta fondamentale per avviare la
costruzione di una nuova cultura e un diverso approccio dei beni
paesaggistici da parte di un turismo che, troppo spesso, non considera
gli aspetti legati alla sicurezza e alla fruizione sostenibile del
territorio parte integrante dell'esperienza turistica stessa."

"Ancora una volta dobbiamo applaudire il lavoro portato avanti dai
volontari - dice Patrizio Scarpellini, direttore del Parco nazionale
delle Cinque Terre - Un lavoro importante, sempre piu specifico e
specializzato, organizzato con le istituzioni e con quanti sul
territorio lavorano. E' essenziale la collaborazione tra coloro che
prestano il servizio. Sempre difficile fare elenchi senza dimenticare
qualcuno. Penso al CAI alle GEV e al Soccorso Alpino, a quanti
impegnati giornalmente nel soccorso nei paesi e nell'organizzazione
delle iniziative culturali. Un tessuto importantissimo che offre la
linfa essenziale. I ragazzi che frequenteranno il nostro territorio,
grazie all'abile regia di Legambiente, saranno una presenza fissa e
utile, diventeranno i nostri ambasciatori. La loro presenza, sui
sentieri e nei borghi, per un mese, diventerà una preziosa risorsa"

I volontari e le volontarie dei campi Legambiente, provenienti da tutta Italia, arriveranno lunedì 22 luglio e si alterneranno in tre turni da dieci giorni sino al 20 agosto 2019. 

. Parteciperanno a momenti di approfondimento e conoscenza del
territorio grazie alla collaborazione con la Fondazione Manarola, il
Centro Studi Rischi Geologici, il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e
Speleologico, il CAI della Spezia e saranno ospitati presso la ex
scuola elementare di Manarola, grazie al Comune di Riomaggiore.

Info:  Santo Grammatico 3292337974    - 0187762602 
 comunicazione@parconazionale5terre.it

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(*) Link segnalato: http://list.parconazionale5terre.it//lt.php?id=YU0DCFVbAgAGBUlVUVNQGAcBUwMA