mercoledì 16 ottobre 2013

La produzione del cibo contribuisce alle mutazioni climatiche...




Il quadro di riferimento

Nel 2012, le emissioni globali di anidride carbonica derivanti dalla combustione di combustibili fossili hanno raggiunto il livello record di 31,6 miliardi di tonnellate, un valore circa tre volte superiore alla capacità naturale del nostro pianeta di assorbire questo eccesso di emissioni attraverso gli ecosistemi vegetali terrestri e marini (carbon sink) e i processi di immagazzinamento naturale (carbon stocks) come sostanza organica nel suolo e negli oceani. Il 45% di tali emissioni proviene dal carbone, il 35% dal petrolio e il restante 20% dal gas. Ma, se si tiene conto delle emissioni, anche se minoritarie, degli altri gas serra (come il metano, il protossido di azoto, i clorofluorocarburi, ecc.), le emissioni globali, misurate come anidride carbonica equivalente, sono ben superiori a 35 miliardi di tonnellate.

Poiché le capacità del sistema terrestre (la geosfera, gli oceani, gli ecosistemi terrestri e marini) di assorbimento dell’anidride carbonica atmosferica e degli altri gas serra non sono infinite ma limitate, la crescita continua delle emissioni provoca fenomeni di accumulo e, di conseguenza, aumenta la concentrazione atmosferica di gas serra e in particolare di anidride carbonica. Nel maggio 2013 la concentrazione atmosferica di anidride carbonica ha raggiunto il livello record di 400 ppm (parti per milione). E’ il livello più alto mai raggiunto, non solo rispetto all’epoca preindustriale (attorno al 1800) quando vi erano 280 ppm, ma anche rispetto a tutti i secoli e i millenni passati fino a circa un milione di anni fa (come ci documentano le misure in Antartide) e perfino, probabilmente, a circa 20 milioni di anni fa (secondo le più recenti ricostruzioni paleoclimatiche), in cui i livelli di anidride carbonica atmosferica non hanno mai superato 300 ppm.

Per avere un’idea di cosa significa un livello così alto rispetto all’ultimo milione di anni e perfino rispetto agli ultimi 20 milioni di anni, basta pensare che l’uomo, inteso come “homo sapiens”, è comparso sul nostro pianeta solo 100-200 mila anni fa, mentre i primi esseri antropomorfi (homo erectus) sono comparsi qualche milione di anni fa. In altre parole nessun essere umano, né evoluto come l’homo sapiens, né antropomorfo come i primi ominidi, hanno mai sperimentato valori così elevati di concentrazione atmosferica di anidride carbonica come quelli che si sono verificati in questi ultimi 200 anni, ma in particolare negli ultimi decenni. Sono valori, infatti, che appartengono a epoche geologiche più vicine a quelle dell’estinzione dei dinosauri avvenuta molte decine di milioni di anni fa e non alla storia del genere umano.

Il riscaldamento climatico globale, anche se ritardato rispetto agli aumenti di anidride carbonica atmosferica, procede di pari passo. La temperatura media globale in questi ultimi 100 anni è aumentata di circa 0,8 °C, ma due terzi di quest’aumento sono avvenuti negli ultimi 30 anni. A livello globale l’anno 2010 è stato l’anno più caldo, mai verificatosi dal 1880 (da quando si hanno dati certi a livello globale), seguito dal 2005 e dal 1998 e poi dagli altri anni tutti appartenenti a quest’ultimo decennio, tanto che questi ultimi 10 anni del terzo millennio rappresentano il decennio più caldo di tutti i decenni precedenti a partire dal 1880.

Tuttavia, il riscaldamento del nostro pianeta non sta avvenendo né a un ritmo costante con gli anni che passano, né in modo uniforme dappertutto nelle differenti aree geografiche del pianeta. Il riscaldamento è maggiore nelle aree polari che in quelle equatoriali, è maggiore sui continenti che sugli oceani, è maggiore nei periodi invernali che in quelli estivi, e, cosa ancor più rilevante, il riscaldamento climatico è maggiore nell’emisfero nord che nell’emisfero sud a causa del ruolo termoregolatore degli oceani che sono molto più estesi nell’emisfero sud rispetto all’emisfero nord.
Per quanto riguarda l’Italia, il riscaldamento climatico procede a ritmi più elevati. In Italia la temperatura media nazionale è aumentata di circa 1,2° in questi ultimi 100 anni e la maggior parte di questo aumento è avvenuta dopo il 1980 con un ritmo superiore a quello medio globale, un andamento che, comunque, è in coerenza con quanto sta accadendo in l’Europa. Se a livello globale il 2010 è stato l’anno più caldo, assieme al 2005, in una classifica di 130 anni (dal 1880), per l’Italia l’anno più caldo rimane il 2003, seguito dal 2001 e dal 2007. L’anno 2012 che a livello globale si colloca solo al 10 posto della serie storica mondiale che parte dal 1880, in Italia si colloca, invece, al 4° posto nella classifica climatologica nazionale che si basa su una serie storica molto più lunga e che risale al 1800.

Ma l’aspetto più clamoroso di questi ultimi dieci anni del terzo millennio è la velocità del riscaldamento globale, piuttosto che il riscaldamento climatico in quanto tale, accompagnato da un aumento dell’intensità delle catastrofi climatiche che colpiscono il nostro pianeta sempre più violentemente. A ciò bisogna aggiungere l’intensificazione degli altri fenomeni connessi con i cambiamenti del clima, quali la velocità di innalzamento medio del livello del mare (ora è a 3,4 mm/anno, quando solo alcuni anni fa era di 3,1 mm/anno e nei decenni anteriori al 1990 procedeva a ritmi di 1,8 mm/anno), la velocità di fusione dei ghiacci artici e di gran parte dei ghiacciai delle medie latitudini (compresi i ghiacciai alpini), la velocità di acidificazione degli oceani che insieme al riscaldamento delle acque oceaniche sta accentuando i fenomeni di sbiancamento delle barriere coralline, oltre che modificare gli ecosistemi marini.

Cambia il clima, cambia il gusto del cibo

Se le cause principali dei cambiamenti climatici derivano dalle emissioni di anidride carbonica provenienti dall’uso dei combustibili fossili, non meno importanti sono le cause derivanti dall’uso del suolo, dai cambiamenti di uso del suolo e dalla deforestazione. Le emissioni di gas ad effetto serra derivati dall’agricoltura e dalla produzione agroalimentare sono, a seconda delle pratiche agricole, a livelli compresi tra il 9% e il 15% delle emissioni totali. Ma se, da una parte, l’agricoltura contribuisce ai cambiamenti climatici, l’agricoltura è anche vittima dei cambiamenti climatici e non solo in termini di danni alle rese agricole e alla produzione agroalimentare, ma anche e soprattutto in termini di “gusto”, cioè di modifica delle qualità organolettiche, degli aromi, dei profumi, dei sapori e di tutte quelle caratteristiche del cibo che dipendono dalle peculiarità del clima e delle caratteristiche ambientali del territorio, oltre che dalla tipicità dei processi di produzione e preparazione del cibo.

Con i cambiamenti del clima la produzione agroalimentare, per non essere danneggiata, sarà costretta a una serie di modifiche che possono riguardare le pratiche agronomiche, a parità di colture, oppure sarà costretta a modificare sostanziale la tipologia della produzione agricola e gli ordinamenti colturali.

Nel primo caso, che possiamo definire di adattamento congiunturale, gli agricoltori dovranno rispondere alle pressioni del clima agendo sui periodi di semina, di raccolta o delle altre lavorazioni intermedie, sulla frequenza e sulla tipologia di ricorso ai trattamenti antiparassitari o fertilizzanti, senza che vi siano rilevanti variazioni nel mix di colture presenti in azienda.

Nel secondo caso si ha invece un adattamento strutturale, e si dovrà necessariamente abbandonare alcune coltivazioni non più adatte alle mutate condizioni climatiche in favore di altre, che comunque devono rimanere altrettanto interessanti per le caratteristiche biologiche e per le mutate richieste da parte dei mercati. E’ evidente che nel caso di adattamento strutturale le conseguenze investono tutta la filiera agroalimentare.

Poiché i cambiamenti climatici non producono unicamente un aumento delle temperature, ma anche un’accentuazione degli eventi estremi, le coltivazioni maggiormente soggette a una serie di “stress”, tra cui gelate primaverili e ondate di calore, piogge intense o alluvionali intervallate da periodi prolungati di siccità, attacchi parassitari, ecc., gli adattamenti dovranno essere effettuati soprattutto ricorrendo a miglioramento genetico, andando a selezionare varietà opportunamente resistenti. Nel caso di adattamento strutturale appare evidente che le ripercussioni saranno piuttosto importanti su tutto il sistema alimentare e su tutti gli elementi collegati al settore di produzione agricola primaria.

Appare fondamentale, quindi, avviare metodi e modelli di sviluppo agricolo, agroalimentare e rurale, efficienti e meno inquinanti, inseriti in modo integrato nel contesto più generale dello sviluppo economico sostenibile e indipendente dalla combustione di combustibili fossili. Ma appare altrettanto fondamentale che i cittadini e i consumatori modifichino alcune abitudini alimentari, dalla spesa fino alla cottura dei cibi, affinché la produzione alimentare sia, da una parte meno impattante sul clima, e dall’altra, meno vulnerabile ai cambiamenti del clima compresi i cambiamenti delle caratteristiche organolettiche che determinano il gusto e che dipendono anch’essi dal clima e dell’ambiente. Che cosa possiamo fare?

Diminuire l’impatto sul clima della produzione di cibo

La produzione di cibo contribuisce alle emissioni di gas serra e ai cambiamenti climatici in tre modi:

Le pratiche agronomiche. Nell’agricoltura intensiva le pratiche agronomiche normalmente utilizzate producono una rilevante quantità di emissioni, non solo attraverso l’uso di combustibili fossili delle macchine utilizzate nelle attività agricole, ma soprattutto attraverso l’uso eccessivo di fertilizzanti e di antiparassitari. I fertilizzanti azotati, per esempio, emettono protossido d’azoto, un gas serra che ha un potere climalterante di circa 300 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Inoltre, l’uso eccessivo e prolungato di fertilizzanti degrada fino a distruggere i processi biochimici naturali del suolo di accumulare sostanza organica (humus) che ha la capacità di assorbire l’anidride carbonica atmosferica e immagazzinarla nel sottosuolo. La zootecnia, a sua volta, produce emissioni di metano, un gas serra con un potere climalterante 23 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Utilizzare cibo prodotto attraverso pratiche agronomiche e zootecniche sostenibili che favoriscono i naturali processi biochimici di fertilizzazione del suolo, non solo aiuta a ridurre le emissioni di gas serra finanche ad azzerarle, ma facilita addirittura l’assorbimento dell’anidride carbonica atmosferica (carbon sink), perché un suolo ricco di sostanza organica elimina perfino le emissioni di anidride carbonica provenienti da sorgenti non agricole.

I processi di trattamento o di trasformazione industriale dei prodotti agricoli. L’industria agroalimentare, che si occupa della lavorazione, trasformazione, conservazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, come qualsiasi altra industria produce emissioni di inquinanti, oltre che di rifiuti. Gran parte degli inquinanti atmosferici sono anidride carbonica e altri gas serra. Inoltre, l’industria agroalimentare, per trasportare e distribuire i prodotti ai punti vendita deve necessariamente usare adeguati sistemi di imballaggio (“packaging”), cioè una gran quantità di contenitori e involucri di plastica, carta e cartone, per produrre i quali vengono emessi altri gas serra e rifiuti. Utilizzare come cibo i prodotti agricoli senza eccessive trasformazioni industriali, poco elaborati e non conservati, è molto importante per ridurre le emissioni di gas serra e non impattare sul sistema climatico.

Il trasporto e la distribuzione dei prodotti agricoli. I trasporti sono mediamente responsabili di circa un terzo di tutte le emissioni globali di anidride carbonica e di altri gas serra e contribuiscono in modo molto rilevante ai cambiamenti del clima. Gran parte dei trasporti che avvengono ogni giorno sulle nostre strade con i veicoli commerciali, ma anche per via aerea e marittima, sono destinati a trasferire derrate alimentari da una parte all’altra, non solo d’Italia o dell’Europa, ma perfino su distanze di decine di migliaia di km, da una parte all’altra del nostro pianeta. Utilizzare come cibo prodotti agricoli locali o provenienti da brevi distanze dal luogo di consumo è fondamentale per ridurre le emissioni di gas serra e l’impatto della produzione di cibo sul clima.

Ridurre la vulnerabilità ai cambiamenti climatici della produzione di cibo

La produzione di cibo è vulnerabile ai cambiamenti climatici attraverso due vie principali:

Le risorse idriche. L’abbondanza di risorse idriche per l’irrigazione è stata in passato uno dei fattori di successo nello sviluppo dell’agricoltura intensiva e industriale, sia nella scelta delle colture anche su terreni inadatti, sia nella programmazione durante l’anno di semine e raccolti anche al di fuori dei normali ritmi stagionali. Con i cambiamenti del clima tenderanno a intensificarsi i fenomeni estremi, quali precipitazioni molto intense e di breve durata (con forte ruscellamento superficiale) seguite da più o meno lunghi periodi di siccità (con forti rischi di degrado dei suoli). Il risultato è una insufficiente ricarica delle falde e una minore disponibilità di acqua. A ciò bisogna aggiungere, specie per i bacini idrologici dell’Italia settentrionale, la riduzione degli apporti nivoglaciali a causa della riduzione dei ghiacciai alpini. La produzione di cibo, così come la zootecnia che è un settore a rilevante consumo di acqua quindi, dovrà evolvere verso sistemi di uso efficiente dell’acqua e di riciclo dell’acqua. Utilizzare cibo prodotto con un’agricoltura efficiente nell’uso delle risorse idriche o ridotte necessità d’acqua e consumare minori prodotti di macelleria, permette di prevenire le conseguenze negative della carenza delle risorse idriche e aiuta la produzione agricola ad adattarsi ai cambiamenti del clima.

La biodiversità. I cambiamenti climatici influiscono significativamente sulla diversità biologica giungendo a causare anche fenomeni di estinzione di singole specie e profonde modificazioni nella struttura e nelle funzioni degli ecosistemi e nella loro distribuzione sul territorio, compresi gli insetti impollinatori e i batteri fermentatori essenziali nella preparazione di alimenti o di prodotti tipici come il vino. Utilizzare, quindi, prodotti stagionali ma, soprattutto, tipici del territorio e della biodiversità del territorio, aiuta l’agricoltura a mantenere la qualità degli spazi rurali e ad aumentare la protezione degli habitat naturali e del paesaggio. Valorizzare i prodotti alimentari tipici del territorio è di fondamentale importanza per prevenire le conseguenze negative dei cambiamenti climatici sulla produzione alimentare.


In definitiva, la produzione sostenibile di cibo non è solo un problema dell’agricoltura. Spetta ai consumatori con le loro scelte responsabili aiutare l’agricoltura e tutta la filiera agroalimentare ad essere meno impattante sul clima, ma anche meno vulnerabile ai cambiamenti del clima.

di Vincenzo Ferrara

(ENEA e Ministero Ambiente)

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