sabato 11 febbraio 2017

La proposta politica dell'ecologia rivoluzianaria bioregionalista


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... non necessariamente il ritorno di un gran numero di "cittadini metropolitani" alla vita di campagna, auspicato da alcune frange primitiviste del movimento bioregionale, può essere considerato un fatto positivo per la salvaguardia e l’ampliamento delle residue zone di wilderness ancora esistenti sul territorio nazionale. Un parere questo, condiviso anche da quello che è forse il principale esponente bioregionalista americano, Peter Berg.

In realtà, come sostiene Marina Alberti, le città sono "il luogo ove è possibile realizzare maggiori economie di scala e risparmiare quantità consistenti di risorse naturali", il che rende estremamente interessante una delle opzioni proposte dal progetto bioregionalista, quella nota come "Green City".

"Vogliamo essere una città ecologicamente sostenibile -sostiene Berg-. Le autorità devono prendere decisioni sostenibili per la propria bioregione in materia di acqua, rifiuti, energia, cibo, cultura, educazione e arte pubblica. Il modo di vivere in città è molto importante. La gente oggi deve possedere una macchina per recarsi al posto di lavoro. Questi luoghi dovranno essere avvicinati, limitando così il numero delle macchine. (...) Gli abitanti della città devono diventare "pionieri urbani" in una wilderness di cemento, acciaio e vetro, sviluppando nuove forme urbane e, allo stesso tempo, ricostruendo la propria vita e il paesaggio urbano". Ed ancora: "Le città sono consumatrici pure. Bisogna che diventino più responsabili e che si sviluppi reciprocità fra le zone urbane e il resto della bioregione".

Si tratta, deve essere chiaro, di un’opzione radicale, che nulla ha a che vedere con lo pseudo governo "verde", ma che parte da una constatazione dell’esistente che non si culla nella speranza di improbabili ritorni di massa a quel passato bucolico che sembra a volte riapparire in molti superficiali proclami ecologisti dell’ultim’ora.

Le città possono e devono essere profondamente cambiate partendo dalla loro organizzazione urbanistica, in opposizione al trend di "apartheid" sociale interna che caratterizza lo sviluppo recente delle megalopoli, americane come, in forma meno esasperata, europee. Si può quindi restituire alla vita cittadina quei caratteri di comunità, quella ricchezza dei rapporti interpersonali, quel rapporto con la realtà contadina circostante, quel basso impatto ambientale che sono spesso propri dei piccoli centri, proprio a partire da una radicale modifica di quelli che sono i rapporti sociali fra abitanti.

È quella che Orin Langelle chiama l’ecologia rivoluzionaria (ma si potrebbe anche parlare di eco-socialismo) che "può essere la sintesi delle due posizioni (l’ecologia profonda e l’ecologia sociale, N.d.A.), unita ad altre: l’ecofemminismo mostra la connessione fra dominazione della donna e dominazione della natura; il sindacalismo rivoluzionario spiega la lotta di classe attraverso l’analisi degli opposti interessi dei lavoratori e dei capitalisti. 

L’ecologia rivoluzionaria accusa le pratiche di dominio antiegualitarie come parte di un meccanismo di controllo che sfrutta tutte le forme di vita del nostro pulsante e vivente pianeta".

Ma il bioregionalismo punta soprattutto all’affermazione di un modello di vita legato  al ritorno alla terra, al legame "spirituale" con essa, e quanto di tutto ciò possa diventare realtà in un tessuto regionale in genere fortemente degradato come è quello italiano, rappresenta una delle grandi incognite della sua proposta.

In questo senso le potenzialità del movimento vanno ricercate più nella valorizzazione di esperienze pre-industriali già esistenti, che nell’impossibile tentativo di "riconversione" alla vita bucolica della maggioranza degli abitanti delle grandi città, inevitabilmente destinati, come già detto, ad una più o meno involontaria opera di antropizzazione delle campagne e, soprattutto, delle aree ancora non toccate dall’urbanizzazione. 

Non è difficile infatti immaginare, ad esempio, quale sarebbe il destino della "bioregione Valle del Tevere" se anche solo trecentomila romani (circa l’8% dell’attuale popolazione della città) decidesse di trasferirvisi... 

Da questo punto di vista l’importazione acritica da oltreoceano di una "ideologia" certamente a misura di altri spazi pecca di molta superficialità e di notevole "dilettantismo ecologico". 

Nel suo ultimo libro, "From King Ludd to Earth First!. Rebel against the future", non ancora tradotto in italiano, un altro dei leader storici del movimento "localista" negli Usa, Kirkpatrick Sale, si scaglia con violenza contro l’"Impero delle Macchine", ricollegandosi esplicitamente alla lotta dei luddisti, che all’inizio dello scorso secolo ingaggiarono e persero, a suon di sabotaggi, una battaglia "di classe" contro la disoccupazione nel settore tessile indotta dall’avvento del telaio meccanico.

Con una notevole dose di ottimismo Sale sostiene che: "Pubblicamente, la resistenza all’industrialismo deve costringere la forza vitale della società industriale alla coscienza pubblica e al dibattito", e contemporaneamente invita ad una guerra senza quartiere al nuovo feticcio tecnocratico, il personal computer, la cui diffusione su larga scala ha, come gli ottocenteschi telai meccanici, innegabilmente falcidiato l’occupazione in moltissimi settori della produzione.

È fuor di dubbio però che un giudizio sulla non neutralità della tecnologia, che Sale giustamente esprime con forza, è cosa diversa dalle possibili interazioni con la stessa da parte di forze che propongono una critica radicale al modello industrialista, come ben sanno tutti gli editori di riviste e pubblicazioni ambientaliste, ormai regolarmente scritte e impaginate al computer. 

Daltronde la coesistenza di una dimensione locale e di una globale, veicolata ad esempio da uno strumento di comunicazione come Internet, è estremamente complessa. Se da una parte può essere considerato reale il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa (soprattutto televisioni e reti informatiche), come attivo strumento del processo di occidentalizzazione del mondo che ha causato e continua a causare la distruzione delle culture minoritarie, è altrettanto vero che spesso l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di queste culture è garantita esclusivamente dalla loro esposizione mediatica.

Complessivamente, comunque, la proposta bioregionalista va sicuramente considerata con attenzione, da una parte perché indubbiamente essa contiene al suo interno numerosi spunti interessanti, che possono entrare a fare parte, quando già non lo sono, del patrimonio politico eco-socialista...


Stralcio di un articolo pubblicato su Indipendenza, rivisitato da Paolo D'Arpini

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