La storia del mondo, intesa come ricostruzione del passato è difficile e controversa. La difficoltà di interpretare correttamente i documenti del tempo andato è risaputa; quelli del presente lasciano quasi sempre aperti molti dilemmi e contraddizioni. Più semplice e indiscutibile è la storia del futuro, purché non ci si appassioni ai dettagli. Ma lasciamo per un momento la storia del mondo (tanto va avanti lo stesso senza di noi).
Del futuro, da quando la scienza ha demolito l’arte del vaticinio e l’astrologia, la trasmigrazione e la speranza di paradiso (o il timore dell’inferno) si occupano ormai quasi soltanto gli assicuratori e i banchieri, trasformando in materia sordida la voglia di sapere, di prepararsi. Negli ultimi secoli è cresciuta poi la riflessione ambientale e sulla natura: se faccio adesso qualcosa: costruisco, scavo, brucio, trasformo, di certo modifico l’assetto del mio domani. Avrò abbastanza da mangiare? E se non faccio niente? E se scopo, cosa avviene?
Duecento anni fa Tommaso Roberto Malthus ha riordinato il problema. L’aumento della prole e quindi in ultima analisi della popolazione, se libero da vincoli, ha un ciclo di crescita geometrico; l’aumento della produzione agricola, dei beni di sostentamento, a condizioni date, ha un tasso di crescita solo aritmetico. Pur senza farne un dogma insormontabile, la questione era risaputa; non c’era discussione, mancavano teorie accolte da tutti. I positivisti hanno riflettuto; hanno spiegato che i regni e le religioni, erano nati così, con il compito di limitare le libertà di procreare; d’altro canto i viaggi per mare, le conquiste, le scoperte di nuove terre, gli scambi di merci, le emigrazioni, la schiavitù, la guerra, la grande industria erano altrettanti modi per forzare la crescita della produzione, liberarsi dal vincolo della progressione aritmetica, pareggiare la geometria delle nascite. Dopo, da una parte e dall’altra, un milione di economisti si è dato un gran daffare per discutere Malthus e metterlo definitivamente in soffitta.
Oggi sono i politici ad affrontare di nuovo l’eterno, insolubile problema. Che fare dei jihadisti che scappano dalle guerre? Che fare degli africani che scappano dalla fame? Per una volta le risposte della Fortezza-Europa non sono state quelle solite, non del tutto, almeno. Una serie di paesi europei ha armato le polizie, ha costruito dei muri di filo spinato, ha bloccato le stazioni ferroviarie, ha scritto numeri sul braccio dei bambini, ha tirato, nei momenti migliori, pagnotte alla folla per tenerla buona, ha fatto risse e sgambettato povera gente in fuga, priva ormai di tutto.
C’è il noto caso di un paese pesce-in-barile, la solita Italia, e si sono sentiti i banchieri e i loro assicuratori, riuniti in accademia, ripetere verso, osservando che “dopotutto gli immigrati pagheranno le pensioni dei nativi”.
Se si depura la scelta politica di tutto l’eccesso di sgarberie e parole avventate, dell’esagitata propaganda, rimane il vecchio Malthus, cioè la paura di dividere in tanti, improvvisamente diventati troppi, il poco cibo disponibile, le scarse risorse, attribuite ovunque a pochi eletti – o nominati – in modo definitivo e insindacabile, nei secoli dei secoli...
Stralcio di un articolo di Guglielmo Ragozzino
(Fonte: www.eguaglianzaeliberta.it)
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