“Non c’è niente da fare” (U.G. Krishnamurti)
Ante Scriptum
Anni addietro mi venne l’idea di scrivere le mie memorie sugli incontri fatti con donne e uomini di conoscenza, il testo l’avevo chiamato “incontri con i santi”.
Certo alcuni di questi cosiddetti “santi” appaiono come esseri umani un po’ anomali, e di difficile accettazione da parte delle masse di cercatori tradizionali… Una di queste “persone” particolari da me incontrate fu Uppaluri Gopala Krisnamurti, uno completamente fuori dal coro…
E qui potete leggere la descrizione dell’incontro avuto con U.G.:
Sto cercando di rimettere in sesto e riorganizzare la memoria che ho di Roma. Questo perché ritengo che -essendo nato e vissuto per lunghi anni in questa città- sia doveroso per me fissarne le immagini. Non dispongo di alcun album fotografico, solo i miei ricordi ed ovviamente i ricordi che più facilmente vengono a galla son quelli che mi riportano in linea con la spiritualità laica….
Mi considero fortunato di aver potuto conoscere negli anni trascorsi alcuni dei maestri che oggi sono universalmente riconosciuti come Mahatma ovvero i “grandi dello spirito”. Di qualcuno ho già raccontato le sensazioni vissute durante l’incontro, come ad esempio quella volta con il 16° Karmapa, di altri debbo ancora meditare sul significato ed il valore. Oggi vorrei però raccontare un’importante “tete à tete” che ebbi con un “personaggio” anomalo della conoscenza, un maestro -non maestro. Un saggio che rifiutava la saggezza come percorso affermando che “è la vita stessa che si prende cura di tutto, non c’è bisogno di interferire con l’intenzione di raggiungere la conoscenza, la conoscenza è la nostra vera natura e non può essere ottenuta attraverso processi mentali od una volontaria (ipoteticamente volontaria) ricerca…”. Insomma si trattava di un saggio che secondo i nostri canoni potremmo chiamare “nichilista”, ma anche Buddha fu definito tale e tanti altri “conoscitori del Sé” che oggi son rispettati come maestri dell’umanità….
L’incontro con questo “ribelle della saggezza” avvenne chiaramente nel modo più banale possibile, nel tran tran di una normalissima giornata a Roma, una giornata tiepida d’autunno, com’è oggi, con il sole in cielo e la città sbrilluccicante di specchi e vetrate riflettenti la luce. Anche Uppaluri Gopala Krishnamurti (questo il nome canonico del “saggio”) rifulge ora nella mia mente come quel giorno di sole…..
Eccolo.. U.G. (per gli amici)….
La mia sadhana (pratica spirituale) procedeva retta, vivevo a Roma, la mia vita leggera e scandita da molteplici esperienze. Nel corso del tempo avviai una sorta di comunione sincretica con altri cercatori sul cammino, avevo frequentato e conosciuto tutti i gruppi che operavano a quel tempo in città. Incontrai Baktivedanta Prabupada (il fondatore degli Hare Krishna), Raphael Lacquiniti (fondatore dell’Ashram Vidya), Satyananda (discepolo di Ananda Moy Ma) e diversi altri luminari dello spirito, oltre a conoscere i vari devoti e seguaci di Maharishi Mahesh Yogi, Guru Maharaji, Bagawan Rajneesh (Osho), etc. ed anche vari maestri anomali e cultori di strane sette, come i “rinomati” Bambini di Dio… etc.
Insomma facevo come Narada che andava da un ashram all’altro a cantare i nomi del Signore (nelle varie forme) confrontandosi con i devoti di diverse religioni, demoni e dei.
Ovviamente avevo notato come ognuno dei “religiosi” incontrati cercasse di tirare l’acqua al proprio mulino. Quasi tutti volevano convincermi del loro credo, alcuni arrivando a dirmi che se non avessi accettato la loro fede era inutile che li frequentassi. Mi restavano pochi amici laici, liberi e seriamente consapevoli dell’Unità dietro il nome la forma, una di questi era Marisa Saetti, persona squisita che di tanto in tanto andavo a visitare nella sua casa antica, vicino alla sede del Partito Radicale, in pieno centro storico di Roma.
Un giorno Marisa mi disse: “Sai viene a trovarmi un Jnani (uomo di conoscenza), che vive in Svizzera ma di tanto in tanto passa da queste parti, si chiama Krishnamurti – ma non è quell’anti maestro dei teosofi- è Upalluri Gopala Krishnamurti, detto U.G. uno che sta per conto suo, sarà qui a pranzo da me domani, perché non vieni anche tu a farci compagnia?”.
Accettai l’invito e l’indomani mi ritrovai sulla grande terrazza, noi tre soli, Marisa, U.G. ed io, come ad un incontro fra persone qualsiasi, magari un po’ borghesi. Osservavo U.G. con la coda dell’occhio, un uomo di mezza età che pareva un impiegato di qualche ufficio pubblico di Bombay, vestito come un indiano occidentalizzato, pantaloni scuri, camicia bianca sbottonata sul collo e mi pare anche una giacca. Dopo le presentazioni alquanto formali ognuno pareva interessato agli affari suoi, io gironzolavo sulla terrazza, Marisa preparava il pranzo, U.G. se ne stava seduto in silenzio.
Non volevo assolutamente affrontare alcun discorso spirituale e perciò mi guardavo bene dall’attaccar bottone, ma con mia meraviglia mi avvidi che U.G. sembrava ancor meno di me interessato a chiacchierare, anzi non mi guardava nemmeno.
Ad un certo momento notai persino che sparì all’interno della casa. Memore di come fossi stato importunato in passato da tutti quei “maestri” e discepoli incontrati, che volevano trasmettermi i loro sublimi messaggi, restai un po’ perplesso dall’atteggiamento di Uppaluri Gopala.
Nel frattempo Marisa annunciò che il pranzo era pronto, chiedo di lavarmi le mani e Marisa mi indica il bagno, vi entro e mi accorgo che era già occupato da Uppaluri Gopala, mi sento un po’ in imbarazzo e faccio per uscire, vedo però che lui resta immobile, come in catalessi… Non avevo suscitato in lui alcuna reazione, non stava facendo nulla di speciale, era lì in piedi che guardava fissamente la vasca da bagno… a quel punto ritorno verso il lavello e mi lavo le mani con noncuranza, nel frattempo anch’egli sembrò uscire da quello “stato di sconnessione” e viene a sedersi a tavola.
Pranzo molto "inglese", non per il cibo -ottimo- cucinato da Marisa, ma per l’aria distaccata di tutti noi che mangiavamo con sussiego scambiando solo parole necessarie, tipo “vuoi ancora? – qui c’è l’acqua, etc.”. Decisamente sembrava che U.G. non volesse “convertirmi” a nulla, la mia curiosità verso quest’insolito maestro era stata risvegliata ma non “abbastanza” da fargli qualsivoglia domanda “spirituale”. In fondo di fronte ad un Jnani (un saggio) cosa si può dire se non parole vuote per lui e fuorvianti per noi?
Solo anni dopo, leggendo la sua biografia mi accorsi che quello era esattamente ciò che aveva voluto comunicarmi: “Sto parlando? Sto dicendo qualche cosa? E’ come l’ululato dello sciacallo, l’abbaiare di un cane o il raglio di un asino. Se riuscite a porre quello che dico allo stesso livello e sentire solo le vibrazioni siete fuori dall’inganno e non andrete mai più a sentire nessuno. Finito. Non si dovrebbe parlare di autorealizzazione. Voi realizzerete che non c’è la realizzazione, questo è tutto. Non esiste un centro, giusto c’è la vita che sta lavorando in un modo straordinario…”.
Paolo D’Arpini
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Di seguito una cernita di alcuni brani tratti dal volumetto L’inganno della illuminazione, conversazioni di Uppaluri Gopala Krishnamurti
“Tutto quello che fate rende impossibile l’esprimersi di quanto è già qui. Per questo io lo chiamo lo «stato naturale». Voi siete sempre in quello stato. Quello che impedisce a ciò che è già qui di esprimersi è proprio la ricerca. La ricerca va sempre nella direzione opposta, perciò tutto quello che considerate veramente profondo, tutto quello che considerate sacro, è una contaminazione di quella coscienza. Può non piacervi la parola «contaminazione», ma tutto quello che considerate sacro, santo e profondo è davvero una contaminazione. Così, non c’è niente da fare. Non dipende da voi. Non mi piace usare la parola «grazia», perché allora viene da chiedersi, «la grazia di chi?». Non si tratta di essere prescelti; capita, non so perché. Se mi fosse possibile, cercherei di aiutarvi. Ma questa è una cosa che non posso darvi, perché voi già l’avete. È ridicolo chiedere una cosa che già si possiede.
[...]
Non passo più il tempo a ricordare, preoccuparmi, concettualizzare e compiere tutte quelle cose mentali che la gente compie quando è da sola. La mia mente è soltanto occupata quando è necessario, ad esempio quando fare domande, o quando io devo sistemare il registratore o cose simili. Per il resto del tempo la mia mente si trova nello stato «disinnestato». Naturalmente adesso ho di nuovo la memoria – inizialmente era abolita, ora però è nuovamente presente – ma è come qualcosa che sta dietro, che viene in superficie solo quando è necessario, automaticamente. Quando non serve, non c’è nessuna mente, nessun pensiero, ma solo vita.
[...]
La coscienza è talmente pura che qualunque cosa facciate per purificarvi non fa altro che rendervi impuri. La coscienza deve sgorgare, per così dire: deve purgarsi da ogni traccia di santità e non-santità, da tutto quanto. Anche ciò che voi considerate «sacrosanto» è una contaminazione in quella coscienza. Non avviene attraverso una volontà da parte vostra; quando le barriere vengono distrutte, non attraverso uno sforzo da parte vostra, né per mezzo della vostra volontà, allora le chiuse si aprono e tutto scaturisce. [...] Lo stato di coscienza separativo non funziona più; c’è sempre lo stato di coscienza unitario, e niente può toccarlo. Qualunque cosa può arrivare – un pensiero buono, cattivo, il numero di telefono di una prostituta di Londra… [...] Quello che viene non ha nessuna importanza – buono, cattivo, sacro, profano.
Chi può dire: «Questo è bene; questo è male»? – è tutto finito. Si è come ricondotti alla sorgente. Ci si ritrova in quello stato di coscienza puro, primordiale, che potete chiamare consapevolezza o come vi pare. In quello stato le cose accadono, ma non c’è nessuno che ne sia interessato, che presti loro attenzione. Vanno e vengono così, come lo scorrere delle acque del Gange: acqua di fogna si riversa in essa, corpi mezzi cremati, cose buone e cattive, tuttavia quell’acqua resta sempre pura” (pp. 10; 35-36; 46-48).
Ricordiamo solo che qui, quando U.G. Krishnamurti parla di “nessuna importanza”, vuole intendere quello che si voleva significare per esempio con il termine “indifferenza” nei testi stoici antichi. Ovvero non come – così è usata oggi questa parola – sinonimo di menefreghismo, di secco e freddo distacco dal mondo, ma come benevolente e accogliente apertura a tutto, egualmente a ciò che, ancora in una prospettiva dualistica, si ritiene bene o male, buono o cattivo, da accettare e da rifiutare. Indifferenza: cioè non fare differenza. Nessuna importanza: cioè a ogni cosa, evento, situazione la stessa somma importanza. Tutto è sempre molto importante.
(Selezione dei brani di Gianfranco Bertagni)
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