venerdì 6 settembre 2013

Tolentino - Recensione di Lectio Pop, la filosofia dell'umorismo


Popsophia, Festival del Contemporaneo - O combatti, o scappi, oppure… ridi

Lectio Pop: La filosofia dell’umorismo - Massimo Donà, Davide Grossi
Tolentino / Castello della Rancia / 1 settembre 2013 h18 (circa)


      Chiude così la “Lectio Pop” sull’umorismo, Davide Grossi, con le parole di Totò in una lontana intervista: “Il comico è la lotta tra il bene e il male, e alla fine vince la guardia notturna”.

      Fulminante condensato di filosofia della comicità che riconduce questa alla sua unica possibile essenza: l’insensatezza del tutto che nel momento in cui è colta diviene oggetto di riso.

      Partono da lontano, Massimo Donà e Davide Grossi, nel ragionare di comicità e umorismo, in questa Lectio Pop incastonata nella poderosa cornice del Castello della Rancia. Stuzzicati dalla brava, acuta Lucrezia Ercoli ad un ping pong filosofico che ci porgerà interpretazioni alte, forse inattese, del comico e del riso, non si accontentano di riandare a Leopardi e Bergson, a Nietzsche e Pirandello, ma giungono a ritroso fino ad Apuleio, ad Aristofane, al Democrito ed Eraclito dei Dialoghi lucianei, agli Inni omerici. Attualizzano classicità e mito rintracciandovi le radici del comico, e di questo storicizzano le forme moderne collegando all’antico perfino lo sberleffo di Totò e Peppino.

      E’ leopardiano il riso “alto” che si affaccia per primo nel dialogo tra i due filosofi: il comico è ciò che scaturisce dalla mancanza di senso del reale, esso è dunque prerogativa di chi comprende che la stessa domanda di senso è insensata e pertanto ride di sé; di chi vive il polemos, il gioco polemico tra uomo e natura con la chiara coscienza che questa non risponde alle sue richieste. Nell’Elogio degli uccelli (Operette Morali) il riso umano, a differenza del canto degli uccelli che nasce dall’armonia con la natura, ha radice nella disarmonia: l’uomo, “la creatura più consapevole dei meccanismi della ragione e della infelicità della vita, racchiude in sé la possibilità di un comportamento irrazionale come il riso” (in Fillide, n.6, aprile 2011). Ecco allora che il riso “alto” della filosofia leopardiana riconduce a quello democriteo: in uno del Dialoghi di Luciano è Democrito che, a differenza del piangente Eraclito, ride perché sa di dover rinunciare alla pretesa di senso del reale; egli è il filosofo che ride della vanità delle vicende terrene (“Democrito ride di tutto, trova in tutte le cose, piccole e grandi, motivi di ilarità, ritenendo che la vita intera non è nulla!” scrivono i cittadini di Abdera in una preoccupata lettera ad Ippocrate, in un’altra invenzione di anonimo autore).

      Se il riso nasce dalla disarmonia e dal contrasto, esso può essere “alto” e filosofico ma anche stemperarsi nel riso comune e nella comicità: Bergson esemplifica nella persona che cade goffamente, suscitando il riso, quel corto circuito tra la naturale mutevolezza della vita (e dell’essere umano) e l’accidentale contrarsi, rattrappirsi di questa in una rigidità meccanica e abnorme, da cui scaturisce la risata (Grossi scherza malizioso sulla propria poderosa fisicità, ipotizzando il crollo della poltrona che lo contiene e che mandandolo gambe all’aria susciterebbe ilarità. A Donà successe davvero, dice, ah ah…). Perché il comico si esalta di qualcosa che è antinaturale, di qualcosa che rende “rigido” e meccanico ciò che è naturale: parole, atteggiamenti, gesti, che relegano qualcuno a “marionetta di se stesso”. Il comico sottrae lo spirito alla materia, rendendola automatica; calzante l’esempio di Totò che interpreta le rigide movenze del burattino Pinocchio, in cui ciò che è umano diventa antiumano. L'umorismo che nasce dal contrasto è anche nel pirandelliano “sentimento del contrario”: il riso nasce dall’avvertimento del contrasto tra ciò che non è naturalmente fisso e l’innaturale fissità della maschera, o del burattino.

      C’è dunque una “materialità” nell’umorismo: non a caso la parola rimanda ad “umori” e alla teoria ippocratica dei flussi corporali il cui equilibrio determina il carattere. L’umorismo fa leva su questa materialità, il suo oggetto è ciò che ci proviene dal ventre, dal basso e non dipende dalla nostra volontà. E’ questa la materia del comico, ed è ciò che rende comico l’uomo. Ecco dunque lo sberleffo, la pernacchia, il potere liberatorio della risata: esso ci porta alla “prima risata del’Occidente”, a Demetra oppressa dal dolore per Persefone rapita, che ride davanti alla gestualità oscena della vecchia brutta e laida.

      La verità “fa ridere” (“Nessuna verità che non faccia ridere è una verità”, secondo Nietzsche”), ma non può essere detta ridendo: per questo non si può essere comici e ridere, e il clown, che fa ridere, ha una lacrima dipinta sulla faccia. La verità può solo essere seria e “alta” (lalotta tra il bene e il male di Totò) e ridere di se stessa (e alla fine vince la guardia giurata).

      Mmmm… chissà se ho capito bene… Intanto rido.

                                               Sara Di Giuseppe 
                                                                utmagazineblog.blogspot.it

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