Humberto Maturana, ricercatore cileno da poco mancato, forse più
di altri, e in particolare nel suo (con Ximena Dávila) Emozione
e linguaggio in educazione e politica, ci ha fatto presente la
struttura a muro di cinta entro cui ci muoviamo, scegliamo, viviamo.
Nestore
Avevo voglia di marinara, quindi gli
dissi: “Andiamo in pizzeria stasera?”
Nestore, mio fratello minore, mi rispose che non voleva, perché
preferiva stare a casa a guardare la
partita.
Ribattei ricordandogli che era una pizza croccante, ma non ottenni
niente. Neanche l’ottima birra alla spina riuscì a smuoverlo.
Effettivamente, era attaccato alla sua squadra: si deprimeva se
perdeva, gli volava l’autostima se vinceva.
Stavo lasciando perdere l’idea di una buona marinara sottile,
quando me ne venne un’altra.
“Ti ricordi quella volta, quando eravamo in una grande ferramenta
e, a un certo punto, davanti alla cassa ti sei bloccato?”
“E come non avrei potuto”, mi rispose. “Eravamo davanti alla
cassiera più bella del mondo”.
“È vero. Sembrava di una razza umana di livello superiore”
“Ma perché me ne parli?”, mi chiese, mentre vedevo che aveva
leggermente alzato il mento e socchiuso un poco gli occhi, come per
contemplare qualcosa che vedeva solo lui.
Fu in quel preciso momento che, come un preveggente, fui certo che la
marinara non sarebbe stata rimandata.
“Perché ora serve ai tavoli della pizzeria”.
A quelle parole, Nestore non rispose, come se in lui l’immagine
della cassiera più bella del mondo si stesse addensando in materiale
tangibile.
Quando l’eco delle mie parole lo raggiunse, l’incantesimo in cui
si trovava si interruppe. Era come se la statua di un mimo si fosse
scrollata da dosso l’involucro di immobilità e fosse tornata ai
movimenti della vita.
“E da quando lavora lì?”
“Non credo da molto. L’avevo vista dalla vetrina qualche giorno
fa. Volevo dirtelo, ma poi mi sono dimenticato”.
“Era ancora come alla cassa della ferramenta?”
Qui dovevo giocare bene la mia carta.
A seconda della risposta il suo desiderio di riprovare l’emozione
avrebbe potuto eccitarsi o smorzarsi. Se gli avessi detto che era
sempre incantevole come quel giorno, avrebbe potuto preferire evitare
l’umiliazione legata alla certezza di poterla solo guardare, al
massimo scambiarci due parole, mentre in cuor suo sentiva una specie
di diritto ad averla, a conoscerla, a uscire con lei, a toccarla con
la sua accondiscendenza. Un diritto all’amore ricambiato, che
scaturiva dal suo sentimento puro e assoluto. Mentre, se gli avessi
raccontato che non mi sembrava più la sola stella del firmamento,
forse l’avrei attratto nella trappola della marinara. Sarebbero
scattati infatti due moventi.
Il primo: avrebbe voluto verificare come la luce di Roberta – così
si chiamava, l’avevamo letto sulla spilla, in ferramenta – si
fosse affievolita. Cioè, avrebbe dimenticato la partita e sarebbe
venuto in pizzeria, semplicemente dando seguito a una questione
affettiva, meglio, a un’attrazione e a una preoccupazione: in quel
modo, infatti, era come se volesse prendersi cura di lei, meglio, di
qualcosa che era in lui stesso, di suo.
Il secondo, pienamente connesso al primo: se rivedendola non avesse
più sentito il colpo di torpedine che lo aveva pietrificato in coda
alla cassa, quella tensione latente, pronta a immobilizzarlo ogni
volta che incontrandola si fosse trovato davanti alla bellezza nel
suo stato sublimante, non avrebbe più avuto modo di farlo sentire
umiliato.
Bastò un istante per decidere come proseguire nella mia
provocazione. Avrei optato per la seconda
risposta, quella della luce perduta di Roberta.
Mentre Nestore mi guardava come se il suo futuro dipendesse da me, e
in un certo senso era proprio così, glielo dissi.
“È ancora carina, ma sembra la sorella stanca di quella della
cassa. La pelle chiara, che avevamo chiamato bianca, dalla vetrina mi
è parsa grigiastra. Perfino i tatuaggi colorati delle braccia, che
avevamo inteso come una bandiera di libertà, rivedendola non mi
hanno più fatto quell’effetto, anzi, l’hanno deposta
dall’Empireo da cui ci pareva potesse comandare gli uomini,
gettandola tra le dozzine di repliche anonime che popolano i giorni
qualunque”.
“E il suo sguardo dai grandi occhi neri che non lasciava
respirare?” Chiese Nestore con parole un po’ spezzate.
“Non saprei, quel giorno non mi sono fermato a fissarla dalla
strada. Immagino che tutto vada insieme”.
Era la mia ultima battuta, non avevo più idee, se la trappola non
fosse scattata con quella, addio preveggenza alla marinara.
In attesa dell’effetto delle mie parole, fingendo di non essere
sulle spine, non aggiunsi nulla.
Erano passati pochi momenti quando mio fratello disse: “D’accordo,
marinara e Roberta”.
“Niente partita?”
“Niente, tanto era contro l’ultima in classifica”.
HM
L’io, a qualunque idea di noi stessi crediamo corrisponda, non è
noi. Esso ha il carattere di una struttura ed è necessario alla sua
e nostra sopravvivenza. In un certo senso, è una sorta di guida che
ci conduce attraverso la vita.
Nonostante la sua natura autopoietica – termine che allude
all’autoreferenzialità di ogni descrizione della realtà, coniato
da Humbertino (1), come, con affetto, lo
chiamava una mia amica – e strumentale sia lapalissiana a chiunque
voglia indagare oltre le impermanenti apparenze delle verità dei
saperi analitici, la consapevolezza della struttura dell’io è poco
diffusa. Un peccato! In quanto se così non fosse avremmo a che fare
con un’educazione, una politica, una società e una realtà non più
mortificante, ma spiritualmente remunerativa.
Lo scienziato cileno descrive l’io e l’identità di cui lo
investiamo come delimitati da un muro, protetti da un involucro
impermeabile a tutto ciò che giudichiamo non idoneo al mantenimento
dell’equilibrio, della stabilità interna. Ma, come tutti hanno in
biografia, nonostante il potente paraurti, un incidente anche
frontale è sempre latente. Significa che la protezione non era
sufficiente e la destabilizzazione del nostro ordine,
si compie come in un combattimento impari, con ferite,
disorientamento, umiliazione.
Dunque, soltanto ciò che è ritenuto compatibile per noi, che non è
ritenuto tossico, tanto all’organismo io, chiamiamolo ideologico,
quanto a quello fisico-biologico, può attraversare la capsula entro
cui ci muoviamo nell’esistenza.
Si può dire che il medesimo
argomento può essere accettato/rifiutato se fornitoci in tempo
differente. E che, nel medesimo tempo possiamo accettare/rifiutare un
identico argomento se fornitoci da fonti differenti. Il primo caso
dipende dal variare della nostra intima
condizione/convinzione/emozione. Il secondo dal giudizio che
generiamo – e con cui ci identifichiamo, a sua volta di natura
emozionale – nei confronti dell’emittente.
Poi, c’è anche un
riflesso psicologico, ovvero che così come la debolezza e la
vulnerabilità sono direttamente proporzionali alla consistenza ed
ermeticità del muro, la forza e la invulnerabilità lo sono
indirettamente. Queste ultime raggiungono il suo massimo
nell’ascolto, in cui il muro appare minimo o abbattuto, on cui
abbiamo ciò che serve per prendere le distanze dall’io.
Nella consapevolezza che
l’identità è un’infrastruttura di noi, che essa non corrisponde
al nostro sé universale, disponiamo di fermezza e duttilità,
depurate dagli inquinanti tossici dell’importanza personale. E
allora i traumi sono devastazioni del muro, sono sottovalutazioni del
nemico. Le terapie sono consapevolezza che siamo noi a costruirlo e
che difenderlo a testa bassa ci procurerà altri inconvenienti, tra
cui la follia: uno stato in cui il muro è così stretto intorno a
noi da impedire il passaggio perfino alla luce. La saggezza non sta
nel non edificare la barriera ma nel prendere le distanze da essa,
nel liberarsi dall’orgoglio, nel riconoscere con compassione i
propri e altrui muri. Combattere diventa allora recitare
consapevolmente un ruolo, per qualche ragione per noi doveroso. Come
fa il Samurai, per il quale il nemico vinto avrà l’onore delle
armi.
Ma la voce di Humbertino però arriva
molto più lontano quando fa presente al dogmatico mondo della
ragione che tutte le scelte, incluse quelle che oculatamente
consideriamo razionali, si appoggiano su emozioni.
Sono queste ultime, infatti, che detengono le chiavi del portone del
muro entro cui siamo autoreclusi.
A un cambio di idea, sostanziale o minore, a ogni spostamento di
attenzione corrisponde sempre la simbolica apertura di un passaggio
che ne permetta l’avvento. Ma non si tratta di
elementi della realtà presi a caso che hanno trapassato la soglia di
noi stessi, bensì di quanto ci fa vibrare in un senso o nell’altro,
a favore o contro. Come detto, l’assunzione o il rifiuto di
un dato, di un concetto, di una relazione può avvenire solo a mezzo
di un’emozione, oltre che dell’opportuno linguaggio e dello stato
– emozionale – in cui ci troviamo, nonché dell’accredito che
possiamo o non possiamo offrire alla fonte del messaggio.
Il fratello di Nestore era arrivato nello stesso punto di Humbertino?
“Tutto il nostro vivere
come esseri umani è in quanto tale politico, perché genera mondi, e
i mondi che generiamo con il nostro vivere e convivere nascono dalle
emozioni che fondano le risposte […]. Al tempo stesso, tutto ciò
che facciamo nel nostro vivere e convivere come esseri umani sarà di
per sé anche educazione, perché opererà sempre come formatore dei
sentimenti dei giovani […]”. (2)
“Noi esseri viventi siamo
sistemi determinati dalla nostra struttura. Nessuno di esterno a noi
può specificare quello che accade. Ogni volta che si verifica un
incontro, quello che ci capita dipende da noi. […] Anche in una
conversazione come questa, ognuno ascolta a partire da se stesso; e
costitutivamente, in ragione del proprio determinismo strutturale,
non può che ascoltare a partire da se stesso. Quello che sto dicendo
è un’alterazione che scatena in ognuno di voi un cambiamento
strutturale determinato in voi, e non in quello che dico e, pertanto,
non da me che sono soltanto la contingenza storica nella quale voi vi
trovate a pensare ciò che state pensando”. (3)
Lorenzo Merlo
Note
.1 – Il pensiero di Maturana è in parte sviluppato insieme a
quello di Francisco Varela. Altri autori per approfondimenti, tra cui
Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Alfred North Whitehead, Edmund
Husserl, Herbert von Glasersfeld, Paul Karl
Feyerabend.
.2 – Humberto
Maturana e Ximena Davila, Emozioni
e linguaggio in educazione e in politica,
Milano, Elèuthera, 2006, p. 9.
.3 – ivi,
p. 75-76.