sabato 12 gennaio 2013

Obiettivo bioregionale – Evitare il collasso della civiltà e conservare la terra integra per le generazioni future – Esaminato l’esempio tragico dell’isola di Pasqua



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La scienza e l’economia ci si presentano oggi come nemiche della democrazia. Questo è un gravissimo problema. Occorre che la scienza serva della democrazia. La tesi delle considerazioni che seguono potrebbe sintetizzarsi così: né padroni né servi, ma alleati; partecipazione sulla base della conoscenza. Occorre buona democrazia e buona scienza, dove “buona” sta a significare consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri, con il rispetto dei reciproci limiti. Per sviluppare questa idea, propongo di partire da una vicenda lontana nel tempo e nello spazio, che può assumersi come apologo dei pericoli del nostro tempo.
Prendo a prestito dal volume dell’archeologo-antropologo Jared Diamond, dal titolo Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Torino, Einaudi, 2005), la storia di Pasqua, l’isola polinesiana a 3700 chilometri a est delle coste del Cile, scoperta dagli europei nel 1722, celebre per i 397 megaliti, uno dei quali raggiunge il peso di 270 tonnellate, raffiguranti giganteschi ed enigmatici tronchi umani, sovrastati da cilindri di pietra colorati di rosso. Pasqua, quando gli esseri umani vi posero piede alla fine del primo millennio, era una terra fiorente, coperta di foreste, ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall’aria, che arrivò a ospitare diverse migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare: completamente deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di persone. Nel 1864, quando mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numero era ridotto a centoundici individui, denutriti, geneticamente degradati.
Che cosa era avvenuto e com’era potuto avvenire? C’è un rapporto tra le grandi e inquietanti teste di pietra e l’estrema desolazione di ciò che le circonda? L’enigma di Pasqua, per com’è stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale su cui la vita nell’isola si basava. La foresta ospitava uccelli stanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname alle canoe usate per la pesca in acque profonde; difendeva l’integrità del territorio coltivato a orto dalle devastazioni delle tempeste tropicali. A poco a poco, le risorse alimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccoli molluschi e, poi, a topi e sterpaglia. La penuria dei fattori primi della vita, come sempre accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nella generale carenza di cibo, si finì all’ultimo stadio, l’antropofagia. E le teste di pietra? Sembra che abbiano avuto una parte di rilievo. Col passar del tempo e in concomitanza con le lotte tra i clan, da piccole che erano all’inizio, diventarono progressivamente sempre più imponenti. La più alta, sei volte un uomo normale (Paro, quella che vediamo sulle cartoline), è anche quella costruita per ultima, quando la catastrofe incombeva. Motus in fine velocior. Erano un simbolo di potenza tecnologica – la tecnologia di allora -che poteva essere speso nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle dalla cava, trasportarle e drizzarle – un lavoro, per quella società in quel luogo e in quel tempo, mostruoso -occorrevano tronchi d’albero d’alto fusto e fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fu desertificata e, parallelamente, si eressero pietre sempre più alte; poi, nella generale guerra di tutti contro tutti, per la maggior parte furono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissuti pensarono a una via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato con le loro mani. Ma il legno per costruire le barche -la loro salvezza era già stato usato per le teste di pietra.
Pasqua è un monito. Non parla soltanto di polinesiani d’un millennio fa. Parla di noi: di sfruttamento imprevidente delle risorse, con effetti funesti sulle generazioni a venire. «L’isolamento di Pasqua – scrive Diamond (o.c., p. 129) – spiega, probabilmente, perché il crollo di questa società ossessioni i miei lettori e i miei studenti più di quelli di altre società preindustriali. I paralleli che si possono tracciare tra l’isola di Pasqua e il mondo moderno sono così ovvi da apparirci agghiaccianti. Grazie alla globalizzazione, al commercio internazionale, agli aerei a reazione e a Internet, tutti i Paesi sulla faccia della terra condividono, oggi, le loro risorse e interagiscono, proprio come i dodici clan dell’isola di Pasqua, sperduti nell’immenso Pacifico come la terra è sperduta nello spazio. Quando gli indigeni si trovarono in difficoltà, non poterono fuggire né cercare aiuto fuori dell’isola, come non potremmo noi, abitanti della Terra, cercare soccorso altrove, se i problemi dovessero aumentare. Il crollo dell’isola di Pasqua, secondo i più pessimisti, potrebbe indicarci il destino dell’umanità nel prossimo futuro».
Che cosa è dunque avvenuto a Pasqua? Come possiamo condensare in una sola frase la sua parabola? Per soddisfare appetiti di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare. Il motto di quella gente sarebbe potuto essere quello di Thomas Jefferson: “The earth belongs always to the living generation”, ma inteso in senso opposto a quello originario. Jefferson voleva liberare i posteri (cioè la sua stessa generazione) da ogni debito verso i predecessori per fondare la repubblica; gli abitanti di Pasqua vollero agire liberi da ogni debito nei confronti dei successori, per divorare le res publicae. Il costituzionalismo – il punto di vista dal quale mi pongo -può ignorare questioni di questo genere? Se il suo nucleo minimo essenziale e la sua ragion d’essere sono – secondo la sintesi di Ronald Dworkin -la protezione del diritto di tutti all’uguale rispetto, la risposta, risolutamente, è no, non può ignorarle. Fino al tempo nostro non c’era ragione di affrontarle. Ogni generazione compariva sulla scena della storia in un ambiente naturale e umano che, se pure non era stato migliorato dai padri, certamente non ne era stato compromesso. Il costituzionalismo non ha avuto finora ragioni per occuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali. Ma molte ragioni ha oggi, e drammatiche. Per quale ragione la cerchia de “i tutti” che hanno il diritto all’uguale rispetto dovrebbe essere limitata ai viventi e non comprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per rispondere che non c’è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani hanno lo stesso diritto all’uguale rispetto, perché uguale è la loro dignità. Il motto di Jefferson dovrebbe, nelle condizioni della vita di oggi, suonare così: «La terra appartiene ai già viventi, tanto quanto appartiene ai non ancora viventi». Così, il legame tra generazioni e i debiti reciproci cambiano direzione: per secoli, i figli si sono considerati debitori nei confronti dei padri; oggi, i padri si devono sentire debitori nei confronti dei figli e dei figli dei figli.
Pasqua era un microcosmo. Il suo crollo può essere visto quasi come un’esperienza “in vitro”, riguardante una sottrazione, un furto, anzi un’estorsione di beni ambientali. Ma non si tratta solo di queste. I furti possono riguardare ogni genere di risorse vitali. Certo, innanzitutto, le risorse naturali, le materie prime e le fonti energetiche della terra, oggi come mai impoverita e degradata dallo sfruttamento intensivo al servizio della produzione in grande stile di manufatti destinati al consumo immediato. Ma anche le risorse finanziarie, quando siano portate ad anticipata e fittizia esistenza da politiche d’indebitamento a lunga scadenza, il cui peso si scarica sulla ricchezza e sul benessere di chi, venendo dopo, di quelle risorse non si è potuto giovare, né si potrà giovare, essendo già state consumate. Infine, le risorse della materia vivente, sottoposta a manipolazioni del più vario genere, che riducono la biodiversità, espongono a rischi d’estinzione specie vegetali e animali e giungono a toccare l’esistenza dell’essere umano, promettendogli il più mostruoso di tutti i doni, l’immortalità.
Ciò che unifica queste operazioni è la separazione nel tempo dei benefici – anticipati – rispetto ai costi -posticipati -: la felicità, il benessere, la potenza delle generazioni attuali al prezzo dell’infelicità, del malessere, dell’impotenza, perfino dell’estinzione o dell’impossibilità di venire al mondo, di quelle future.
La rottura della contestualità temporale segna una svolta che non può lasciare indifferenti la morale e il diritto. Essi non valgono più soltanto in un “presente comune” (H. Jonas, Frontiere della vita, frontiere della tecnica, Bologna, il Mulino, 2011, p. 131). Il “prossimo” di cui quelle norme, finora, si sono sempre occupate (“ama il prossimo tuo come te stesso”; “non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te”, “non uccidere”, “non rubare”, ecc.) è diventato un soggetto astratto che, quando diventerà concreto, non avrà potuto alzare la sua voce al momento in cui si compivano azioni a suo danno. Questa rottura della contemporaneità è oggi uno dei problemi, o forse il problema da cui dipende l’avvenire dell’umanità. Nel molto riverito – ma per nulla ascoltato – Il principio responsabilità di Hans Jonas (Das Prinzip Verantwortung [1979], trad it. Einaudi, Torino 1990, p. 49), sotto il titolo “Eliminazione della reciprocità nell’etica del futuro”, troviamo scritto: «Ciò che dobbiamo esigere dal nostro principio non viene soddisfatto dall’idea tradizionale dei diritti e dei doveri: idea fondata sulla reciprocità, secondo la quale il mio dovere è l’inverso del diritto altrui, che a sua volta viene considerato il corrispettivo del mio; sicché una volta stabiliti certi diritti altrui, ne consegue anche il mio dovere di rispettarli e possibilmente … anche promuoverli. Ai nostri fini questo schema non funziona. Pretese può avere soltanto ciò che avanza pretese – ciò che è. Ogni vita solleva la pretesa alla vita e questo è forse un diritto che va rispettato. Il non esistente però non solleva nessuna pretesa e perciò non può neppure subire una violazione dei suoi diritti. Può avere dei diritti se esiste, ma non li ha già soltanto in vista della possibilità di esistere. Soprattutto non ha in generale alcun diritto di essere, prima di essere de facto. La pretesa all’essere inizia soltanto con l’essere. Ma proprio con il suo non ancora esistente ha a che fare l’etica di cui siamo alla ricerca: il suo principio di responsabilità deve essere indipendente sia da ogni idea di diritto sia da quella di reciprocità, sicché nel suo ambito l’interrogativo scherzosamente inventato per quella situazione: “Che cosa ha mai fatto il futuro per me? Rispetta forse i miei diritti?”, non può essere evidentemente posto».
In termini giuridici, la questione che si pone al costituzionalismo è la seguente: fin dall’inizio (ricordiamo l’art. 16 della Déclaration), la sua nozione chiave è stata il diritto soggettivo, da contrapporre in vario modo al potere arbitrario. Ma il diritto soggettivo presuppone un titolare presente. “Diritti delle generazioni future” è una di quelle espressioni improprie che usiamo per nascondere la verità: le generazioni future, proprio perché future, non hanno alcun diritto da vantare nei confronti delle generazioni precedenti. Tutto il male che può essere loro inferto, perfino la privazione delle condizioni minime vitali, non è affatto violazione di un qualche loro “diritto” in senso giuridico. Quando incominceranno a esistere, i loro predecessori, a loro volta, saranno scomparsi dalla faccia della terra, e non potranno essere portati in giudizio. I successori potranno provare riconoscenza o risentimento, ma in ogni caso avranno da compiacersi o da dolersi di meri e irreparabili “fatti compiuti”.
Bisogna prendere atto che la categoria del diritto soggettivo, in tutte le sue varianti di significato (diritti di, da, negativi, positivi, di prestazione, ecc.), è inutilizzabile tutte le volte in cui è rotta l’unità di tempo. È invece la categoria del dovere, quella che può aiutare. Le generazioni successive non hanno diritti da vantare nei confronti di quelle precedenti, ma queste hanno dei doveri nei confronti di quelle; esattamente la condizione della madre, nei confronti del bambino quando lo porta ancora in grembo. Il costituzionalismo dei diritti, senza rinunciare alla sua aspirazione centrale d’essere al servizio della resistenza all’arbitrio, deve scoprire i doveri, non semplicemente in quanto riflessi, cioè in quanto controparte dei diritti, ma come posizioni giuridiche autonome che vivono di vita propria, senza presupporre l’esistenza (attuale) delle corrispondenti situazioni di vantaggio e dei relativi titolari. Insomma, dove l’unità di tempo è rotta, i doveri “priment” i diritti, secondo il celebreincipit dell’ultima, anticipatrice e tutt’altro che visionaria, riflessione di Simone Weil: «La notion d’obligation prime celle de droit, qui lui est subordonnée et relative. Un droit n’est pas efficace par lui-même, mais seulement par l’obligation à laquelle il correspond. […] L’objet de l’obligation, dans le domain des choses humaines, est toujours l’être humain comme tel. Il y a obligation envers tout être humain, du seul fait qu’il est un être humain». Il passo citato è in L’enracinement, un testo del 1943 (Paris, Gallimard, 1949, pp, 6-7) che, come sottotitolo porta Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain.
Esiste, in effetti, un movimento pro-doveri, che nasce già al tempo degli eventi della Rivoluzione in Francia, come contraltare della Déclaration des droits (progetto di una Déclaration des devoirs de l’homme et du citoyen del 23 Germinal dell’Anno III ; Déclaration des droits et des devoirs de l’homme et du citoyen del 5 Fructidor dell’Anno III). Allora si trattava di definire il profilo morale del « bon citoyen » e dell’ « homme de bien », con riguardo alla società del proprio tempo. L’attenzione al tempo futuro dell’umanità verrà dopo, da ambienti diversi, massonici o cattolici reazionari, mossi talora da propositi ambigui . Ma non necessariamente : l’InterAction Council, su iniziativa di Hans Küng e Helmuth Schmidt, nel 1977, ha promosso un’iniziativa a favore di unaDichiarazione universale delle responsabilità dell’uomo, d’impostazione gandhiana, indirizzata al Segretario generale delle Nazioni Unite e ai governi di tutto, in cui l’attenzione ai problemi intergenerazionali è al centro del documento. Ed io non posso non rammentare che, negli ultimi anni della vita, Norberto Bobbio, soleva interrompere con una certa rudezza chi fosse venuto a parlare del suo celebre L’età dei diritti (1990): “Bisognerebbe piuttosto scrivere L’età dei doveri”.
Dobbiamo riconoscere che questo mutamento di paradigma vede il costituzionalismo completamente impreparato, anzi ostile. In nome dei diritti, non dei doveri, da due secoli conduce la sua battaglia. I doveri sono stati e sono tuttora la parola d’ordine dei regimi autoritari e di quelli totalitari. Questo dobbiamo ricordarlo come monito, anche se c’è una differenza, ed è evidente, tra i doveri d’obbedienza all’autorità e allo Stato e i doveri di responsabilità nei confronti degli esseri umani, presenti e futuri. Tuttavia, la questione è complessa e le soluzioni sono sdrucciolevoli. Si tratta di costruire una mentalità, una cultura, e da ciò trarre spunto per comportamenti adeguati, anche senza che si debbano attendere proclamazioni giuridiche formali.
Innanzitutto, le norme che riconoscono diritti e facoltà dovrebbero essere interpretate, tutte le volte in cui siano alle viste conseguenze potenzialmente pregiudizievoli sulla condizione di coloro che verranno, in una prospettiva oggettiva, in base alla massima: la terra appartiene tanto ai viventi quanto ai non ancora viventi; i diritti dei primi sono condizionati dall’uguale valenza anche per i secondi. Il che – non si può non riconoscere – comporta possibili restrizioni ai diritti in senso soggettivo. I diritti, nei casi anzidetti, devono essere intesi come beni o istituzioni di lungo periodo. Per estenderli nel tempo futuro, può essere necessario ridurne la portata nel tempo presente. Conosciamo già situazioni di questo genere, nelle quali entra in gioco il cosiddetto “principio di precauzione”, vigente, in forza di norme di diritto nazionale, europeo e internazionale, per esempio in materia ambientale, energetica e sanitaria. Qui, parlando di costituzionalismo, si dice che quel principio dovrebbe essere assunto come elemento conformativo dell’intero modo di concepire il diritto costituzionale. Il diritto costituzionale di oggi deve essere un “diritto prognostico”, che guarda avanti, fin dove, nel tempo, le previsioni scientifiche permettono di gettare lo sguardo.
Così inteso, il principio di precauzione diventa il criterio, adeguato ai tempi tecnologici che viviamo, per intendere due dei tre venerandi doveri di giustizia, neminem laedere e suum cuique tribuere: il “nessuno” e il “ciascuno” devono abbracciare ormai gli esseri umani di oggi e di domani. E così anche per il terzo, honeste vivere: la vita dei viventi oggi non è onesta (nel senso degli onera) se trascura la vita dei viventi domani. Che fine faranno, allora, i diritti dei viventi? Si devono allineare, relativizzare e talora subordinare ai diritti dei non ancora viventi. Non sono i morti, ma i non ancora viventi, che afferrano i vivi. Già a questo punto esitiamo, a dir poco perplessi, davanti a queste prospettive. Sappiamo quale ideologia illiberale e quale tentazione di potere possono nutrirsi di questa inversione, quando all’ipotetico bene futuro si chiede di sacrificare il concreto bene presente.
Ma c’è dell’altro, che riguarda direttamente il tema del rapporto tra politica, democrazia e scienza. Il giudizio prognostico non è un giudizio politico; è un giudizio tecnico-scientifico. Ora, a parte la difficoltà forse insuperabile – data la pervasività sociale della scienza e della tecnica, uniti dall’economia, che si sospingono reciprocamente – di individuare scienziati e tecnici realmente indipendenti dagli interessi immediati da sottoporre a verifica (è un aspetto del cosiddetto “conflitto d’interessi”, che è in realtà commistione impropria d’interessi), la prospettiva che si apre è la tutela tecnocratica sulla politica. È una prospettiva realistica, non solo nei casi eccezionali in cui una catastrofe ecologica, economica e finanziaria o biologica incombe e la politica si autosospende e, per sortire dalle difficoltà, si affida, se non alla Repubblica dei filosofi, almeno alla Repubblica dei sapienti. Ma la questione non riguarda solo e principalmente i momenti eccezionali, perché è proprio nella normalità che dovrebbero valere le condizioni che possano prevenire l’insorgere di situazioni eccezionali. Orbene, la politica, nella sua versione democratica come nelle sue degenerazioni populiste e demagogiche, s’incarna in istituzioni dei (non: dai) tempi brevi. Le decisioni devono essere in sintonia con l’interesse prevalente che la società, come più o meno autonomamente e veridicamente lo rappresenta per se stessa, ed è poco probabile che, nella considerazione di tale interesse, entrino con il peso che meriterebbero ansie e preoccupazioni per la sorte di società diverse, ipotetiche, lontane nel tempo. A questo interesse momentaneo, infatti, la politica deve rendere conto. I momenti elettorali sono quelli dei rendiconti a scadenza ravvicinata. Le rilevazioni demoscopiche, a loro volta, riducono i tempi, annullandoli. La miopia della democrazia, che coincide con la sua tendenza a essere cicala, è un grave problema, nel momento in cui occorrerebbe la virtù della presbiopia.
Fermiamoci qui. Siamo nel regno delle contraddizioni. Il costituzionalismo, nel quadro d’allora, era il mondo dei diritti, ma ora il mondo ha bisogno di doveri. Il costituzionalismo ha prodotto democrazia, ma oggi la democrazia mostra di poter essere un regime di saccheggio delle risorse, per i viventi e per i posteri. Per questo, si ricorre a momenti ed elementi di natura scientificotecnocratica, ma la ragione del saccheggio sta precisamente nello sviluppo della tecnica senza altro fine che se stessa. Quindi, la tecnica, per essere benefica, dovrebbe poter essere a sua volta controllata. Ma da chi? Dalla democrazia, che è proprio colei che ha ne ha bisogno e che si presta a essere la sua naturale alleata?
Doveri e tecnocrazia fanno paura, non c’è che dire. Ma sono necessari proprio alla luce delle premesse e delle promesse del costituzionalismo, una volta che s’intenda quest’ultimo non come mero egoismo dei viventi. Le contraddizioni sono intrinseche. Saranno distruttive? Non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che esse chiamano a un compito non facile, su un terreno incerto dove molto è da pensare e costruire, tutti coloro i quali, nello studio e nella pratica, richiamandosi ai valori permanenti del costituzionalismo, intendono agire “costituzionalisticamente”. Il costituzionalismo ha avuto una storia. La questione è se avrà una storia. L’avrà in quanto riuscirà a incorporare nella democrazia, senza annullarla o umiliarla, la dimensione scientifica delle decisioni politiche. Questa, mi pare, è l’ultima sfida del costituzionalismo, l’ultima sua metamorfosi. Le risposte, per ora non ci sono, ma sarebbe già molto diffondere nella cultura del nostro tempo l’inevitabilità e l’urgenza delle domande.
Gustavo Zagrebelsky
(Fonte: http://www.scienceanddemocracy.it/)

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