In vista dell'arcobaleno nel cantiere della vita - Foto di Gustavo Piccinini
Ante Scriptum
Nel 1973, durante il mio primo viaggio in India, fui iniziato alla conoscenza del Sé dal mio maestro Swami Muktananda e restai nel suo ashram di Ganeshpuri per diversi mesi... Tornato in Italia, a Roma, sostanzialmente continuai a sentirmi un “laico”, nel senso sincretico del termine, ma non vivevo un'esistenza secolare.
Il mio modello, allora, era diventare uno swami, come il mio Guru. Non avevo ancora scoperto e pienamente accettato quella che in seguito avrei definito “spiritualità laica”. Nell'intimo sospettavo (forse speravo) che esistesse questa via mediana, priva di orpelli religiosi, ma la mia immaturità non mi consentiva di percepirla, il che mi spingeva a pensare che la realizzazione finale potesse essere “raggiunta” attraverso la rinuncia alle vie del mondo. Sentivo di dover abbandonare qualsiasi collegamento con il mondo del lavoro, del sesso, della politica.. o quel che fosse. La mia attenzione era totalmente diretta, in raccoglimento monastico, alla ricerca “spirituale”.
Pian piano però la mia buona sorte o la natura intrinseca che mi contraddistingue mi spingevano, a mia insaputa, verso il completamento della mia “funzione” laica e secolare. Iniziò attraverso l'aggregazione con altri fratelli o cercatori senza casa, sia quelli vicini alla mia stessa scuola spirituale od altri (di cui in altra occasione vi narrerò gli eventi)... Insomma mi ritrovai inevitabilmente implicato a svolgere la parte del “guretto” e questo -come sapete- è uno dei tranelli lungo il sentiero...
Chi si ferma è perduto! Diceva il duce, ma credo che questa frase fosse preesistente, e tutto sommato è pur vero.... Arrestarsi al “credere”, nello svolgimento di un ruolo, è un grave rischio per chi conosce il costante fluire della Coscienza. Fortunatamente la sincerità del mio percorso mi risospinse nella corrente del grande flusso e mi trovai coinvolto in una serie di relazioni, che mi avrebbero obbligato a “dimostrare” la mia consapevolezza spirituale e la mia abilità a galleggiare senza l'uso di parole giustificative. Insomma dovetti affrontare nuovi viaggi e scartare vecchie guaine per scoprire me stesso in ogni aspetto del percorso. Avendo assunto una “forma” l'unico modo che avevo per continuare ad essere quel che sono era sciogliermi nel “senza forma”.
Rinunciare alla legge di causa/effetto, rinunciare alla santità indotta, abbandonare ogni ricerca costruita e deliberata, smetterla di immaginarmi un qualcosa di ipotetico, e semplicemente radicarmi nell'Essere, che realmente sono. Io sono, e basta!
Fu così che -irrimediabilmente attratto dalla Conoscenza aldilà delle forme- nel 1975 (ma non sono sicuro che sia quello l'anno) affrontai me stesso... E come avvenne?
Debbo qui fare un piccolo passo indietro, tornando alla lenta maturazione del momento fatidico... Anasuya lo definisce “Taruna”, il “momento opportuno”!
Anasuya, la Madre di Jillellamudi
“Preoccuparsi è un insulto alla vita” afferma Carla Lonzi e potrebbe essere anche il motto a Jillelamudi, nella presenza della Madre. Qui le necessità son viste per quello che sono, semplici pulsioni, segnali di un fluire in un tutto unito, in cui ogni cosa legata all’altra indissolubilmente è sempre soddisfatta. “Dal Tutto sorge il Tutto, se dal Tutto togli il Tutto, solo il Tutto rimane” questa la Dichiarazione dei Rishi. Si sta in un nido di protezione e benevolenza come essere accuditi dalla propria madre. E’ talmente semplice, non ci si angustia minimamente per alcunché, non appaiono desideri di sorta, non c’è nulla da voler cambiare, da ottenere (oltre ciò che è).
Tutto ha un senso inequivocabile ed allo stesso tempo non si percepisce alcuna finalità.
Semplicemente il vivere, forse potrei dire ‘sopravvivere malgrado se stessi’. Succede spontaneamente. Ma come mai si sente così compiutamente qui a Jillellamudi? Perché non ovunque noi siamo? Con questo interrogativo in mente ho continuato a fare la spola fra il ‘qui ed ora’ e ‘il qui ed ora’.
Ed eccomi… Nel sud dell’India, dove la piattezza è assoluta, nella terra dei Telgu, dove la cosa più alta sono i bordi dei canali e l’orizzonte non ha contrasti, un villaggio rurale di fango secco, si chiama Jillellamudi. Prende il nome da un fiore asciutto ed alto, il cui fusto raggiunge i due metri, che assomiglia al tasso barbasso ma il colore dei fiori è viola o blu come la malva. In questo villaggetto di capanne e poche case di mattoni crudi c’è la “Casa di tutti” una struttura relativamente grande, dalla cui terrazza si può spaziare con lo sguardo a perdita d’occhio, senza vedere altro che campi e campi e qualche rado albero in mezzo alle risaie. Qui risiedeva il corpo mortale e qui è sepolta Anasuya Devi, amma, la madre di tutti.
Ma per capire come accadde che finii in quella specie di ‘cul de sac’ o ‘sacred abode’, in quel rifugio totale dell’anima, debbo ripartire da Ikaria, dalla caduta della saccenza, e da lì seguire il percorso dei sufi sino al Deccan Plateau.
Scrive Omar Kayam, santo poeta persiano: “Non vietatemi di bere vino, di godere le donne, perché Dio è compassione. Non ditemi che sto peccando, lasciatemi peccare a volontà. Porre fine alle proprie azioni per paura della punizione è da miscredenti, significa dubitare della Sua compassione”.
Leslie, una giovane donna inglese che avevo conosciuta in India, per un caso del destino abitava a Roma vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore. Dopo il mio ritorno in Italia ed abbandonata Verona (la città in cui avevo vissuto il mio fermento culturale durante gli anni appassionanti della giovinezza) me la ritrovai come vicina allorché ritornai a Roma, città in cui ero nato. Avvenne quando andai ad abitare in una vecchia casa nei pressi di Piazza Vittorio. Tra la mansarda di Leslie e lo “Sri Gurudev Mandir”, come allora chiamavo il luogo in cui vivevo, c’era meno di un chilometro, per chi conosce la grandezza di Roma comprenderà che eravamo praticamente a due passi. Entrambi eravamo benedetti dal Guru, praticavamo la stessa via, lei viveva semplicemente facendo traduzioni ed io sbarcavo il lunario prestando piccoli servizi e facendo le pulizie in casa di amici e conoscenti.
La mia giornata era molto stretta, un perfetto orologio di disciplina e pratica spirituale, sveglia al mattino prima dell’alba, meditazione, canti, letture edificanti, passeggiate a piedi nei giardini di Roma, accudimento ed istruzione di altri cercatori di passaggio, sopravvivenza personale con 500 lire al giorno (eravamo nel 1974). In quella casa di Via Emanuele Filiberto passarono e vissero con me parecchi “santi”, ricercatori e discepoli di maestri famosi, ed anch’io mi sentivo praticamente un santo, con poco o nulla sulla pelle del vecchio Max D’Arpini, artista concettuale e poeta trasgressivo. Ora praticavo l’astinenza sessuale (il contrario di quello che facevo a Verona dove ero famoso per la promiscuità), ero diventato vegetariano stretto (quando prima le feste orgiastiche a base di carne e vino erano uno dei miei passatempi), vivevo praticamente in assoluta povertà monastica, senza elettricità, né acqua corrente in casa (lavavo i miei panni al lavatoio condominiale), scevro da ogni vizio, confort o frivolezza, ero “buono e compassionevole”.
Soprattutto ero fiero della mia capacità di controllare i sensi, nessuna donna era più riuscita a coinvolgermi, qualsiasi fosse il suo fascino e bellezza, persino nel sogno avevo raggiunto la capacità di impedire ogni eiaculazione notturna, ero un perfetto Bramachari. In questa ottica Leslie era per me come una sorellina alla quale dimostrare qualche affetto, nulla di più, anche se ero consapevole, con il passare del tempo e frequentandola sempre più spesso, che lei dimostrava una spiccata simpatia e debolezza nei mie confronti, consideravo però la cosa con distacco e con un sorriso sulle labbra… (mica tutti potevano raggiungere il mio livello di autocontrollo).
Leslie mi parlava spesso di una santa che aveva conosciuta nel sud dell’India, una certa Anasuya (che vuol dire aldilà della gelosia), viveva in un remoto villaggio dell’Andra Pradesh, a Jillelamudi, era sposata e madre e forse anche nonna, una manifestazione dell’amore universale, “Amma” (mamma). Leslie mi mostrava di tanto in tanto dei giornaletti stampati crudamente che riceveva da quella che era chiamata la “Casa di Tutti”. Io li guardavo con un po’ di sufficienza e li leggiucchiavo senza molto interesse, di tanto in tanto mi soffermavo su qualche immagine della santa Madre, un bel viso tondo, pulito ed onesto, un po’ sorridente ed ammiccante, come la Monna Lisa.
Passò ancora del tempo e tutto sembrava indicare per me una strada di rinuncia, santità ed apprendimento, ero preso dai miei doveri verso i compagni poco illuminati, fornivo un esempio di disciplina spirituale ed ero circondato da gente che mi rispettava e mi vedeva -forse- come un possibile futuro maestro. Accettavo il bello ed il cattivo tempo sapendo che la Grazia del Guru era con me. Non mi ero più mosso da un paio d’anni, ma di tanto in tanto partecipavo a qualche convention importante (come ad esempio il primo festival dello Yoga che si tenne a Milano organizzato da Carlo Patrian e da Giorgio Furlan), ero il rappresentante più qualificato del Siddha Yoga in Italia, od almeno così ritenevo.
Leslie ad un certo punto mi parlò della sua intenzione di tornare in India per visitare Amma a Jillellamudi, intendeva viaggiare via terra seguendo l’antica rotta carovaniera, mi chiese quietamente se volessi accompagnarla. Meditai sulla cosa a lungo, in fondo per me che ero rimasto orfano di madre quando ero un bambino di 10 anni, l’idea di un incontro con la Madre Universale era attraente, ricordavo inoltre qualcosa che Amma aveva detto di se stessa, su uno di quei giornaletti: “Chi sei tu? – “io sono la madre” – “la madre di chi?” – “di tutti” – “ma come ti percepisci?” – “io sono me stessa, quell’io che è diventato ogni io, madre non significa solo questa che siede sul letto a Jillelamudi. Madre significa quella che non ha inizio né fine, che è l’inizio e la fine, quella che è divenuto ogni cosa e che è l’incomprensibile, l’illimitata ed irresistibile base”.
Decisi infine di partire con Leslie, cominciai a raggranellare il denaro per il viaggio e per l’eventuale permanenza che non sapevo quanto sarebbe durata. Le cose stranamente andavano bene, non so come riuscii a mettere assieme mille o duemila dollari, accettando anche commesse per eventuali oggetti che avrei riportato dall’India (sitar, mrdanga, cembali, incensi ed altro materiale sacro). La prospettiva del viaggio mi rinvigoriva e mi rendeva più attivo, ovviamente non trascuravo la mia disciplina autoimposta ed i miei ‘doveri’ anch’essi autoimposti.
Il tragitto iniziale prevedeva l’imbarco da Ancona sino in Grecia, permanenza in un’isola vicino alla Turchia, per meditare e prepararsi al lungo viaggio… L’isola in questione si chiama Ikaria, fuori dalle rotte turistiche e richiedeva due traghetti per arrivarci, è l’isola mitologica sulla quale precipitò Icaro, dopo la sua malaugurata ascesa al cielo. Era la fine di settembre, il posto paradisiaco, l’accoglienza ricevuta invitante ed ospitale, mare limpido, terme calde e curative, aspri paesaggi, buon formaggio di capra e verdure fresche. Vivevo con Leslie in un appartamento che ci era stato offerto da amici incontrati sull’isola, letti separati ovviamente, ma stavamo sempre assieme andavamo in giro per monasteri e montagne, oziavamo al sole caldo e piacevole, la stagione era propizia. Una notte, dopo circa due settimane di questa vita beata, feci un sogno tremendo, mi sentivo avvampare dal desiderio sessuale, tutto era un inferno di desiderio irrefrenabile, mi svegliai di soprassalto, com’ero abituato a fare per controllare i miei sogni, ma la sensazione non mi abbandonava, andai a mettermi sotto la doccia sperando che l’acqua fredda calmasse i bollenti spiriti, mi sentii un po’ rinfrancato ma allo stesso tempo ancora più “pronto”. Pregavo Dio ed i santi di aiutarmi a controllare me stesso, tornai nella stanza, era ancora notte fonda, Leslie era nel suo letto, senza emettere suoni, tutto era silenzio ma non nella mia mente, impossibile resistere, ad un certo punto mi sentii letteralmente sollevato e mi vidi avvicinarmi al letto di Leslie, mi infilai dentro, lei mi chiese “cosa fai?” ed io “ho freddo”, mi fece spazio e mi abbracciò, facemmo l’amore senza sosta, con foga, con passione e violenza e tenerezza, anche dopo averlo fatto una, due, tre volte il desiderio non scemava. Insomma una debacle, totale….(dal mio punto di vista).
Andò così anche nei giorni successivi, quando camminavamo in montagna le saltavo addosso, cercavo una grotta e facevo l’amore con lei in piedi od in qualsiasi altro modo. Inutile dire che la mia autostima, come santo, era scesa a livelli inaccettabili, mi vedevo, novello Icaro, precipitato nell’abisso dei sensi. Solo molto più tardi scoprii che l’esperienza mi era necessaria per perdere la mia arroganza del raggiungimento che mi avrebbe impedito di accettare e sentirmi accettato dalla Madre. Allora, però, sentivo di dover espiare e ritrovare la mia purezza, parlai con Leslie di questo, lei piangeva e mi guardava implorante, le dissi che non potevo più viaggiare con lei, che ritornasse indietro se non voleva affrontare il viaggio da sola o che prendesse un aereo, io avrei proseguito sulla strada dell’espiazione da solo e sarei comunque andato da Anasuya, forse a farmi perdonare i miei peccati od a cercare di capire come tutto ciò fosse potuto accadere.
Leslie, sperava che cambiassi idea e mi accompagnò sino alla costa turca, ad Efeso, su un piccolo aliscafo che faceva servizio in quel breve tratto di mare che separa l’Europa dall’Asia. Durante il tragitto non parlammo mai, appena sbarcati la salutai senza quasi guardarla in faccia e mi allontanai subito sul primo bus che mi capitò di incontrare.
Ma questa non è l’occasione per continuare a parlare di questo periglioso viaggio, di tutte le esperienze vissute e le sensazioni percepite, sarebbe interessante farlo magari in un’altra storia.
Alla fine giunsi davanti alla Madre, che altro dire o fare? Ero stato accolto ed io stesso accoglievo.
Paolo D'Arpini
“Preoccuparsi è un insulto alla vita” afferma Carla Lonzi e potrebbe essere anche il motto a Jillelamudi, nella presenza della Madre. Qui le necessità son viste per quello che sono, semplici pulsioni, segnali di un fluire in un tutto unito, in cui ogni cosa legata all’altra indissolubilmente è sempre soddisfatta. “Dal Tutto sorge il Tutto, se dal Tutto togli il Tutto, solo il Tutto rimane” questa la Dichiarazione dei Rishi. Si sta in un nido di protezione e benevolenza come essere accuditi dalla propria madre. E’ talmente semplice, non ci si angustia minimamente per alcunché, non appaiono desideri di sorta, non c’è nulla da voler cambiare, da ottenere (oltre ciò che è).
Tutto ha un senso inequivocabile ed allo stesso tempo non si percepisce alcuna finalità.
Semplicemente il vivere, forse potrei dire ‘sopravvivere malgrado se stessi’. Succede spontaneamente. Ma come mai si sente così compiutamente qui a Jillellamudi? Perché non ovunque noi siamo? Con questo interrogativo in mente ho continuato a fare la spola fra il ‘qui ed ora’ e ‘il qui ed ora’.
Ed eccomi… Nel sud dell’India, dove la piattezza è assoluta, nella terra dei Telgu, dove la cosa più alta sono i bordi dei canali e l’orizzonte non ha contrasti, un villaggio rurale di fango secco, si chiama Jillellamudi. Prende il nome da un fiore asciutto ed alto, il cui fusto raggiunge i due metri, che assomiglia al tasso barbasso ma il colore dei fiori è viola o blu come la malva. In questo villaggetto di capanne e poche case di mattoni crudi c’è la “Casa di tutti” una struttura relativamente grande, dalla cui terrazza si può spaziare con lo sguardo a perdita d’occhio, senza vedere altro che campi e campi e qualche rado albero in mezzo alle risaie. Qui risiedeva il corpo mortale e qui è sepolta Anasuya Devi, amma, la madre di tutti.
Ma per capire come accadde che finii in quella specie di ‘cul de sac’ o ‘sacred abode’, in quel rifugio totale dell’anima, debbo ripartire da Ikaria, dalla caduta della saccenza, e da lì seguire il percorso dei sufi sino al Deccan Plateau.
Scrive Omar Kayam, santo poeta persiano: “Non vietatemi di bere vino, di godere le donne, perché Dio è compassione. Non ditemi che sto peccando, lasciatemi peccare a volontà. Porre fine alle proprie azioni per paura della punizione è da miscredenti, significa dubitare della Sua compassione”.
Leslie, una giovane donna inglese che avevo conosciuta in India, per un caso del destino abitava a Roma vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore. Dopo il mio ritorno in Italia ed abbandonata Verona (la città in cui avevo vissuto il mio fermento culturale durante gli anni appassionanti della giovinezza) me la ritrovai come vicina allorché ritornai a Roma, città in cui ero nato. Avvenne quando andai ad abitare in una vecchia casa nei pressi di Piazza Vittorio. Tra la mansarda di Leslie e lo “Sri Gurudev Mandir”, come allora chiamavo il luogo in cui vivevo, c’era meno di un chilometro, per chi conosce la grandezza di Roma comprenderà che eravamo praticamente a due passi. Entrambi eravamo benedetti dal Guru, praticavamo la stessa via, lei viveva semplicemente facendo traduzioni ed io sbarcavo il lunario prestando piccoli servizi e facendo le pulizie in casa di amici e conoscenti.
La mia giornata era molto stretta, un perfetto orologio di disciplina e pratica spirituale, sveglia al mattino prima dell’alba, meditazione, canti, letture edificanti, passeggiate a piedi nei giardini di Roma, accudimento ed istruzione di altri cercatori di passaggio, sopravvivenza personale con 500 lire al giorno (eravamo nel 1974). In quella casa di Via Emanuele Filiberto passarono e vissero con me parecchi “santi”, ricercatori e discepoli di maestri famosi, ed anch’io mi sentivo praticamente un santo, con poco o nulla sulla pelle del vecchio Max D’Arpini, artista concettuale e poeta trasgressivo. Ora praticavo l’astinenza sessuale (il contrario di quello che facevo a Verona dove ero famoso per la promiscuità), ero diventato vegetariano stretto (quando prima le feste orgiastiche a base di carne e vino erano uno dei miei passatempi), vivevo praticamente in assoluta povertà monastica, senza elettricità, né acqua corrente in casa (lavavo i miei panni al lavatoio condominiale), scevro da ogni vizio, confort o frivolezza, ero “buono e compassionevole”.
Soprattutto ero fiero della mia capacità di controllare i sensi, nessuna donna era più riuscita a coinvolgermi, qualsiasi fosse il suo fascino e bellezza, persino nel sogno avevo raggiunto la capacità di impedire ogni eiaculazione notturna, ero un perfetto Bramachari. In questa ottica Leslie era per me come una sorellina alla quale dimostrare qualche affetto, nulla di più, anche se ero consapevole, con il passare del tempo e frequentandola sempre più spesso, che lei dimostrava una spiccata simpatia e debolezza nei mie confronti, consideravo però la cosa con distacco e con un sorriso sulle labbra… (mica tutti potevano raggiungere il mio livello di autocontrollo).
Leslie mi parlava spesso di una santa che aveva conosciuta nel sud dell’India, una certa Anasuya (che vuol dire aldilà della gelosia), viveva in un remoto villaggio dell’Andra Pradesh, a Jillelamudi, era sposata e madre e forse anche nonna, una manifestazione dell’amore universale, “Amma” (mamma). Leslie mi mostrava di tanto in tanto dei giornaletti stampati crudamente che riceveva da quella che era chiamata la “Casa di Tutti”. Io li guardavo con un po’ di sufficienza e li leggiucchiavo senza molto interesse, di tanto in tanto mi soffermavo su qualche immagine della santa Madre, un bel viso tondo, pulito ed onesto, un po’ sorridente ed ammiccante, come la Monna Lisa.
Passò ancora del tempo e tutto sembrava indicare per me una strada di rinuncia, santità ed apprendimento, ero preso dai miei doveri verso i compagni poco illuminati, fornivo un esempio di disciplina spirituale ed ero circondato da gente che mi rispettava e mi vedeva -forse- come un possibile futuro maestro. Accettavo il bello ed il cattivo tempo sapendo che la Grazia del Guru era con me. Non mi ero più mosso da un paio d’anni, ma di tanto in tanto partecipavo a qualche convention importante (come ad esempio il primo festival dello Yoga che si tenne a Milano organizzato da Carlo Patrian e da Giorgio Furlan), ero il rappresentante più qualificato del Siddha Yoga in Italia, od almeno così ritenevo.
Leslie ad un certo punto mi parlò della sua intenzione di tornare in India per visitare Amma a Jillellamudi, intendeva viaggiare via terra seguendo l’antica rotta carovaniera, mi chiese quietamente se volessi accompagnarla. Meditai sulla cosa a lungo, in fondo per me che ero rimasto orfano di madre quando ero un bambino di 10 anni, l’idea di un incontro con la Madre Universale era attraente, ricordavo inoltre qualcosa che Amma aveva detto di se stessa, su uno di quei giornaletti: “Chi sei tu? – “io sono la madre” – “la madre di chi?” – “di tutti” – “ma come ti percepisci?” – “io sono me stessa, quell’io che è diventato ogni io, madre non significa solo questa che siede sul letto a Jillelamudi. Madre significa quella che non ha inizio né fine, che è l’inizio e la fine, quella che è divenuto ogni cosa e che è l’incomprensibile, l’illimitata ed irresistibile base”.
Decisi infine di partire con Leslie, cominciai a raggranellare il denaro per il viaggio e per l’eventuale permanenza che non sapevo quanto sarebbe durata. Le cose stranamente andavano bene, non so come riuscii a mettere assieme mille o duemila dollari, accettando anche commesse per eventuali oggetti che avrei riportato dall’India (sitar, mrdanga, cembali, incensi ed altro materiale sacro). La prospettiva del viaggio mi rinvigoriva e mi rendeva più attivo, ovviamente non trascuravo la mia disciplina autoimposta ed i miei ‘doveri’ anch’essi autoimposti.
Il tragitto iniziale prevedeva l’imbarco da Ancona sino in Grecia, permanenza in un’isola vicino alla Turchia, per meditare e prepararsi al lungo viaggio… L’isola in questione si chiama Ikaria, fuori dalle rotte turistiche e richiedeva due traghetti per arrivarci, è l’isola mitologica sulla quale precipitò Icaro, dopo la sua malaugurata ascesa al cielo. Era la fine di settembre, il posto paradisiaco, l’accoglienza ricevuta invitante ed ospitale, mare limpido, terme calde e curative, aspri paesaggi, buon formaggio di capra e verdure fresche. Vivevo con Leslie in un appartamento che ci era stato offerto da amici incontrati sull’isola, letti separati ovviamente, ma stavamo sempre assieme andavamo in giro per monasteri e montagne, oziavamo al sole caldo e piacevole, la stagione era propizia. Una notte, dopo circa due settimane di questa vita beata, feci un sogno tremendo, mi sentivo avvampare dal desiderio sessuale, tutto era un inferno di desiderio irrefrenabile, mi svegliai di soprassalto, com’ero abituato a fare per controllare i miei sogni, ma la sensazione non mi abbandonava, andai a mettermi sotto la doccia sperando che l’acqua fredda calmasse i bollenti spiriti, mi sentii un po’ rinfrancato ma allo stesso tempo ancora più “pronto”. Pregavo Dio ed i santi di aiutarmi a controllare me stesso, tornai nella stanza, era ancora notte fonda, Leslie era nel suo letto, senza emettere suoni, tutto era silenzio ma non nella mia mente, impossibile resistere, ad un certo punto mi sentii letteralmente sollevato e mi vidi avvicinarmi al letto di Leslie, mi infilai dentro, lei mi chiese “cosa fai?” ed io “ho freddo”, mi fece spazio e mi abbracciò, facemmo l’amore senza sosta, con foga, con passione e violenza e tenerezza, anche dopo averlo fatto una, due, tre volte il desiderio non scemava. Insomma una debacle, totale….(dal mio punto di vista).
Andò così anche nei giorni successivi, quando camminavamo in montagna le saltavo addosso, cercavo una grotta e facevo l’amore con lei in piedi od in qualsiasi altro modo. Inutile dire che la mia autostima, come santo, era scesa a livelli inaccettabili, mi vedevo, novello Icaro, precipitato nell’abisso dei sensi. Solo molto più tardi scoprii che l’esperienza mi era necessaria per perdere la mia arroganza del raggiungimento che mi avrebbe impedito di accettare e sentirmi accettato dalla Madre. Allora, però, sentivo di dover espiare e ritrovare la mia purezza, parlai con Leslie di questo, lei piangeva e mi guardava implorante, le dissi che non potevo più viaggiare con lei, che ritornasse indietro se non voleva affrontare il viaggio da sola o che prendesse un aereo, io avrei proseguito sulla strada dell’espiazione da solo e sarei comunque andato da Anasuya, forse a farmi perdonare i miei peccati od a cercare di capire come tutto ciò fosse potuto accadere.
Leslie, sperava che cambiassi idea e mi accompagnò sino alla costa turca, ad Efeso, su un piccolo aliscafo che faceva servizio in quel breve tratto di mare che separa l’Europa dall’Asia. Durante il tragitto non parlammo mai, appena sbarcati la salutai senza quasi guardarla in faccia e mi allontanai subito sul primo bus che mi capitò di incontrare.
Ma questa non è l’occasione per continuare a parlare di questo periglioso viaggio, di tutte le esperienze vissute e le sensazioni percepite, sarebbe interessante farlo magari in un’altra storia.
Alla fine giunsi davanti alla Madre, che altro dire o fare? Ero stato accolto ed io stesso accoglievo.
Paolo D'Arpini
Nessun commento:
Posta un commento