Appunti e punti di un firmamento esiziale o
verso un disperante morire.
L’autoreferenziale scala verso l’alto,
simbolica rappresentazione della modernità e del suo culmine detto
post-modernità, può stare nella seguente sintesi: anima
razionalista, cuore meccanico, spirito positivista, corpo
industriale, valori egoici, fine materiale, progresso opulente,
benessere apparente, profondi effetti collaterali, sottrazione delle
identità, crescita sconsiderata, controllo capillare, avidità
legittimata, fideismo digitale, esaltazione per l’intelligenza
artificiale, ebbrezza post-umanista.
Una scala verso l’alto sotto l’egida della
tecnologia, del capitalismo finanziario e della digitalizzazione,
trinità fautrice del “migliore dei mondi possibili”. Uno slogan
del razionalismo di Leibnitz, da lunga data plagiato da certi
economisti-illusionisti, sempre estratto alla bisogna dal cilindro
per imbambolare ancora, buona parte di noi, con la sua promessa di
elargizione di benessere, di pace e di felicità.
Quelli in cima alla scala, ciechi al crollo che
li attende, seguitano nella propria autoesaltazione. Un’euforia che
coinvolge però anche buona parte della moltitudine più in basso.
Gente comune che li sostiene, in equilibrio sul filo ancorato al
niente, inconsapevole del vuoto nichilistico d’intorno, disposta –
o predisposta – alla guerra tra poveri, pur di strappare al proprio
pari le briciole che cadono dall’alto.
Per i critici dello spirito di questo tempo, la
scala è destinata a precipitare. In esso vi vedono con chiarezza la
cesura dell’uomo dal cosmo. Un’implicita conseguenza della
suggestione antropocentrica, del mito della propria indipendenza. Le
cui conseguenze sconvenienti sono sempre più somatizzate. Si possono
infatti osservare nella metastasica, multiforme e crescente
sofferenza cancerogena del mondo, conclamata anche nella sconsiderata
politica, monca di qualsivoglia suffragio popolare, in mano a entità
autoreferenziali al guinzaglio di potentati privati con il monopolio
della comunicazione. Sfacciati affabulatori che ci costringono a
considerare l’opera di Orwell e non solo la sua, non più distopica
ma realistica. Ma anche e soprattutto nella inquieta infelicità
degli individui, nei loro conseguenti violenti scoppi di collera
nefasta, dei quali sarebbe opportuno diffondere il piano cartesiano
che ne segni l’andamento. Progresso
sull’ordinata e calendario
sull’ascissa. Forse
anche qualche benpensante agnostico soldatino in tweed, velluto a
righe e Clarks, potrebbe divenire revisionista del proprio
progressismo, potrebbe rinsavire dal proprio inconsapevole
ideologismo.
In questo contesto culturale, il libro aperto
sull’intera verità della natura, di noi, della vita, come in
Fahrenaheit 451,
è mandato al rogo dagli ideologisti più temibili, gli
scientisti-progressisti. Una specie di individuo che ritiene di poter
scomporre la realtà per conoscerla, che crede che la realtà esista
indipendentemente da qualcuno che la concepisca, che considera il
tempo un viaggio verso il futuro, che pensa di poter svelare il
mistero a colpi di speronate razional-materialiste, che non si avvede
d’essere espressione, come ogni suo simile ed ogni altra creatura e
creazione, di una sola matrice.
Così procedendo non si avvede del ciclo
perpetuo con il quale la natura mantiene se stessa, dunque neppure
dell’evidenza che la morte fisica è il sistema, l’escamotage, il
picco di autoconservazione della vita.
Sebbene si possa fare una strutturale analogia
con i mercati che, sotto la tempesta di comunicazioni celebrative
della rottamazione, sono tenuti in vita dalla programmata
obsolescenza delle merci, non v’è punto di contatto tra i due
sistemi né conoscenza per l’uomo, ma solo l’interesse personale.
Un culto ontologicamente destinato a figliare ed allattare ad
oltranza il lato Caino della storia.
Come una segnaletica o una opportuna lettura
del terreno necessarie per superare ostacoli e giungere a
destinazione, la morte informa la vita affinché questa possa
correggere il proprio procedere e mantenere la via aggiornando se
stessa nei confronti di nuovi attacchi e nemici.
Tutte le sostanze materiali e spirituali –
alimentazione, respirazione, attività motoria (come conoscenza, non
come esecuzione), pensieri, sentimenti, contemplazione, meditazione,
preghiera (come diffusione d’amore, non come pretesa) –
permettono o impediscono il riconoscimento e il mantenimento
dell’appartenenza alla natura.
Se la consapevolezza del potere
dell’accettazione è una delle chiavi che apre la porta verso la
miglior condizione terrena, a mezzo di essa si può riconoscere che
la ricerca del bene presuntuosamente implicata nella modalità
scientista ha, invece, importanti e nocivi effetti collaterali.
Questi si mostrano con imperturbabile ed
ininterrotta continuità seguendo la via dei valori egoici e
materiali, considerati inalienabili diritti, superiori ad ogni altro.
Ma è nei momenti delle morti spirituali lungo il corso
dell’esistenza e in quello della fine della dimensione fisica che
avvertiamo l’alienazione, la distanza incolmabile con i
ragionamenti e con l’erudizione nei confronti di noi stessi in quei
momenti, se siamo stati protagonisti di una condotta senza spessore.
Una morte aliena corre il rischio d’essere
l’apice di un’esistenza creduta nostra, votata ad inseguire
l’effimero dell’apparenza, sottomessa alla superficiale
conoscenza dei saperi intellettuali, riempita di vanità e di buone
maniere, comprese quelle utili per giudicare dall’alto chi non ne
ha.
In quei saperi, in quell’esistenza, in quella
via marcata da scelte aliene alla natura – in una parola
scientiste, per fideismo più o meno consapevole – attaccano e
indeboliscono l’energia stessa della vita che si esprime in noi.
In quei saperi generati da un’arroganza ben
mascherata c’è la macchia indelebile di un attacco alla conoscenza
profonda, la sola che permetterebbe una politica di bellezza e
soddisfazione, di emancipazione da quella di abbruttimento e
perdizione.
E allora energeticamente e simbolicamente –
se non direttamente – è rispettabile prospettare il prosperare dei
tumori e delle malattie esiziali quali espressioni, rigurgiti, nodi
che la nostra condotta, antropocentrica
razional-scientista-materialista, ha provocato alla rete della vita
che tutto unisce, alla rotta naturale della conoscenza. Un sapere
inquinante – quindi sconveniente se e quando considerato come
conoscenza – che possiamo osservare anche nel comportamento dei
cetacei, dei pesci, degli animali e degli insetti che perdono la
rotta, deviati dalla innocua – così la definiscono – corruzione
magnetica provocata dalla rete di elettrosmog che impregna
l’atmosfera, la terra e i corpi degli esseri viventi. Campi
elettromagnetici considerati indiscussi altari antropico-tecnologici
simbiotici al progresso, ma estranei alla natura che, come una
qualunque sostanza tossica, ci impone dipendenza e ci allontana dalla
purezza. Naturalmente, sotto l’egida di una promessa, anzi
garanzia, di elevazione della condizione umana, che occulta però un
biglietto per l’inferno.
Il culto dei vaccini, la profusa assunzione
delle medicine allopatiche, la presunta innocuità delle trasfusioni,
l’indiscusso valore assoluto dei trapianti e della chirurgia
gratuita costituiscono anch’essi altri nodi che disorientano e
inceppano lo scorrimento dell’energia necessaria all’equilibrio
della natura e alla conoscenza dell’uomo, ormai dimentico della
propria origine, della propria madre, della propria ragione
d’esistenza, salvo quella concepita ed elaborata dal suo pulcioso
io.
Tutto ciò è una schiatta d’invasione
analitico-vandalico del campo olistico della natura. Le malattie,
infettive in particolare, ma tutte in generale, sono informazioni per
e del sistema immunitario nostro e della vita.
In questa ottica le grandi epidemie sono per la
vita una necessità e un’informazione, affinché si realizzi in
essa un sistema di autosostentamento. Un po’ come la segnaletica
delle stelle permetteva ai naviganti di giungere a terra. Sottrarre
ai marinai il firmamento era destinarli a cattiva sorte. Fornirgli un
gps è condannarli a morte in caso di avaria dello strumento. La
forza di un marinaio è nella cultura del mare, del vento e del
cielo, tutto il resto lo porta all’ignoranza o allo sport.
Dunque tutta la medicina allopatica accanita ed
esaurita sui sintomi, incapace di vedere in questi sia la vita sia
l’uomo, non fa che alzare il livello di incompatibilità con la
salute stessa.
Medicina che, esaltata dalla cultura
egocentrica ed egoistica, è obbligata a concepire un uomo
meccanicistico e monadico, non quale espressione e portatore di un
disegno più ampio di se stesso, di una umanità e di una sacralità.
I mattoni dell’epigenetica individuale
costituiscono l’edificio della genetica generale. Un processo nei
confronti del quale il singolo individuo individualista, materialista
e positivista si sente estraneo e senza responsabilità. La sua
misera unità di misura, con la quale riduce il mondo a dati e
concetti, in cui crede fino a esaltarsi, uccidere e morire, è il
primo impedimento per la sua maturità. Nonché la prima condizione
per poter bellamente e scientificamente sbarazzarsi dei tempi della
genetica, dei processi evolutivi, della propria partecipazione ad
essi. Autopresunto re miope del mondo, su misura per non vedere
l’integrità della natura di cui è emanazione e quindi procedere
spaccandola a suon di saperi analitici e autoreferenziali.
Il criterio culturale in corso non ha i mezzi
per formare persone e medici idonei a distinguere la natura dei loro
interlocutori e dei loro pazienti.
Protocolli uniformati, ogm, cloni, a breve,
incroci artefatti di specie e/o di razze di mammiferi, microchip
incorporati, sono un viaggio siderale a cavallo della tecnologia con
destinazione sempre più lontana dal cuore naturale. Ne sono
argomento gli allevamenti intensivi, l’agricoltura chimica, gli
antibiotici e le proteine animali per gli erbivori, il cibo umano
iper-trattato, l’impiego deliberato di conservanti, il mito della
crescita costante, il suicidio assistito come prodotto acquisibile e
come progresso politico-sociale, l’offesa pubblicitaria, l’arte
mortificata.
Abbiamo a che fare con una scienza tanto
declinata ad evolvere ed evolversi in tecnologia quanto destinata a
nascondere la via alla conoscenza, che non sta nell’erudizione.
L’ormai plurisecolare relazione delle classi
dominanti con la macchina e con l’industria ha stravolto il
registro precedente dal carattere artigianale, nei confronti della
concezione di sé e del mondo.
La separazione cartesiana del pensiero dal
corpo ha germinato un sistema prospettico che a breve a generato
l’illuminismo e la conseguente supremazia della ragione, non a caso
apparso in corrispondenza con l’avvento della macchina.
Quindi di un’idea di progresso in cui la
tecnologia dovesse, senza dubbio alcuno, sostituire la tecnica, che
il digitale fosse preferibile all’analogico, che l’artigianale
potesse essere tralasciato a favore dell’industriale, che l’alieno
dimostrasse un miglioramento dell’umano. Che la voce sintetica di
un disco fosse all’altezza della carezza di una ninna nanna della
madre.
In tale precipitare, festoso per alcuni,
indifferente per la moltitudine, penoso per qualcun altro è
praticamente inutile lamentare che la corsa verso le comodità ha
cancellato il valore della frugalità, delle difficoltà della
salita, della semantica spirituale delle due opposte vie: una che nel
portare abbondanza, porta con sé anche oblio di se stessi,
alienazione, frustrazione e nichilismo, l’altro, che conduce invece
verso la scoperta e la presa di coscienza di sé, dell’altro e del
benessere.
Lungo quale via sarà disperante morire?
Lorenzo Merlo