domenica 17 marzo 2013

L'altra campana sul Tibet e sulla presunta libertà precedente l'occupazione cinese



Caro Paolo D'Arpini, ho letto l'articolo che hai pubblicato  sul convegno in Treia circa il Tibet dal titolo IL CUORE FERITO DELL'ASIA.  http://bioregionalismo-treia.blogspot.it/2013/03/il-tibet-vive-anche-treia-durante-i.html

Tu cosi' hai scritto: "Ho trovato un po' strano che un tema simile venisse trattato qui a Treia, non avevo mai sospettato che potesse esserci interesse per cose così distanti, visto anche che l'incontro si svolgeva all'interno dei festeggiamenti per San Patrizio, il patrono di Treia..."

Permettimi di dirti che non comprendo la tua MERAVIGLIA. Il tutto dipende dal colore della Giunta e del Consiglio. Ho visto che il comune di Treia è monopartitico, cioè tutti sono della lista civica. Dette liste sono di vari colori. In ogni caso si potrebbe sospettare che il tutto sia stato fatto per attaccare la  R.P.C. ufficialmente comunista. o per rilanciare una religiosità che nel nostro paese è in totale crisi. 

Dicono IL CUORE FERITA DELL'ASIA. Nella stessa nostra Italia potremmo parlare di un cuore ferito: L'ALTO ADIGE O SUDTIROL. Questa provincia , che fa parte della Repubblica italiana, era abitata, all'origine, esclusivamente da una popolazione di lingua tedesca, che in nessun modo voleva essere inserita in detta Repubblica, allora Regno. I Sudtirolesi, dopo la seconda guerra mondiale, hanno condotto lunghe e pesanti azioni armate, per rivendicare la loro appartenenza all'Austria. A sua volta, il nostro Paese ha trasferito in detta Provincia un gran numero di Italiani. Grosso modo quello che è avvenuto nel Tibet. Se l'alto Adige o Sudtirol  non è più una ferita nel cuore dell'Europa, è perché la relativa popolazione ha accettato le attuali condizioni, sia pure grazie a forti finanziamenti. 

Nel Tibet, invece la relativa popolazione non ha accettato le attuali condizioni, anche se la Cina, ha investito in detto territorio fondi notevoli, elevando le condizioni economiche, culturali, sociali, ecc. dello stesso.  

Per me la questione non è soltanto questa, ma anche quelle che erano le condizioni economiche, culturali  e sociali nelle quali i dalia lama tenevano la propria popolazione. Come sai, fino a poco tempo fa c'era la servitù della gleba. Ricchi, anzi straricchi erano i monaci e una piccola nobiltà che sfruttavano i loro contadini ed altri, mentre il resto della popolazione moriva di fame. 

Quanto che sto dicendo è vero o è falso?  Se è falso, fammelo sapere; se invece dovesse essere vero, dimmi, vuoi tu ancora la servitù della gleba con tutte le relative conseguenze? 

Che bisogna indurre la Cina ad una maggiore comprensione, mi sta bene, ma non parliamo di CUORE FERITO DELL'ASIA.  

Di seguito ti invio un estratto della storia del Tibet in cui risulta qual erano le condizioni economiche, culturali, civili, sociali, ecc.ecc. della popolazione tibetana sotto i dalai lama, sotto la cultura religiosa buddista. 

Dimmi, è vero o è falso quanto in esso è riportato?
Resto in attesa di una tua cortese risposta, o come dici tu, rispostina.

Massimo Sega   

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Mia rispostina: 

Caro Massimo Sega, mi piace il tuo tono franco ed accolgo la tua sollecitazione ad un dialogo più "equanime" sulla situazione del Tibet. A dire il vero in precedenti articoli, in cui comunque cercavo di essere il più possibile rispettoso di entrambe le visioni, quella cinese e  quella del Dalai Lama, avevo anch'io tenuto in considerazione quanto da te espresso (come anche da nota sottostante da te inviata). Infatti il mio consiglio al governo Cinese era stato quello di riconoscere una certa autonomia alla regione tibetana, esattamente come da te indicato nel caso del nostro Alto Adige, che gode di ampia autonomia ed ha enormi vantaggi amministrativi. Pur confermandoti che l'Alto Adige, malgrado l'immigrazione di tante famiglie italiane, soprattutto dipendenti di servizi pubblici, mantiene una maggioranza di "parlanti" il tedesco, mentre in Tibet la situazione si è rovesciata: su 6 milioni di tibetani sovrastano almeno 10 milioni di cinesi, ed il linguaggio tibetano è in disuso, poiché è obbligatorio il cinese in ogni atto pubblico e  nelle scuole si insegna solo il "mandarino". Il fatto che il Tibet fosse stato semideserto e la Cina sovrappopolata ha favorito il sorpasso... Ciò non toglie che una maggiore tolleranza e giustizia sociale  da parte cinese migliorerebbe sicuramente la  sua immagine politica e servirebbe ad allentare la tensione nel paese. D'altronde in casi diversi come ad esempio ad Hong Kong una certa libertà amministrativa è stata lasciata....
Una botta al cerchio ed una alla botte.. si dice... Ed infatti è comunque bene parlare di questi argomenti e promuovere un dialogo costruttivo (sempre sperando che qualche governante cinese legga queste note..).

Paolo D'Arpini



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Commento di Gianni Donaudi: "Ho detto più volte che  la celeberrima"questione-Tibet" è un pretesto per scatenare una apocalittica guerra tra U$A e Cina. E questo tanti/te radical-chic, così amanti del pacifismo dovrebbero capirlo. ma il loro cervelletto glielo impedisce loro. Non sono certo un fanatico della Cina c.d."popolare" (dove ormai vige il liberismo più selvaggio). Ma il CLERICALISMO FEUDALE  tibetano non è di certo meglio.... Vivrebbero i Radical Chic nello Stato Pontificio cattolico o nell'Arabia Saudita islamica? Di certo no!....."




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Risposta al signor  Massimo Sega da parte di Claudio Cardelli, presidente dell'Associazione Italia-Tibet, in merito al confronto nato sul portale bioregionalismotreia.it


"Il signor Sega riporta né più e né meno quello che la propaganda di Pechino ripete come un disco rotto da 63 anni e il suo libro di storia è il libro di Michael Parenti, un ben noto filo cinese fedelissimo di Pechino. Considerare quello di Parenti un "libro sulla storia del Tibet" è per lo meno ingenuo. Sostenere che il Tibet fosse un paradiso in terra è da imbecilli e sono d'accordo che una certa vulgata occidentale new age ha più nuociuto che aiutato la causa; così come è ingenuo sostenere che i tibetani fossero tutti asceti sorridenti e beoti (l'intervento di Buldrini su questo tema è stato molto chiaro). 

Ma giustificare il GENOCIDIO in corso in Tibet con il fatto che, a differenza dei Tirolesi, i Tibetani non se ne sono stati buoni e zitti a farsi cancellare dall'altipiano è ancor peggio. E' criminale. Il paragone non è affatto calzante. Oggi il modello altoatesino è preso come esempio da proporre a Pechino per una genuina autonomia per il Tibet (nazione fino al 1950 indipendente de jure e de facto) Da anni tibetani vengono a Bolzano e Trento per convegni e seminari sul modello locale. Ottima ispirazione se realizzabile. Ma quale è stata la risposta di Pechino alle proposte di autonomia ormai ripetute sino alla nausea dal DL e dal suo governo? Quella ben descritta dalla "rispostina" dell'autore. Ma non solo...

Paragonare la vicenda tibetana a quella dell'Alto Adige è assurdo per la diversità degli interlocutori. Ricordo che durante il fascismo l'alto Adige non ha avuto il benché minimo barlume di autonomia ed è stato solo dopo una lunga lotta fatta anche di terrore e attentanti che un governo democratico italiano ha risolto il problema con tutta una serie di facilitazioni e rispetto delle identità linguistiche, culturali etc.   Dunque è impensabile dialogare e trovare un accordo con questo REGIME cinese. Nulla di tutto questo accade in Tibet e gli "investimenti" di cui parla il sig. Sega sono SOLO ED ESCLUSIVAMENTE a beneficio dei coloni cinesi che sopravanzano i tibetani ormai del doppio e con un trend esponenziale.

Il sig. Sega, con il riferimento chiaro alla supposta calunnia verso il RPC e il suo partito comunista, è afflitto dalla comune malattia infantile di una certa sinistra italiana che non si rassegna al fatto che il suo idolo di gioventù, Mao e la RPC,  sia oggi un bieco regime schiavista, imperialista e coloniale. Non ce la fanno proprio... per cui i "servi della gleba" e i "privilegi dei monaci" sono un ottimo alibi per giustificare un genocidio... e salvare la faccia del "partito comunista" che in realtà ha delle buone intenzioni. Non a caso parlano di "liberazione pacifica" del Tibet....

Il sig Sega si è chiesto come mai sotto la illuminata guida del PCC e delle sue riforme illuminate e progressiste si sono dati fuoco 108 persone? CENTO OTTO!! Come mai le galere in Tibet sono piene di poveracci che hanno esposto una bandiera della loro nazione o hanno conservato una foto del Dalai lama? Come mai sotto il regime "feudale" dei Dalai Lama non c'è mai stato niente che assomigliasse ad una protesta o un'insurrezione contro il governo del Tibet? 

Claudio Cardelli


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Replica di Massimo Sega a Claudio Cardelli


Egr. Presidente dell' Associazione Italia-Tibet,
ho letto le Sue considerazioni in ordine alla mia memoria sul Tibet, memoria inviata al Circolo vegetariano.  

Ella ha affermato che io avrei riportato quello che dice la propaganda cinese in un libro di Michael Parenti. Mi consenta dirLe che quanto io ho scritto è il frutto di una serie di letture. La domanda che Le pongo: quanto ho scritto sulla servitù della gleba, sui monaci, sulle torture, ecc.ecc. e' vero o non e' vero ? Se tutto questo fosse vero perché difendere una dittatura spietata contro un'altra dittatura anche essa spietata ? 

Mi consenta riportarle quanto altro ho letto: 
DAL 1700 IL TIBET CADE SOTTO L'EFFETTIVO DOMINIO DELLA CINA CHE PERO' RISPETTA L'AUTORITA' DEL DALAI LAMA. IL DOMINIO DEI MONACI, CHE SIN DAI PRIMI TEMPI VIVEVANO DEL LAVORO DEI LAICI, DIEDE ORIGINE AD UN PROCESSO CHE TENDEVA ALLA ESTINZIONE DEI LAICI. NEGLI ULTIMI TEMPI QUESTI COSTITUIVANO POCO PIU' DELLA META' DELLA POPOLAZIONE. IL RESTO ERA COMPOSTA DA MONACI. IL 23 MAGGIO 1951, VENIVA CONCLUSO IN PECHINO, UN ACCORDO TRA CINESI E TIBETANI PER IL QUALE IL TIBET HA CESSATO DI ESSERE UNO STATO INDIPENDENTE, ASSUMENDO I CINESI LA POLITICA ESTERA E LA DIFESA CHE DIVENTA UNA REGIONE AUTONOMA NELL'AMBITO DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE. IL GOVERNO DELLA REGIONE E' RETTO DAL DALAI LAMA ASSISTITO DA UN GABINETTO. L'ASSEMBLEA NAZIONALE E' COSTITUITA DA MONACI E DA UFFICIALI LAICI. DAL 1956 VIENE ISTITUITO UN COMITATO PER LA ISTITUZIONE DELLA REGIONE AUTONOMA. 

Egr. Presidente, quanto ho ora scritto è stato rilevato dal Dizionario Enciclopedico Treccani. Cosa dobbiamo pensare? Che anche questa enciclopedia sia filo cinese, fedelissima a Pechino?

Ho altresì letto, e ciò non nel libro di Machael Parenti:
L'ACCORDO PREVEDEVA CHE IL TIBET RINUNCIASSE AD UNA POLITICA ESTERA AUTONOMA, A BATTERE MONETA E A STAMPARE FRANCOBOLLI. POICHE' ALCUNE RIFORME DEL NUOVO GOVERNO, TRA CUI QUELLA DI UNA RIDISTRIBUZIONE DELLE TERRE, SAREBBERO RISULTATE IMPOPOLARI TRA MONACI E ARISTOCRATICI, L'ACCORDO DEI 17 PUNTI PREVEDEVA UN GRADUALE INSERIMENTO DI TALE RIFORME NELL'ARCO DI SEI ANNI.

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Nota allegata da Massimo Sega:



Le religioni hanno sempre avuto una stretta correlazione non soltanto con

la violenza, ma anche con lo sfruttamento economico. In realtà, è spesso

la strumentalizzazione economica che conduce necessariamente alla
violenza. Tale è stato il caso della teocrazia tibetana. Fino al 1959,
quando il Dalai Lama presiedette l'ultima volta il Tibet, la maggior parte
della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà feudali
religiose o secolari lavorate da servi della gleba. Addirittura uno
scrittore come Pradyumna Karan, solidale con il vecchio ordine, riconosce
che "una grande quantità di proprietà apparteneva ai monasteri, la
maggioranza di essi accumulava notevoli ricchezze..Inoltre, monaci e Lama
riuscirono ad ammassare individualmente notevoli ricchezze tramite la
partecipazione attiva negli affari, nel commercio e nell'usura." (8)

Il monastero di Drepung era uno delle più estese proprietà terrestri del
mondo, con i suoi 185 feudi, 25.000 servi della gleba, 300 grandi pascoli
e 16.000 guardiani di gregge. La ricchezza dei monasteri andava ai Lama di
più alto rango, molti dei quali rampolli di famiglie aristocratiche,
mentre invece la maggior parte del clero più basso era povero come la
classe contadina dalla quale discendeva. Questa disuguaglianza economica
classista all'interno del clero tibetano, è strettamente paragonabile a
quella del clero cristiano dell'Europa medievale. Insieme al clero
superiore, i leaders secolari facevano la loro parte. Un esempio
considerevole fu il comandante in capo dell'esercito tibetano, che
possedeva 4.000 chilometri quadrati di terra e 3.500 servi. Egli era anche
un membro del Consiglio terriero del Dalai Lama. (9)

L'Antico Tibet è stato rappresentato da alcuni dei suoi ammiratori
occidentali come "una nazione che non necessitava forze di polizia perché
il suo popolo osservava spontaneamente le leggi del karma." (10) In realtà
era dotato di un esercito professionale, sebbene di piccole dimensioni,
che era al servizio dei proprietari terrieri come gendarmeria, con
l'incarico di mantenere l'ordine e catturare i servi della gleba
fuggitivi. (11)

I ragazzini tibetani venivano regolarmente sottratti alle loro famiglie e
condotti nei monasteri per essere educati come monaci. Una volta laggiù,
erano vincolati per tutta la vita. Tashì-Tsering, un monaco, riferisce che
era pratica comune per i bambini contadini essere abusati sessualmente nei
monasteri. Egli stesso fu vittima di ripetute violenze sessuali perpetrate
durante l'infanzia, non molto tempo dopo che fu introdotto nel monastero,
all'età di nove anni. (12)

Nell'Antico Tibet vi era un piccolo numero di agricoltori il cui stato
sociale era una sorta di contadino libero, e forse un numero aggiuntivo di
10.000 persone, le quali costituivano la "classe media", famiglie di
mercanti, bottegai e piccoli commercianti. Migliaia di altri erano
mendicanti. Una piccola minoranza erano poi schiavi, di solito servi
domestici, che non possedevano nulla. La loro prole nasceva già in
condizioni di schiavitù. (13)

Nel 1953, la maggioranza della popolazione rurale - circa 700.000 su una
popolazione totale stimata 1.250.000 - era composta da servi della gleba.
Vincolati alla terra, veniva loro assegnata soltanto una piccola parcella
fondiaria per poter coltivare il cibo atto al sostentamento. I servi della
gleba e il resto dei contadini dovevano in genere fare a meno
dell'istruzione e dalle cure mediche. Trascorrevano la maggioranza del
loro tempo sgobbando per i monasteri e per i singoli Lama di alto rango, e
per un'aristocrazia secolare, laica, che non contava più di 200 famiglie.
Essi erano in effetti proprietà dei loro signori, che gli comandavano
quali prodotti della terra coltivare e quali animali allevare. Non si
potevano sposare senza il consenso del loro signore o Lama. Se il suo
signore lo avesse inviato in un luogo di lavoro lontano, un servo avrebbe
potuto essere facilmente separato dalla sua famiglia. I servi potevano
essere venduti dai loro padroni, o sottoposti a tortura e morte. (14)
 La servitù necessitava di un permesso per
recarsi ovunque. I proprietari terrieri avevano l'autorità legale di
catturare e impiegare metodi coercitivi, sino alla violenza, nei confronti
di quelli che tentavano di fuggire, obbligandoli a tornare indietro. 
Oltre a ritrovarsi in un vincolo lavorativo che li obbligava a lavorare la
terra del signore - oppure quella del monastero - per tutta la durata
della vita e senza salario, i servi della gleba erano costretti a riparare
le case del signore, trasportarne la messe e raccoglierne la legna da
ardere. Si esigeva anche che provvedessero a trasportare gli animali e al
trasporto su richiesta, a seconda delle pretese del padrone. "Era un
efficiente sistema di sfruttamento economico, che assicurava alle élites
laiche e religiose del paese una forza lavoro sicura e permanente per
coltivare i loro appezzamenti di terreno, che li esonerava dall'accollarsi
qualsiasi responsabilità quotidiana diretta circa la sussistenza del
servo, e senza la necessità di competere per la manodopera in un contesto
di mercato." (17)

La gente comune sgobbava sotto il doppio fardello della corvée (lavoro
forzato non retribuito in favore del padrone) e delle decime onerose. Ogni
aspetto della vita era gravato da tributi: il matrimonio, la nascita di
ogni figlio, ogni morte in famiglia. Erano soggetti a imposta per aver
piantato un nuovo albero nel loro cortile, per tenere animali domestici o
dell'aia, per il possesso di un vaso di fiori, o per l'aver messo un
campanello ad un animale. C'erano tasse per le festività religiose, per
cantare, ballare, far rullare il tamburo e suonare il campanello. La gente
veniva tassata per quando veniva mandata in prigione e quando la si
rilasciava. Addirittura i mendicanti erano soggetti alla pressione
fiscale. Quelli che non riuscivano a trovare lavoro erano tassati a causa
della loro disoccupazione, e se si spostavano in un altro villaggio nella
loro ricerca di un'occupazione, pagavano una tassa di transito. Quando la
gente non poteva pagare, i monasteri prestavano loro denaro ad un
interesse oscillante fra il 20% e il 50%. Alcuni debiti venivano
tramandati di padre in figlio sino al nipote. I debitori che non potevano
evadere i loro debiti, rischiavano la riduzione in schiavitù per un
periodo di tempo stabilito dal monastero, a volte per il resto delle loro
vite. (18)

Le dottrine pedagogiche della teocrazia ne appoggiarono e rafforzarono
l'ordine sociale classista. Si insegnava ai poveri e agli afflitti che i
propri guai erano su di loro a causa del loro comportamento sciocco e
immorale nel corso delle loro vite precedenti. Dovevano quindi accettare l
a miseria della loro esistenza presente come un'espiazione e in anticipo,
solo così il loro destino, la loro sorte sarebbero migliorati se fossero
rinati, se si fossero reincarnati. I ricchi e potenti consideravano
naturalmente la loro buona fortuna come una ricompensa e una dimostrazione
tangibile di virtù nelle vite passate e presenti.

Torture e mutilazioni in Shangri-La

Nel Tibet del Dalai Lama, la tortura e la mutilazione - comprese
l'asportazione dell'occhio e della lingua, l'azzoppamento e l'amputazione
delle braccia e delle gambe - erano le punizioni principali inflitte ai
ladri, ai servi fuggiaschi, e ad altri "criminali". Viaggiando attraverso
il Tibet negli anni '60, Stuart e Roma Gelder ebbero un colloquio con un
antico servo, Tsereh Wang Tuei, che aveva rubato due pecore che
appartenevano ad un monastero. Per questo ebbe entrambi gli occhi
strappati e le mani mutilate. Spiega che non è più un buddista: "Quando un
sacro Lama disse loro di accecarmi, pensai che non c'era alcun bene nella
religione." (19)

Alcuni visitatori occidentali nell'Antico Tibet hanno fatto notare
l'elevato numero di amputati. Dato che è contro la dottrina buddista
sottrarre la vita, alcuni delinquenti furono severamente frustati e poi
"abbandonati a Dio" nella gelida notte a morire. "I paralleli fra il
Tibet e l'Europa medievale sono impressionanti," conclude Tom Grunfeld nel
suo libro sul Tibet. (20)

Alcuni monasteri avevano le proprie prigioni private, riporta Anna Louise
Strong. Nel 1959, visitò una mostra di apparecchiature da tortura che
erano state impiegate dai signori feudatari tibetani. C'erano manette di
tutte le taglie, comprese quelle di piccola misura per bambini, e
strumenti per mozzare nasi e orecchie, e spezzare mani. Per strappare gli
occhi, c'era uno speciale copricapo di pietra, provvisto di due fori, che
veniva premuto sul capo, così che gli occhi potessero gonfiarsi e
deformarsi fuoriuscendo dalle orbite, facilitandone l'asportazione.
C'erano congegni per tagliare le rotule e i talloni, o per azzoppare.
C'erano tizzoni ardenti, scudisci e strumenti speciali per sventrare. (21)

L'esposizione presentava fotografie e testimonianze di vittime che erano
state accecate o storpiate o che avevano patito amputazioni per furto.
C'era il pastore il cui padrone vantava un debito nei suoi confronti in
denaro e grano, ma che si rifiutava di pagare. Così il pastore si
impossessò di una delle mucche del padrone; e per questo gli furono
troncate le mani. Ad un altro guardiano di gregge, che si opponeva al
dover concedere la moglie al suo signore, furono staccate le mani. C'erano
fotografie di attivisti comunisti dai nasi e dalle labbra superiori
troncati, e una donna che era stata violentata e che poi ebbe il naso
mozzato. (22)

Il dispotismo teocratico era stato per anni il principio informatore. Nel
1895, un visitatore inglese in Tibet, il dr. A. L. Waddell scrisse che i
tibetani erano assoggettati all' "intollerabile tirannia dei monaci" e
alle superstizioni diaboliche che essi avevano modellato al fine di
terrorizzare le persone. Perceval Landon descrisse nel 1904 la regola del
Dalai Lama come una "macchina da sopraffazione" e un "ostacolo ad ogni
progresso umano." Più o meno a quel tempo, un altro viaggiatore inglese,
il Capitano W.F.T. O'Connor notava che " i grandi proprietari terrieri e i
sacerdoti. esercitano ciascuno all'interno del proprio dominio un potere
dispotico dal quale non c'è appello," mentre il popolo è "oppresso dalla
più mostruosa crescita di monachesimo e clericalismo che il mondo abbia
mai visto." I governatori tibetani, come quelli europei durante il
medioevo, "forgiarono innumerevoli armi per asservire il popolo,
inventarono leggende umilianti e stimolarono uno spirito di superstizione"
fra la gente comune. (23)

Nel 1937, un altro visitatore, Spencer Chapman, scrisse: ".il monaco
buddista tibetano non trascorre il proprio tempo provvedendo alle persone
o ad istruirle, e nemmeno i laici prendono parte ai servizi dei monasteri
o li frequentano. Il mendicante sul ciglio della strada non è nulla per il
monaco. La conoscenza è una prerogativa dei monasteri custodita
gelosamente, ed è strumentalizzata per aumentare la loro influenza e
ricchezza..." (24)


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Risposta   di Claudio Cardelli presidente di Italia-Tibet e note annesse:



Signor Sega, 
penso che sia molto difficile che io e lei troviamo una concordanza sulla questione tibetana. Le confermo la mia opinione assolutamente negativa su Parenti mentre ritengo che la sua citazione della Treccani sul trattato dei 17 punti sia davvero impropria e analiticamente superficiale. Con tutto il rispetto per l'enciclopedia Italiana e le sue glorie credo che frammenti di storia così dettagliati e complicati come la vicenda del trattato di cui sopra non possano essere sintetizzati in un paragrafetto enciclopedico. Avrei preferito che lei mi citasse qualche studioso di livello come Goldstein o Tsering Sakya o la stessa Collotti Pischel per argomentare qualcosa contro il bieco regime monastico o sul periodo seguente all'occupazione del Tibet. Parenti, come Victor e Victoria Trimondi, appartengono ad una esigua schiera di avvelenati la cui attendibilità è molto discutibile. In realtà anche lei, così come a Pechino, sta bene l'equazione "era un regime feudale, classista e teocratico e quindi andava abbattuto. A qualunque prezzo" Non la penso assolutamente così e temo come detto all'inizio, l'impossibilità di una sintesi comune. Il Tibet era una società arcaica e come tale conteneva tutti gli elementi di un modello sociale che poteva anche non piacere ma che aveva tutto il diritto di scegliersi il suo modo di riformarsi come del resto già iniziato dal XIII DL. Visto che lei copia e incolla le allego alcune note di Michael Van Waalt che ha approfondito nel volume "The Status of Tibet" tutti gli aspetti giuridici e storici della questione tibetana-



Michael C. van Walt van Praag, noto esperto di diritto internazionale, in appendice ad un suo articolo scritto per la rivista International Relations, riassume i principali aspetti della questione tibetana sotto il profilo del diritto internazionale.
Il governo tibetano in esilio, guidato da Sua Santità il Dalai Lama, ha costantemente sostenuto che il Tibet si trova sotto la illegale occupazione cinese in quanto la Cina ha invaso questo paese, politicamente indipendente, nel 1949/50. La Repubblica Popolare Cinese di contro insiste nel sostenere che i suoi rapporti con il Tibet sono semplicemente un suo affare interno poiché il Tibet è ed è stato per secoli parte integrante della Cina. La questione dello status del Tibet è essenzialmente una questione legale ma di grande rilevanza politica.
La Repubblica Popolare Cinese non rivendica alcun diritto di sovranità sul Tibet come conseguenza della sottomissione militare e dell'occupazione del paese in seguito all’invasione armata del 1949/50. Difficilmente infatti potrebbe sostenere questa tesi poiché rifiuta categoricamente, in quanto illegale, ogni rivendicazione di sovranità basata sulla conquista, l'occupazione o l'imposizione di trattati ingiusti avanzate da altri Stati. La Repubblica Popolare cinese reclama invece il suo diritto sul Tibet asserendo che il Tibet è diventato parte integrante della Cina settecento anni fa.


Le originiSebbene la storia dello stato tibetano abbia inizio nel 127 a.C. quando prese il potere la dinastia Yarlung, il Paese, come lo conosciamo oggi, fu unificato per la prima volta nel settimo secolo sotto il re Song-tsen Gampo ed i suoi successori. Durante i tre secoli seguenti il Tibet fu una delle più grandi potenze dell'Asia come testimonia l’iscrizione riportata su una colonna alla base del palazzo del Potala, a Lhasa, confermata dai poemi cinesi del periodo Tang. Inoltre, un trattato di pace fra la Cina ed il Tibet fu siglato negli anni 821-823. In esso si delineano i confini tra i due paesi e si afferma che "i tibetani potranno vivere felici nel Tibet ed i cinesi in Cina".


L'influenza mongola
Nel tredicesimo secolo quando l'impero mongolo di Gengis Khan si espanse ad ovest verso l'Europa e ad est verso la Cina, i massimi esponenti della fiorente scuola di buddhismo tibetano Sakya stipularono un accordo con i dirigenti mongoli al fine di evitare la conquista del Tibet. Lama tibetani si impegnarono a garantire la fedeltà politica, la benedizione religiosa ed insegnamenti in cambio di patrocinio e protezione. Il legame religioso divenne così importante che quando, decenni più tardi, Kublai Khan conquistò la Cina instaurando la dinastia Yuan (1279-1368), invitò il capo della scuola Sakya a ricoprire la carica di Precettore Imperiale e Supremo Pontefice del suo impero.
Il rapporto tra mongoli e tibetani, continuato fino al ventesimo secolo, testimonia la stretta affinità razziale, culturale e religiosa tra i due popoli dell'Asia centrale. L'Impero Mongolo fu un impero di importanza mondiale e, qualunque fosse la relazione tra i suoi governanti ed i tibetani, i mongoli non favorirono mai in alcun modo l'integrazione del Tibet con la Cina o con la sua amministrazione.
Il Tibet ruppe i propri legami politici con gli imperatori Yuan nel 1350, prima che la Cina riguadagnasse la sua indipendenza dai mongoli. Negli anni che seguirono fino al diciottesimo secolo, il Tibet non subì alcuna influenza straniera.


Rapporti con Manciù e GorkhaIl Tibet non stabilì alcun legame con la dinastia cinese Ming (1336-1664). Anzi, il V° Dalai Lama, che nel 1642 costituì il suo governo sovrano sul Tibet con l'aiuto di un mecenate mongolo, strinse stretti rapporti religiosi con gli imperatori Manciù che conquistarono la Cina instaurando la dinasta Qing (1644-1911). Il Dalai Lama acconsentì a diventare guida spirituale dell'imperatore Manciù ed in cambio ne accettò la protezione. Questo rapporto di „guida spirituale-protettore“ (in tibetano Choe-Yoen), che i Dalai Lama mantennero anche con alcuni principi mongoli e nobili tibetani, costituì il solo legame formale tra i Tibetani ed i Manciù durante la dinastia Qing e non comportò alcuna influenza negativa sull'indipendenza del Tibet.
A livello politico alcuni potenti imperatori Manciù riuscirono ad esercitare una certa influenza sul Tibet. Tra il 1720 ed il 1792, gli imperatori Kangxi, Yong Zhen e Quianlong inviarono quattro volte truppe imperiali in Tibet al fine di difendere il Dalai Lama da invasioni da parte dei mongoli e dei Gorkha oppure da agitazioni interne. Tali spedizioni fornirono agli imperatori Manciù il pretesto per esercitare una certa influenza sul Tibet. Vennero così inviati a Lhasa, capitale del Tibet, rappresentanti dell'imperatore alcuni dei quali, in seguito, esercitarono con successo pressioni sul governo tibetano, specialmente per quanto riguarda la politica estera. Nel momento di massima espansione dell'influenza Manciù, la posizione del Tibet non è stata mai molto diversa da quella che può verificarsi tra una superpotenza e uno stato satellite. Una situazione, quindi, che, sebbene politicamente rilevante, non annulla l'indipendenza dello stato più debole. Questo particolare rapporto durò alcuni decenni. Il Tibet non fu mai incorporato nell'Impero Manciù, tanto meno nella Cina, e continuò a portare avanti, di propria iniziativa, le relazioni con gli stati vicini.
L'influenza Manciù non durò a lungo ed era completamente esaurita quando gli Inglesi, che per un breve periodo avevano occupato Lhasa, conclusero con i tibetani, nel 1904, un trattato bilaterale, noto come Convenzione di Lhasa. Nonostante tale perdita d’influenza il governo imperiale di Pechino continuò a reclamare una qualche autorità sul Tibet, soprattutto per quanto riguardava le relazioni estere di questo paese, autorità che il governo imperiale britannico, nei suoi rapporti con Pechino e San Pietroburgo, definì come „controllo politico“. Le forze imperiali tentarono di ristabilire una supremazia reale sul Tibet invadendo il paese ed occupando Lhasa nel 1910. A seguito della rivoluzione cinese del 1911 e della caduta dell'impero Manciù, le truppe di Pechino si arresero all'esercito tibetano e rientrarono in Cina in ossequio ad un trattato di pace tra la Cina ed il Tibet. Il Dalai Lama riaffermò la più completa indipendenza sia all'interno emanando un proclama su tale status, sia all'esterno nei contatti con altri governi e stipulando un trattato con la Mongolia.

Il Tibet nel ventesimo secolo

Lo status del Tibet, dopo il ritiro delle truppe Manciù, non è oggi oggetto di seri motivi di discussione. Qualunque fossero i legami tra il Dalai Lama e gli imperatori Manciù della dinastia Qing, essi ebbero fine con la caduta dell'impero e della dinastia. Tra il 1911 ed il 1950 il Tibet impedì con successo l'instaurarsi di indebite ingerenze straniere ed operò, sotto ogni punto di vista, come uno stato completamente indipendente.
Il Tibet intrattenne relazioni diplomatiche con il Nepal, il Bhutan, la Gran Bretagna e più tardi con l'India indipendente. Le relazioni con la Cina si mantennero tese. I cinesi intrapresero una guerra di confine con il Tibet e nello stesso tempo fecero pressioni ufficiali affinché il Paese delle Nevi confluisse nella Repubblica cinese reclamando sempre ed ovunque che i tibetani erano una delle
 cinque razze cinesi.
Nel tentativo di attenuare la tensione sino-tibetana, gli Inglesi convocarono, nel 1913 a Simla, una conferenza tripartita nella quale i tre stati si incontrarono a pari condizioni. Come fece presente il delegato inglese alla sua controparte cinese, il Tibet prese parte alla conferenza come una 
nazione indipendente che non riconosceva alcun legame con la Cina. La conferenza non ebbe un esito positivo poiché non riuscì a risolvere le controversie esistenti tra Cina e Tibet ma fu importante perché riaffermò l'amicizia anglo-tibetana, suggellata da una accordo commerciale tra i due paesi e dalla sistemazione di alcuni problemi di confine. Nella dichiarazione congiunta la Gran Bretagna ed il Tibet si impegnarono a non riconoscere mai la sovranità cinese o altri diritti speciali sul Tibet a meno che la Cina non avesse sottoscritto la Convenzione di Simla che, tra l'altro, garantiva al Tibet una più ampia estensione, l’integrità territoriale e la piena autonomia. Poiché la Cina non firmò mai la Convenzione, rimane in vigore quanto espresso nella dichiarazione congiunta.
Il Tibet intrattenne le proprie relazioni internazionali sia attraverso contatti con missioni diplomatiche britanniche, cinesi, nepalesi e bhutanesi a Lhasa, sia inviando proprie delegazioni governative all'estero. Quando l'India divenne indipendente la missione britannica a Lhasa fu sostituta da una missione indiana. Durante la seconda guerra mondiale il Tibet assunse una posizione neutrale nonostante forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Cina affinché venisse consentito il passaggio di armamenti in territorio tibetano.
Il Tibet non ha mai intrattenuto rapporti con molti stati, ma quelli con i quali ha avuto contatti hanno trattato il Tibet come uno stato sovrano. Di fatto il suo status internazionale non era affatto differente da quello del Nepal. Così quando il Nepal, nel 1949, chiese di diventare membro delle Nazioni Unite citò, tra l'altro, le sue relazioni diplomatiche con il Tibet a sostegno della sua piena personalità internazionale.



L'invasione del TibetIl momento critico della storia del Tibet sopraggiunse nel 1949 quando l'esercito di Liberazione della Repubblica Popolare Cinese invase il paese. Dopo aver sconfitto il piccolo esercito tibetano ed aver occupato metà del territorio, nel maggio 1951 il governo cinese impose al governo tibetano il cosiddetto „Accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet“. Tale accordo, poiché sottoscritto forzatamente, non ha validità secondo il diritto internazionale: la presenza di 40.000 militari, la minaccia di un’imminente occupazione di Lhasa e la prospettiva di una totale eliminazione del Tibet lasciavano ai tibetani pochissime possibilità di scelta.


Conclusioni
Nel corso dei suoi 2.000 anni di storia, il Tibet è stato soggetto all’influenza straniera solo per brevi periodi nel corso del tredicesimo e diciottesimo secolo. Pochi paesi indipendenti possono oggi rivendicare un passato così illustre. Come ha fatto notare l'ambasciatore d'Irlanda alle Nazione Unite nel corso di un dibattito dell'Assemblea Generale sulla questione del Tibet... „per migliaia di anni o in ogni caso per almeno duemila anni, [il Tibet] è stato libero e ha avuto il pieno controllo dei suoi affari interni quanto e come altre nazioni rappresentate in questa Assemblea ed ancora mille volte più libero di quanto potessero essere molte delle Nazioni qui presenti...“ Nel corso dei dibattiti alle Nazioni Uniti molti altri Paesi hanno fatto dichiarazioni che riflettono analoghi riconoscimenti dello status indipendente del Tibet. Così, per esempio, il delegato delle Filippine ha dichiarato: „È chiaro che alla vigilia dell’invasione, nel 1950, il Tibet non era soggetto al governo di nessun Paese straniero.“ Il delegato della Thailandia ha ricordato all'Assemblea che „...la maggioranza degli Stati rifiuta l'opinione che il Tibet sia parte della Cina.“ Gli Stati Uniti si sono uniti alla maggioranza degli altri Stati membri delle Nazioni Uniti nel condannare l'aggressione cinese e l'invasione. Nel 1959, 1960 ed ancora nel 1965 l'Assemblea Generale delle Nazioni Uniti ha approvato tre risoluzioni (1353 [XIV], 1723 [XVI] e 2079 [XX]) che condannano le violazioni dei diritti umani da parte dei cinesi e richiamano la Cina a rispettare ed a garantire i diritti umani e le libertà fondamentali del popolo tibetano incluso il diritto all'autodeterminazione.
Dal punto di vista giuridico il Tibet non ha mai perso la sua caratteristica di stato. È una nazione indipendente oppressa da una occupazione illegale. Né l'invasione militare cinese né l'occupazione continua da parte dell'Esercito di Liberazione della Repubblica Popolare della Cina hanno potuto trasferire la sovranità del Tibet alla Cina. Come sottolineato in precedenza il governo cinese non ha mai rivendicato di aver acquisito la sovranità sul Tibet per mezzo della conquista. Infatti anche la Cina riconosce che l'uso o la minaccia della forza (eccetto le condizioni eccezionali stabilite dalla Corte delle Nazioni Unite), l'imposizione di un trattato ingiusto e la continua, illegale occupazione di un Paese non possono in alcun modo garantire all'invasore il diritto di proprietà del territorio occupato. Le rivendicazioni cinesi sono basate esclusivamente sul preteso assoggettamento del Tibet da parte di pochi potenti governanti cinesi durante il tredicesimo ed il diciottesimo secolo.

Per sua piacevole lettura le allego anche un testo dal libro di C. Sciuto " Tibet tra passato e presente, Origini e Cause dell'invasione Cinese" appena pubblicato in Italiano e che forse racconta un po' meglio della Treccani la faccenda dei 17 punti.

Nel libro Modern History of Tibet di Tsering Sakya ( autore ben noto tra gli studiosi del Tibet e  riconosciuto come lucido e imparziale ) troverà ulteriori approfondimenti sia sul trattato che sulle vicende seguenti ad esso.


Cordialmente 
Claudio Cardelli


Dott. Claudio Cardelli
Presidente Associazione Italia Tibet
Viale Principe Amedeo 11
47900 Rimini
tel-fax 0541 020014-


VI Scheda – L’accordo in diciassette punti

Dopo oltre mezzo secolo dalla firma dell’accordo in diciassette punti, non è stato ancora del tutto chiarito cosa realmente avvenne nei mesi antecedenti la ratifica dello stesso, e, su un imprecisato numero di versioni, due sole rimangono degne di nota rispetto le altre. La prima di queste vede i rappresentanti del governo tibetano che, dopo essere rimasti per mesi impantanati in un immobilismo decisionale – dopo aver visto fallire i loro appelli internazionali, tra i quali quello  inviato all’ONU nel 1950 –, responsabilmente firmarono il trattato, anche per il timore di subire nuove rappresaglie sul proprio territorio, come quella inglese del 1904 . La seconda versione sostiene invece che la delegazione tibetana rifiutò, in un primo momento, la firma dell’accordo e che i cinesi, usando tutti i mezzi coercitivi a loro disposizione, compresa la contraffazione dei sigilli tibetani, ottennero, ugualmente , l’assenso. In questo alternarsi d’ipotesi – altre ne verranno nel tempo – l’unica cosa certa è che il 23 maggio del 1951 l’accordo fu firmato dalle due rappresentanze, firma cui fece seguito la proclamazione di Mao dell’avvenuta “pacifica” annessione del Tibet alla Cina. Il trattato prese quindi il nome completo di “Accordo in diciassette punti per la liberazione pacifica del Tibet”: un nome che è già in sé tutto un programma.

Vediamo adesso il contenuto dei punti dell’accordo per esaminarli dopo nei suoi passaggi essenziali:

Accordo in diciassette punti
Il popolo tibetano si unirà e respingerà le forze d’aggressione dell’imperialismo fuori dal Tibet; il popolo tibetano ritornerà in seno alla famiglia della madrepatria: la Repubblica popolare cinese.
Il governo locale del Tibet porterà attivamente assistenza all’esercito popolare di liberazione allo scopo di facilitare il suo ingresso in Tibet e di consolidare la difesa nazionale.
In accordo con la politica sulla nazionalità inserita nel programma comune della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, il popolo tibetano ha il diritto di esercitare l’autonomia nazionale regionale sotto la direzione unificata del governo popolare centrale.
Le autorità centrali non modificheranno il sistema politico esistente in Tibet. Le autorità centrali non modificheranno neppure lo stato giuridico, le funzioni e i poteri del Dalai Lama. I responsabili di diverso rango resteranno, come al solito, al proprio posto.
Lo stato giuridico, le funzioni ed i poteri del Panchen Erdini – Lama – saranno mantenuti.
Per stato giuridico, funzioni e poteri del Dalai Lama e del Panchen Erdini – Lama – s’intendono lo statuto, le funzioni e i poteri del tredicesimo Dalai Lama e del nono Panchen Erdini –Lama –, del periodo in cui essi mantenevano relazioni amichevoli.
La politica di libertà di fede religiosa, inscritta nel programma comune della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, verrà attuata. Verranno rispettate le fedi religiose, le tradizioni e le consuetudini del popolo tibetano e saranno protetti i monasteri lamaistici. Le autorità centrali non attingeranno alle risorse dei monasteri.
Le truppe tibetane verranno gradualmente riorganizzate all’interno dell’esercito popolare di liberazione e formeranno una parte delle forze di difesa nazionale della Repubblica popolare cinese.
La lingua parlata e scritta, cosi come l’educazione nazionale tibetana verranno sviluppate per gradi, in armonia con le condizioni reali esistenti in Tibet.
Verranno gradualmente sviluppati l’agricoltura, l’allevamento, l’industria e il commercio e saranno migliorati, sempre gradualmente, i mezzi di sussistenza del popolo, in funzione delle condizioni reali esistenti in Tibet.
Per quanto riguarda le diverse riforme in Tibet, le autorità centrali non eserciteranno coercizioni. Il governo locale del Tibet potrà effettuare le riforme a suo piacimento e le richieste di riforme formulate dal popolo troveranno risposta mediante consultazioni con i dirigenti del Tibet.
Per quanto riguarda gli ex responsabili filo imperialisti o favorevoli al Guomindang, qualunque sia il loro passato, possono mantenere le loro responsabilità, se spezzano decisamente i loro legami con l’imperialismo e con il Guomindang, e se rinunciano ai sabotaggi o alla resistenza.
L’esercito popolare di liberazione che entra in Tibet rispetterà tutti i punti sopra menzionati, sarà giusto negli acquisti e nelle vendite e non si impadronirà arbitrariamente nemmeno di un ago o di un pezzo di filo che appartenga al popolo.
Il governo popolare centrale si assumerà la direzione centralizzata di tutti gli affari esteri del Tibet. Si instaurerà una coesistenza pacifica con i paesi vicini, si costituiranno e svilupperanno altresì giuste relazioni commerciali con essi, basate sull’uguaglianza, sul reciproco vantaggio e sul mutuo rispetto per il territorio e la sovranità.
Allo scopo di garantire l’applicazione dell’accordo, il governo popolare centrale creerà una commissione militare e amministrativa e un quartiere generale per la zona militare del Tibet e, oltre a inviare proprio personale, assorbirà per prendere parte a questa impresa la maggiore quantità possibile di manodopera tibetana. La manodopera tibetana locale che entrerà a far parte della commissione militare e amministrativa può comprendere anche elementi patriottici del governo locale tibetano, provenienti dai diversi distretti e dai principali monasteri. L’elenco dei nomi sarà stabilito dopo consultazioni tra i rappresentanti designati dal governo popolare centrale e i diversi organi competenti e verrà sottoposto per l'approvazione al governo popolare centrale.
Il governo popolare centrale fornirà i fondi necessari per la commissione militare e amministrativa, per il quartiere generale della zona militare e per l’esercito popolare di liberazione che entra in Tibet. Il governo locale del Tibet porterà assistenza all’esercito popolare di liberazione per l’acquisto e il trasporto dei viveri, del foraggio e delle altre necessità quotidiane.
Questo accordo entrerà in vigore subito dopo la sua firma e l’apposizione dei sigilli.

Firmato e sigillato da:

I delegati plenipotenziari del governo popolare centrale;
Capo delegazione: Li Weihan.
Delegati: Zhang Jingwu, Zhang Guohua, Sun Zhiyuan.

I delegati plenipotenziari del governo locale del Tibet.
Capo delegazione: Ngapo Ngawang Jigme.
Delegati: Dzasak Khemey Sonam Wangdi, Khentrung Thupten Tenthar, Khenchung Thupten Lekmuun, Rimshi Samposey Tenzin Thondup.
Pechino, 23 maggio 1951

Leggendo tutti i punti dell’accordo non si può fare a meno di notare come il contenuto degli articoli s’intrecci in una “simpatica” alternanza di pretese e concessioni, dove le prime, magari meno numerose delle seconde, hanno di contro, rispetto a quest’ultime, una maggiore valenza politica. Analizzando ad esempio il contenuto del primo punto si comprende che, senza mezzi termini, per il governo di Pechino era già stata decisa la fine di qualunque sogno d’indipendenza coltivato dal popolo tibetano fin dai tempi del XIII Dalai Lama; e continuando con la lettura del secondo e terzo punto non si capisce cosa, effettivamente, abbia firmato la delegazione tibetana se non una resa incondizionata alla Cina! Iniziamo a intravedere un primo barlume di autonomia, sul piano della mera libertà religiosa ed esercizio di un residuo potere teocratico, grazie ai contenuti che vanno dal quarto fino al settimo punto. Gli articoli otto e quindici consegnavano, di fatto, all’esercito popolare cinese il completo controllo delle forze militari tibetane, e forse furono questi i punti, insieme, ovviamente, ai primi tre, che frenarono in un primo momento la delegazione di Lhasa dal porre la firma su un trattato divenuto, in sostanza, unilaterale. E possiamo supporre che il ripensamento divenne decisa rinuncia alla ratifica a causa del contenuto del quattordicesimo punto, grazie al quale la Cina s’interponeva politicamente ed economicamente tra il Tibet e il resto del mondo: isolandolo per sempre. Ritroviamo una delle poche concessioni all’articolo undici dove il governo di Lhasa “è lasciato libero di attuare delle riforme” senza specificare, ovviamente, quanti e quali: certamente troppo poco. Anche se la “cornice” ideologica dell’accordo sembrerebbe ricalcare, in alcuni tratti, quello storico del XIII secolo di sacerdote-protettore tra Pandita e Godan ci fu una differenza sostanziale nella sua fattibilità, la descrizione a seguire chiarirà il perché.

 

2.11 Un accordo fallito

 Tramite un telegramma inviato allo stesso Mao anche il XIV Dalai Lama, nell’ottobre del 1951, accettò l’accordo, confidando di fare leva, in futuro, sui punti a suo favore. Nonostante le buone intenzioni gli anni a seguire – dal 1951 al 1959 – misero, però, a dura prova la concreta applicazione del medesimo trattato a causa di una serie di problemi sorti in entrambi paesi. In Cina, ad esempio, nemmeno Mao, con tutto il suo carisma, riuscì a imporre alla dirigenza del partito la sua politica di graduale processo di sinizzazione del Tibet tramite una metodica applicazione dei punti dell’accordo. A ostacolare più di altri questo pragmatico processo d’integrazione dell’altopiano himalayano furono, stranamente, gli stessi comandati dei reggimenti dell’Armata Rossa dislocate  in Tibet. Vivendo sul territorio, a contatto giornaliero con la popolazione tibetana, percepirono, per primi, l’impossibilità di potere diffondere – o ancora peggio fare proseliti – una nuova ideologia, come quella comunista, in un apparato sociale, come quello tibetano, così “avvinghiato” alla propria cultura e radicato nelle sue tradizioni, sostenute, a loro volta, da una religione invasiva in ogni campo. E pertanto, visti questi presupposti, erano dunque certi che i tibetani non avrebbero concesso nessuna possibilità alla riuscita di tale processo. Anche per il XIV Dalai Lama le cose non andarono meglio. Un rilevante numero di aristocratici tibetani – della medesima linea politica di quelli che fecero fallire i tentativi di modernizzazione del XIII Dalai Lama, contrari dunque a qualsiasi processo di cambiamento- rifiutarono senza mezzi termini  l’accordo in diciassette punti, rigettandone in toto la sua applicazione, preoccupati in primis soprattutto dal contenuto dell’undicesimo punto: naturalmente quello riguardante il processo di riforme. Inutili si rivelarono gli appelli, da parte di alcuni consiglieri vicini al Dalai Lama, per tentare di convincere questa consistente classe aristocratica. Anche stavolta la casta dei notabili non vollero comprendere che sarebbe stato meglio, per il proprio paese, - ma egoisticamente anche per loro- che fosse lo stesso governo tibetano ad applicare le riforme piuttosto che subirle. I fondamentalisti s’impuntarono su un irremovibile NO ai cambiamenti: la storia, sicuramente, non era stata loro una buona maestra. Di conseguenza il governo di Pechino fu costretto ad accelerare i tempi iniziando, ad esempio, a non rispettare alcuni articoli del tanto contestato accordo, che, essendo già limitativo in sé, divenne del tutto superfluo nel momento in cui, la stessa Cina iniziò a derogare su gran parte dei suoi articoli[i]. Con la crescita dello strapotere cinese in Tibet iniziò una stagione difficile per l’attuale Dalai Lama, che dovette ricoprire, di fatto e suo malgrado, il ruolo di mediatore dalla doppia figura; di conseguenza, da una parte dovette trattare con il suo popolo, che mal digeriva la sempre più capillare presenza cinese sul proprio territorio, e dall’altra, tentare di mantenere sani rapporti di collaborazione con Pechino – più volte fu ospitato dello stesso Mao –, confidando sempre nel dialogo come forma più efficace di soluzione al conflitto, cercando, anche in questo modo, di evitare ulteriori inutili stragi. Tuttavia a peggiorare ulteriormente i, già tesi, rapporti tra i due paesi sorse un altro ostacolo: una dilagante crisi alimentare originata dall’asfittica economia tibetana. Difatti l’invasione di migliaia di soldati e, soprattutto, la loro lunga permanenza, con continue richieste di cibo, toccarono il nervo scoperto di un paese già con un endemico e diffuso problema : la mancanza di risorse alimentari. Ovviamente un’agricoltura basata, più che altro, su un sistema produttivo di tipo rurale, e con una pastorizia debolmente bastevole per i soli tibetani, si rivelò del tutto inadeguata a sfamare un esercito così numeroso; naturalmente tutto ciò fece collassare, in pochi anni, le già precarie condizioni economiche del Tibet. Così i rapporti, in ogni caso mai idilliaci, tra Pechino e Lhasa iniziarono decisamente a mostrare la corda: adesso i presupposti per una prima forma di ribellione c’erano tutti. Ad appiccare il fuoco alla miccia non fu però solo il motivo economico, ma un problema legato anche a un fattore territoriale. Non curandosi più dell’accordo in diciassette punti le due popolose regione del Kham e dell’Amdo furono inglobate nelle province cinesi del Gansu e del Sichuan. Con quest’annessione il governo maoista cominciò di fatto il processo di sinizzazione, anche se “tecnicamente” per la Cina si trattava solamente dell’unione di due territori “troppo” limitrofi ai suoi confini: debole giustificazione per essere accettata. Ma, soprattutto, la scelta di annettere queste due regioni si rivelò, strategicamente, un grave errore: questi territori – particolarmente il Kham – erano, storicamente, abitati dai discendenti di quelle tribù che nell’VIII secolo d.C. conquistarono l’antica capitale Chang’an. Esperti di un territorio difficile, e ancora guerrieri nel loro DNA, si opposero con veemenza grazie anche agli aiuti – se pur limitati – ricevuti dalla CIA[ii]. L’opposizione dei ribelli fu così dura da costringere la Cina a muovergli contro più di 150.000 uomini dell’Armata Rossa, dando così vita a una dura campagna di repressione che comprendeva, come principale obiettivo, l’annientamento dei centri di fomentazione –secondo il governo cinese – della ribellione: i monasteri. Ciò provocò una fuga da parte delle popolazioni delle regioni orientali che vide migliaia di tibetani dirigersi verso l’unica “isola” spirituale e politica rimasta: Lhasa. Una diaspora che non fece altro che ingrossare le file dei ribelli, peraltro già abbondantemente presenti nella capitale, preparando il terreno a quella che diverrà, nel 1959, la prima rivolta ufficiale. In questa mutata, e pericolosamente instabile, nuova situazione  lo stesso XIV Dalai Lama non poté più continuare a deludere il suo popolo seguitando a trattare con chi, adesso, oltre ad occupare e annettere alla Cina il proprio territorio, ne distruggeva anche i, millenari, luoghi  della tradizione buddista come i monasteri. E così i faticosi tentativi di dialogo, intessuti in quasi un decennio dal Dalai Lama con la Cina di Mao, si sfilacciarono nel giro di pochi giorni. Nel marzo del 1959 la rabbia accumulata in dieci anni di occupazione militare esplose in maniera virulenta dando inizio alla prima grande sommossa che vide Lhasa triste sede di sanguinosi scontri. Da lì a breve i primi focolai di rivolta si diffusero in tutto il Tibet, mandando definitivamente in pezzi sia la politica graduale di Mao, sia il tentativo di pacificazione del XIV Dalai Lama, e con essi l’intero “Accordo in diciassette punti”. Al grido di “rangzen”[iii] insieme a decine di slogan anticinesi, la popolazione attraversò tutta Lhasa raggiungendo quello che, ancora oggi, è ritenuto il simbolo per antonomasia del buddhismo tibetano: il Potala. La reazione cinese non si fece attendere anche perché l’iniziale manifestazione era diventata, con il trascorrere delle ore, una vera e propria rivolta, sostenuta, anche in questo caso, dal flebile aiuto della CIA. La protesta raggiunse il suo apice il 10 marzo, ma in pratica non ci fu un giorno in tutto il mese che non fu interessato da manifestazioni e scontri tra le truppe cinesi e i ribelli: fu una strage. Difatti a conclusione degli stessi si registrarono oltre 80.000 vittime secondo le stime ufficiali, ovviamente tutti tibetani, e considerando che gli organi d’informazione cinesi tendenzialmente comunicano le cifre per difetto, sicuramente venne divulgato un numero inferiore rispetto quello reale . In una situazione che diveniva, di ora in ora, sempre più pericolosa, i vertici governativi a Lhasa ritennero, oramai, imprudente la presenza del Dalai Lama in Tibet e, a pochi giorni dall’inizio della ribellione, organizzarono la sua fuga dalla capitale[iv]. Tra la notte del diciassette e del 18 marzo Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, fuggì da Lhasa travestito da soldato. Affrontando un viaggio dalla durata di quasi due settimane, dopo inenarrabili peripezie, il 31 marzo attraversò, sul dorso di un dzo[v], il confine con l’India, dove ad attenderlo trovò meno di una decina di soldati gurkha, iniziando così, nella maniera più umile, il suo lungo esilio. Tuttavia se letta con la giusta “lente” la fuga del Dalai Lama fu più una “liberazione” per la Cina che un problema[vi]. Sedati gli scontri, il prezzo pagato per questa ribellione fu altissimo. In poco più di due settimane la furia dell’esercito cinese si abbatté in Tibet, dove, oltre le  80.000 vittime civili, si aggiunsero pure 100.000 tibetani costretti a rifugiarsi in india e  seimila templi distrutti dai bombardamenti: non considerando le successive atrocità perpetrate ai danni dei monaci. Al giungere di queste notizie, Tenzin Gyatso, ritenne opportuno rifiutare ufficialmente qualunque tipo di accordo; decisione condivisa anche dal governo cinese che da quel momento in poi non si ritenne più obbligato al rispetto di nessuna regola: le conseguenze per i ribelli e il Tibet furono devastanti. Si passò dalla confisca delle terre, alle più atroci rappresaglie, sia nei confronti degli stessi  ribelli sia della popolazione inerme. Il 1959 segnò per il Tibet la fine di un’epoca, quella teocratica, e l’inizio del caos, accentuata con la fuga del Dalai Lama che lasciò, suo malgrado, un popolo in balia di un governo straniero e soprattutto privo, fino ad oggi, di un’indispensabile guida spirituale.


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