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martedì 11 settembre 2018

La spiritualità naturale e le religioni dei "libri" sono cose diverse. La prima si riferisce al Sé le seconde alla concettualizzazione ideologica


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C'è una sostanziale differenza fra religione e spiritualità. La religione è l'aderenza alle norme e ai dogmi di una qualsiasi religione, quindi rappresenta un "atto di fede", cioè un "voler credere" e mettere in atto quei dogmi e quelle norme nella propria vita. Perciò essa appartiene al dominio della mente ed è opinabile. All'inverso la Spiritualità naturale è la scintilla cosciente che qualifica ogni essere vivente e che nell'uomo si manifesta in forma di "consapevolezza di sé". Quindi la Spiritualità è la vera natura dell'essere e non è condizionata da alcuna precondizione o adesione ad una etica, morale o dir si voglia. Nella tradizione Taoista questa spiritualità è definita "Tao", nella tradizione buddhista è chiamata "Sunya", nella tradizione nondualistica è denominata "Atma o Assoluto". 

Da ciò se ne deduce che la "spiritualità naturale", intesa correttamente, è per sua propria natura "laica" ovvero aldilà di ogni contestualizzazione religiosa. Quindi è impensabile che un membro di una religione possa esprimere "laicamente" la spiritualità relativa a quella religione. 

Vorrei ora chiarire il significato originario e concettuale di "spiritualità laica" che viene malamente indicato come un modo di esprimersi spiritualmente da parte di membri laici di una qualsiasi religione... In verità il termine laico derivante dal greco "laikos" sta a significare l'assoluta non appartenenza ad un modello religioso o filosofico, e persino politico. Perciò, ‘laico’ significa "al di fuori di ogni contesto socialmente strutturato". 

In verità la Spiritualità Laica sta ad indicare la "spiritualità naturale", la ricerca spontanea dell'uomo verso la sua origine, verso il significato misterioso della vita, tale anelito è indirizzato verso l'auto-conoscenza. Ad esempio la traduzione inglese di "laico" è "laymen" che significa "uomo comune" ed il termine inglese più prossimo ad esprimere il concetto di Spiritualità Laica è "awe" ovvero "meraviglia di Sé". 

Tanto per cominciare stabiliamo che "spirito" significa "sintesi fra intelligenza e coscienza". E quindi il suo "essere" non richiede alcuna conferma esterna. Ognuno afferma la propria esistenza sulla base della sua diretta esperienza di esistere e di averne coscienza. Non è necessario che alcuno ne dia conferma. 

Non è necessario "credere” nella propria esistenza per dire "io sono", lo sappiamo senza ombra di dubbio da noi stessi. Mentre per sentenziare l'assunzione di una fede o la mancanza di una fede non possiamo fare a meno di usare il termine "credo" oppure "non credo". Se ne deduce che l'essere ed esserne contemporaneamente coscienti è naturale ed inequivocabilmente vero, mentre sostenere qualcosa che ha il suo fondamento nel pensiero, cioè nella speculazione mentale, è solo un processo, un concettualizzare. 

Non voglio fare il difficile ma è ovvio che nessuno dirà mai "credo di esistere e di essere consapevole" mentre per qualsiasi altra affermazione (o forma pensiero astratta o concreta) dovrà sempre usare il termine "credo in questo od in quello … nella religione o nell'ateismo" od in qualsiasi altra cosa a cui si presta fede... 

"Io sono" è perciò la verità pura e semplice ed è qui vano spiegare le possibili ragioni di tale "essere" giacché questo procedimento esplicativo (o interpretazione) rientra solo nella speculazione ed è quindi opinabile. 

Affermare che la coscienza è il risultato della scintilla divina o il percorso casuale della materia che si trasforma in vita lasciamolo dire ai sofisti. "Io sono" è l'unico fatto incontrovertibile che non abbisogna di prova o discussione alcuna. Ed è su questa base che voglio restare. Non ha senso quindi mettersi a discutere sui "modi".....o sulle "ipotesi". Dico ciò per tacitare ed evitare qualsiasi contrapposizione sulla realtà del fatto contingente da me espresso (e tutti a mente serena possono esserne consapevoli). Questa è laicità dello spirito. 

La "Spiritualità", nel senso laico, è un semplice e banale "riconoscimento" dello stato spontaneo di ognuno di noi.... coscienza o conoscenza di Sé. 

Non parlo della conoscenza empirica riferita al "piccolo sé" ovvero l'ego, il nome forma che crediamo di essere. Anche se conoscere le caratteristiche incarnate, saper individuare le pulsioni che contraddistinguono la nostra persona, è sicuramente utile per non farci imbrogliare dalla mente, per non cadere nella trappola della falsa identità. Infatti tutto ciò che può essere descritto non può essere “noi”, ma solo la struttura funzionale del corpo/mente (nella quale ci riconosciamo). 

Questo apparato psico-fisico è il risultato della commistione di forze naturali (od elementi) e di qualità psichiche (che degli elementi sono espressione). Nella multiforme interconnessione di queste energie gli infiniti esseri prendono forma…. Anche se –in verità- non si tratta di “forze” né di “esseri” bensì di una singola forza e di un solo essere che assume vari aspetti durante il suo svolgersi nello spazio-tempo. 

Ma qui occorre descrivere la “capacità separativa” (maya – yin e yang) che produce l’illusione della diversità. Essa è il primo concetto che si forma nella mente (in effetti è la mente stessa) contemporaneamente all’apparire del pensiero “io”. Attenzione non si tratta dell’Io-Assoluto, l’Essere, ed esserne coscienti aldilà di ogni identificazione, si tratta invece del primo riflesso cosciente (di siffatto Io) nella mente e che consente l’oggettivazione e la percezione dell’esteriorità attraverso i sensi. In tal modo si attua il meccanismo dissociativo di “io sono questo” e quel che viene osservato “è altro”. Così il dualismo assume una sembianza di realtà e viene corroborato dalla causalità consequenziale alle trasformazioni che si srotolano nello spazio/tempo. 

Il processo formativo duale è di facile individuazione da parte dell’accorto intelletto (nel senso di attento) ma questa considerazione è ancora all’interno del riflesso speculare della mente, per cui dal punto di vista della Conoscenza Assoluta anche questa spiegazione (o comprensione) è futile, forse in necessaria e magari addirittura fuorviante… (a causa della tendenza appropriativa del pensiero speculare) e qui ritorno alla necessità di conoscere la propria mente per non rimanere ingannati dalle sue elucubrazioni empiriche, tese cioè a dimostrare una realtà oggettiva. 

Qualcuno potrebbe chiedersi a questo punto: “…Allora perché scrivere tutto ciò? Perché leggerlo?” - Ma la risposta è banale, talvolta noi prima di gettare l’immondizia sentiamo il bisogno di esaminarla in ogni particolare, in modo da non aver rimpianti dopo… Purtroppo, in anni ed anni di volo basso, tutti noi abbiamo sviluppato un forte attaccamento alla zavorra…!


Paolo D'Arpini - Rete Bioregionale Italiana

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domenica 16 settembre 2012

Beatrice Polidori: "Cogliere l'opportunità al momento giusto è tutto quel che possiamo fare... per crescere!"

Ananda Moy Ma 


Tutti quelli che si incamminano sul sentiero spirituale seguendo le istruzioni delle dottrine, le parole dei maestri, le pratiche tramandate, sono ammoniti che il cammino è irto di pericoli e che nessuno o solo pochissimi sono riusciti a compierlo senza l’ausilio di supporti e di istruzioni. In tutto questo c’è una buona parte di verità.

Però, se questo atteggiamento si fa preponderante, mettendo in ombra il ruolo fondamentale del ricercatore e del suo impegno, il risultato sarà quello di piegare la coscienza alla paura o alla dipendenza da figure esterne che ne produrrà l’insuccesso, anche con le migliori intenzioni. In realtà ciò che più di ogni altro elemento vincola la coscienza allo stato di nescienza è la paura.

E’ questo il sentimento con cui possiamo calcolare la profondità dei nostri attaccamenti, la potenza dei nostri fantasmi mentali, la debolezza delle nostre intenzioni. Se la paura diventa principio discriminante, lentamente ci troveremo in ostaggio della paura e lo spirito di ricerca soffrirà di irrigidimento, di chiusura e di senso di fragilità. Accanto ai continui inviti che dai testi dottrinari e dai discorsi dei santi invitano ad accostarsi solo a persone sante e sagge, meglio ancora a un maestro realizzato, una considerazione enigmatica rompe il convenzionalismo e indica una verità rischiosa: si può ottenere la realizzazione spirituale anche servendo un falso maestro, un truffatore. Così come un detto popolare recita: non esistono cattive madri, ci sono però cattivi figli. Queste parole sconvolgono la mentalità convenzionale dell’occidentale, che non si accorge di candidarsi ad una eterna dipendenza dalla “bontà” altrui.

Il solo luogo possibile della conoscenza spirituale è Dio – quell’Assoluto, indiviso, onni-pervadente, senza secondo; non vi è altri che Lui, che è l’Unità di tutto, Non-dualità. La coscienza di questa Unità è inizialmente una battaglia di principio che probabilmente è più feroce dentro la coscienza di un occidentale, che a qualsiasi principio accetti troverà una contrapposizione, cioè automaticamente disporrà il proprio orizzonte mentale a eleggere un principio a ideologia e disporre il resto in conflitto.

Perciò, se è vero l’assunto con cui siamo partiti, è ancora più vero che senza una presa di coscienza personale e trasformativa, cioè che scardini il principio duale della nostra mente, non è possibile parlare di alcun sostanziale conseguimento spirituale.

Se ci fosse possibile percorrere il camino senza sostegni ci troveremmo, come cantava Ashtavakra, a vivere semplicemente ogni cosa senza esserne scossi, a conoscerci già come puro conoscitore-inconoscibile e guardare la vita, gli dei, il cosmo e le istruzioni spirituali come uno spettacolo gioioso e tragico, fatto per essere ammirato, sofferto e dimenticato subito dopo.

La coscienza del ricercatore, invece, raramente parte da questo orizzonte, di più, solitamente è una coscienza contaminata dall’angoscia e dalla paura; quando ad angoscia e paura non si riesce più a dare un nome e una causa, finalmente si comincia a pensare che l’origine risieda dentro di noi e si stabilisce di lavorare con se stessi. Di fronte a questa radicale disfatta dell’io sul suo terreno è naturale che si prenda la decisione di affidarsi, di scegliere volontariamente che qualcuno ci possa manipolare e orientare.

Che cosa vince, in questo frangente, il bisogno di trovare una soluzione efficace ai nostri problemi o la paura di abbandonarci all’alto? Nel caso in cui la paura vinca sull’abbandono possiamo inferire che si abbia ancora troppo da perdere, o una valutazione di valore personale spropositata, cioè una tremenda fragilità dell’io.
Un io sano si fida. Per affrontare una istruzione nuova, un nuovo passaggio della propria vicenda spirituale occorre un io sano. In che senso si è sani abbastanza e di che cosa o di chi ci si fida propriamente? Un io sano è immediatamente quello che sa prendere le distanze da una mente malata, la propria, e che decide con freddezza e con serenità di aggiustare ciò che si è spezzato, inquinato o fermato.


Questa presa di distanza, che è la sola con cui si può prendere una decisione, è anche l’assicurazione di cui possiamo godere per il resto del cammino e la pratica che facilmente possiamo sviluppare nel tempo: la capacità di osservare le attività e le reazioni della mente con distacco, la pratica dell’Osservatore.

A questo punto sembrerà che inizio e fine coincidano: che importanza ha quello che mi accade se io sono già stabilizzato nella posizione dell’osservatore? Il problema sta nel fare in modo che si passi definitivamente e spontaneamente dall’osservatore di cose, fatti e misfatti, all’osservatore puro: alla contemplazione di Dio o alla pura consapevolezza di Sé. Cioè all’annullamento di qualsiasi differenza di io e tu e di qualsiasi diffidenza o paura che ne deriva.

Occorre perciò che la nostra pratica spirituale sia fonte di coraggio, non di ulteriori timori. Il coraggio sublime è la fiducia, non negli altri, non in qualcuno, non in una idea, non in un modello: la fiducia deve provenire dalla costante meditazione dell’Unità del divino, dell’unità tra Realtà e Dio, in cui l’unica componente estranea sono le divisioni e le paure sovrapposte dal comune pensare. Chi ha Dio nel cuore non cade. Ecco perchè un cattivo maestro vale come uno buono, se la coscienza è saldamente concentrata sulla Realtà Divina, se si è totalmente innamorati di essa.

E’ impossibile, si dice, truffare un uomo onesto. Perchè la coscienza sia così saldamente protetta e inattaccabile dalle malvagità che irrompono nel mondo della vita religiosa, come in ogni altra iniziativa umana, la sola difesa certa è la purezza. Non precipitate nella fretta di raggiungere degli obiettivi; una purezza superiore, dove decadano anche i gradi di discriminazione tra puro e impuro verrà a suo tempo e con i costi esistenziali relativi. Probabilmente c’è tempo e ci sarà modo. Osservate attentamente le piccole incrinature del vetro della mente da cui potrebbe penetrare l’inganno, ovvero l’auto-inganno. Si identificano in due grandi gruppi: la paura di soffrire e il desiderio di soddisfazione.

Queste sono le battaglie da vincere per raggiungere una coscienza davvero limpida, capace di contemplare Dio in ogni frangente della vita, persona o cosa. In questo momento storico è particolarmente difficile combattere le istanze della paura e del desiderio, per le sollecitazioni continue a desiderare e a temere.

Ma forse la saturazione che alcuni provano, il desiderio di vivere diversamente, possono guidare fino ad un certo punto, almeno oltre la paranoia e il superfluo. Poi occorre sciogliere quelle convinzioni che ci fanno credere di essere soggetti di un diritto/dovere alla paura e al desiderio – così che si possa cominciare a guardare la propria vita liberamente, cioè con vero distacco dai frutti, dal bene e dal male che ne ricaviamo.

Se c’è un pericolo nella nostra storia spirituale è costituito dalla debolezza e dal menefreghismo con cui ci trattiamo, trattiamo noi stessi, inettitudine che ci porta a ritrovarci “vittime” di circostanze avverse, persone o fatti. Ci sono dei prerequisiti, ben noti, che Shankara indicò per stabilire chi è idoneo a sostenere un cammino spirituale, senza mettere nei guai se stessi e gli altri, e sono: discriminazione tra reale e irreale, distacco dai frutti, possesso delle seguenti qualità: mente calma (sama), autodominio (dama), raccoglimento interiore (uparati), perseveranza (titksa) fede (sraddha), stabilità mentale (samadhana), aspirazione alla Liberazione.

Questi principi si devono considerare con la massima attenzione e impegno. Con il possesso di questi criteri si può affrontare molto, o tutto, restando sostanzialmente indipendenti, cioè non-dipendenti psicologicamente e moralmente, perfino servendo nelle condizioni più umili, anche nelle circostanze più difficili da controllare. Il conseguimento di questi requisiti occupa una parte prevalente del cammino spirituale.

Si cade in inganno quando si crede di potersi permettere un condono sul proprio impegno, dove si vuole avere tutto subito a basso costo o a costo zero. Come nella vita, qui scatta il pericolo della truffa.

Ma tutto ciò che sentiamo necessario va sperimentato con fiducia.

La strada non è razionale, non percorre i limiti del perbenismo e del dualismo.

Quando un’istanza si presenta, se ne colga l’opportunità, finché anche questa si riesca ad integrare nella Unità del Reale, nel suo continuo discorso, nella istruzione ininterrotta che ci rivolge e che qualcuno ha giustamente definito Amore. Si può cogliere l’opportunità di imparare e di liberare energie in qualsiasi circostanza – il centro e il perno del gioco siamo noi, è la coscienza che ci anima- e perciò diciamo che qualsiasi cosa può essere uno strumento di Dio.

Si tema solo la propria incertezza, la pigrizia mentale, il disimpegno, questi sono i veri truffatori dello spirito. Qualsiasi cosa ci dia l’opportunità di recuperare una parte del nostro sapere, dell’energia spirituale che normalmente rimane assopita a macerare nell’ombra, apprezziamo e ringraziamo questo evento, sotto qualsiasi nome o forma si presenti.

Beatrice Polidori



(Fonte: Turya - http://blog.visionaire.org/)


mercoledì 16 novembre 2011

Il limite della razionalità e del dualismo della fede religiosa….

Salto della corda al suono di chitarra di Chiara Ferrara



A commento dell’articolo “Libertà dal dualismo nella spiritualità laica”: http://bioregionalismo-treia.blogspot.com/2011/10/liberta-dal-dualismo-nella-spiritualita.html


Scrive Giuseppe Turrisi:

La necessità di “ridurre e dare delle spiegazioni” sta proprio nel distacco che la lo spirito intelligente ha nel momento del concepimento una parte del tutto si contestualizza un un modulo storico. La singola parate ancestralmente sa di appartenere al tutto e quindi nelle condizioni ristrette dello spazio tempo tende in continuazione (ascesi) a ricongiungersi con lo spirito intelligente infinito di cui fa parte e cui inevitabilmente tende. la razionalità è un piccolo strumento che la natura umana possiede per non incorrere nella follia della complessità da cui ha origine e a cui tende. Dall’altra parte la razionalità è lo strumento più alto per governare le cose del mondo, ma di fatto questa razionalità è il suo limite. Il suo limite finche si pone il limite della spiegazione più tosto che quello della descrizione.

Sarebbe incomprensibile alla piccola natura della razionalità umana “spiegare” perchè mai di una cosa che si dice non esista per esempio dio via siano immense discussioni scritti in ogni era ed ogni popolo. infatti si entra nella sfera della pura descrizione scientifica ( enon della spiegazione) per cui certi eventi sono certamente possibile ma razionalmente inspiegabili limite dello strumento “ragione” che la mente umana possiede per accertare il proprio contesto e generare le proprie rappresentazioni, poichè poi succede che molte singole rappresentazioni coincidano in un ologramma comune la comunità genera l’idea di una entità superiore a cui loro stessi appartengono ma che lo strumento della razionalità non riesce a misurare e spiegare.

A questo punto poi anche attraverso il linguaggio e la comunicazione, altra sfera di secondo livello di rappresentazione (il primo è quello ideale il secondo e dare all’idea una immagine e poi un suono per riconoscerla e poi comunicarla) nasce una letteratura spirituale che renderà memoria a posteri di queste rappresentazioni soggettive che prenderanno poi la forma del “dio” specifico, nella relazione prima relazione circolare in cui il soggetto cerca la sua provenienza dall’infinito e la comunica al suo simile e quindi alla comunità, a sua a volta la comunità cresce il singolo individuo nella ricerca dell’infinito. L comunità genera questa rappresentazione come cultura e come rito per affermare la propria ricerca d’infinito (seme dello spirito intelligente) ma allo stesso tempo questa rappresentazione (per millenni) genera la stessa comunità ed i singoli individui.

Tutto questo rivestito di un linguaggio appropriato poi diventa ora questa religione ora questa credenza ora questo culto. Tale organizzazione intellettuale e sociale poi è diventato strumento di potere per gestire ogni sorta di cose (la storia è piena). Ma innegabile come indimostrabile rimane la ricerca dell’infinito di cui ne possediamo le caratteristiche ma non ne disponiamo le spiegazioni.


……….

Scrive Alex Focus:

Mi sembra che attorno al dualismo tra Razionalità e Fede, come tra Scienza e Religione, come tra Spirito e Mente si facciano una serie di “capriole” intellettuali che hanno la pretesa di “credere” nella scienza o di “spiegare” la religione… il che non ha molto senso. Scienza e religione sono come due delle minimo tre gambe che deve aver un tavolino per reggersi, la terza essendo il buon senso che, di volta in volta, può far scegliere ognuno di noi se poggiarci più su di una gamba o sull’altra. Ogni volta che i sistemi sociali (sotto la spinta di un’ubriacatura ideologica) hanno cercato di scacciare l’inestirpabile bisogno di religiosità che è nell’uomo, le società (per quanto nate sotto i migliori presupposti razionali) sono degenerate in tirannie, cioè governi contro il popolo e, comunque, la religiosità buttata fuori dalla porta (ad esempio con la svalutazione, l’abbandono dei culti tradizionali), è tornata dalla finestra, attraverso la nascita di movimenti pseudo-religiosi (vedi la New-Age di ispirazione massonico-sionista, negli anni ‘80-’90). Il dualismo non è una limitazione, è “un’opportunità”…

giovedì 6 ottobre 2011

Categorie di pensiero e categorie di esperienza nella spiritualità laica: ateo – teista / agnostico – gnostico

Paolo D'Arpini che osserva il vuoto
 
 
Il linguaggio non è solo semantica. Eppure c’è già all’interno della mente un “seme” che consente la comprensione di concetti sottili, che non hanno corrispondenza nel mondo materiale.
 
Ad esempio quando un bambino apprende a parlare ed a scrivere, non segue solo esempi concreti: tavolo, cibo, cane, etc... Vi sono pure i concetti e sentimenti che vengono “riconosciuti” intuitivamente, per una sorta di ammissione interna che va aldilà dell’esempio.  In questo caso si presuppone che vi sia già una pre-conoscenza innata di tali concetti, il linguaggio insomma non è altro che descrizione di un qualcosa che abbiamo già dentro. La stessa cosa si può dire della conoscenza di vita.
 
La vita nasce dall’inorganico ma se non fosse già presente nella materia in forma germinale come potrebbe sorgere e trasformarsi in intelligenza e coscienza? Da ciò se ne deduce che la coscienza e l’intelligenza sono come una “fragranza” della materia e quindi non vi è reale separazione.
 
La differenza è solo nella fase…
 
La vita è un’espressione manifestativa nella materia. Partendo da questa considerazione generale osserviamo che la spinta evolutiva di questa intelligenza/vita si evolve attraverso stati diversi di consapevolezza. Nelle forme pensiero esistono gradi descrittivi della maturità assunta da questa intelligenza.
 
Tralasciamo per il momento gli aspetti più vicini all’emozionalità, all’istinto, e prendiamo in considerazione solo gli aspetti “filosofici” del pensiero umano.  Osserviamo che sia in occidente che in oriente vengono descritti gli aspetti separativi e unificativi del processo mentale (solve et coagula ovvero: “il credere è statico lo sperimentare dinamico”).
 
In Grecia come in India si è parlato di pensiero duale e pensiero non-duale.  Nel pensiero duale (dvaita) viene inserita ogni forma cristallizzata separativa, come il teismo e l’ateismo. Queste due categorie infatti sono viste come sfaccettature della stessa conformazione separativa.
 
Il teista è colui che crede in un dio separato da sé, lo immagina in veste di essere superiore e dotato di immensi poteri e vede se stesso come creatura alla sua mercé. Il teista crede che la sua propria esistenza è consequenziale e secondaria al dio.
 
L’ateo parimenti, crede di non credere, ovvero nega ogni sostanza all’ipotetico dio basando il suo credo sul relativismo materialista.
 
Il teista e l’ateo sono arroganti affermativi della propria “verità” (presunta od immaginata).
 
Ovviamente entrambe queste fedi si basano sulla piccolezza e separatezza dell’io ed abbisognano di uno sforzo continuo e costante per affermare o negare, un tentativo frustrante che comunque non prende in considerazione l’agente primo, l’io, se non in forma passiva e marginale. Questo modo di pensare duale è lo stesso sia per il religioso che per l’ateo materialista che crede in causa-effetto o nella fortuità del caso. E’ un percorso puramente speculativo, basato comunque sul credere, sul ritenersi piccoli elementi separati di un qualcosa che magari pian piano la scienza (o la religione) corroborerà.
 
Ma sappiamo che l’orizzonte è sempre più avanti… mai raggiungibile, insomma siamo persi nel nulla…. Nel vuoto.
 
La fase successiva dell’auto-conoscenza si definisce non-duale (advaita), in questo caso si inizia a tener conto del soggetto, della coscienza attraverso la quale ogni percezione e sentimento sono possibili, si riconosce nella consapevolezza la matrice della propria esistenza. In questa categoria si pongono l’agnostico e lo gnostico.
 
Alla base della ricerca dell’agnostico si pone l’esperienza diretta ed il superamento della concettualizzazione descrittiva. L’esperienza empirica viene portata alle sue estreme conseguenze con il riconoscimento della costante presenza dell’io nel processo implicato. Viene superato così il modello del credere in verità precostituite accettando la realtà intrinseca dello sperimentatore che esperimenta. Per cui l’agnostico esprime sostanzialmente una spiritualità laica.
 
L’agnostico sa che non può esserci altra certezza che quella dell’esperimentatore ma allo stesso tempo non vi è ancora realizzazione definitiva. La coscienza individuale non si è fusa nella coscienza universale benché permanga l’intuizione dell’unità primigenia del tutto. Stando così le cose egli non può affermare, egli dice di non sapere, la sua è una saggezza in fieri, in maturazione.
 
L’agnostico non può più identificarsi con un nome forma specifico ed allo stesso tempo manca della consapevolezza indifferenziata del sé e quindi non afferma e non nega. Ma il suo costante e continuo discernimento giunge infine ad una inaspettata e spontanea fioritura, e qui l’intelligenza individuale si scioglie e giunge a maturazione, la coscienza conosce se stessa, la gnosi (jnana).
 
Lo gnostico (jnani) non sente il bisogno di dichiarare alcunché, la sua realizzazione è totale e definitiva, aldilà di ogni concetto separativo, la sua presenza non è limitata ad un nome forma, egli conosce se stesso come il tutto inscindibile dal quale ognuno di noi proviene e risiede.
 
Lo gnostico d’altronde non ha mezzi per esprimere la sua esperienza giacché il linguaggio umano è molto distante dall’esperienza diretta del sé.
 
Infatti prima c’è la consapevolezza del sé, poi la coscienza dell’io individuale che assume una forma nello specchio della mente, quindi la riflessione del pensiero ed infine la descrizione del linguaggio parlato o scritto. Il saggio non vede differenza alcuna fra se stesso e gli altri, sa che la base è la stessa per ognuno (materia-spirito in continua trasformazione), egli “conosce” che la coscienza e l’esistenza sono inscindibili nell’assoluta unità (uno senza due).
 
Ma la sua esperienza -che è la comune natura di tutti- può essere riconosciuta e percepita per spontanea simpatia dallo spirito maturo.
 
In questo processo a quattro fasi, fra dualismo e non-dualismo, si manifesta tutto il gioco della vita e della coscienza
 
Paolo D'Arpini