venerdì 11 ottobre 2019

Discorso sull'agricoltura bioregionale di Alberto Grosoli


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Mi è arrivato un  messaggio con un recente articolo  dal titolo “Bioregionalismo e l’agricoltura del non fare”:  https://bioregionalismo-treia.blogspot.com/2019/10/bioregionalismo-e-lagricoltura-del-non.html
La lettura mi ha provocato una reazione e un relativo commento torrentizio, avrei potuto tranquillamente ignorarlo e continuare a vivere tra i miei campi, prati, boschi e animali, ma mi sento di dover questa volta replicare con questo che mi permetto di inviarti di seguito:

“Ah! Fukuoka!

Eccone un altro. Di quelli che hanno letto la bibbia del “non fare” e si sono illuminati, hanno capito tutto del come ricavare alimenti dalla natura senza dover far fatica, arare, zappare, sarchiare e diserbare e, molto probabilmente e verosimilmente, senza aver mai toccato terra.

Che bello, fantastico! Dopo 10.000 anni, da quando non siamo più cacciatori e raccoglitori, abbiamo finalmente risolto il problema fondamentale dell’umanità, quello di procurarci il cibo! Che antenati stupidi e ignoranti che abbiamo avuto, che hanno faticato per generazioni  e generazioni e per nulla poi!

Sumeri, Babilonesi  e Persiani, Indo-Ariani , Egizi, Cartaginesi, Greci e Romani, e poi tutti gli agronomi, agricoltori e contadini dal Rinascimento all’età dei Lumi, la scuola Umista, quindi i nostri “biodinamici” e “biologici”, da Steiner a Draghetti, mio padre, mio nonno e mio bisnonno, io stesso: nessuno di questi ha mai compreso finora quello che oggi qualcuno va sbandierando a quattro gatti come una grande rivoluzione, nessuno, in 10.000 anni di storia dell’agricoltura ci era mai arrivato prima !

Cancelliamo quindi tutta l’esperienza e tradizione umana della sopravvivenza in natura, coltivando ed allevando, ben diversa dal farci profitto,  in un sol colpo di spugna, perché l’ha detto un eccentrico giapponese e altri stravaganti a ruota a copiarne e incollarne i concetti, salvo poi che pochi o nessuno, pare, li metta veramente in pratica.

Vorrei chiedere a tal proposito a  personaggi come questo che ha scritto l’articolo o sostengono tali idee ( non è certo il primo che sento in tanti anni e Fukuoka l’ho letto a fine ’70, era nel mio zaino quando vivevo nelle comuni rurali , prima edizione dei Quaderni di Ontignano) se si nutrono e mantengono seguendo quanto predicano, ossia se mai abbiano un pezzo di terra in cui mettere direttamente in pratica e sperimentare sulla propria pelle  e portafoglio queste strabilianti conoscenze e, non ultimo, da quanto tempo lo fanno;  per poter poi, con cognizione di causa, pontificare di tali arcadiche ed idilliache utopie, introdotte dal solito infantile “se tutti facessero cosi”, quando in realtà tutti o quasi, al mondo, fanno altro, vivono nelle città  e di altre occupazioni, non ultimo hanno bisogno di alimenti che qualcuno, non loro, produce per loro.

In secondo luogo vorrei chiedere  se questi orti-frutteti spontanei “no digging” producano davvero tanto da poter nutrire anche altri esseri umani oltre sé stessi ( quale è da sempre la funzione sociale ed economica degli agricoltori, o siamo al totale individualismo asociale egocentrico) e se sono in grado anche magari di fare un qualche mercatino contadino almeno, o scambiare i loro prodotti (pardòn : i prodotti della natura così rispettata quanto in tal modo generosa );  non dico rifornire anche negozi o ristoranti, ma almeno potersi mantenere pur in dignitosa povertà, come noi comuni e mortali piccoli  bio-agricoltori  che ci facciamo un bel culo a tirare avanti la baracca, di nulla non vive nessuno, neppure i respiriani se non di libri, video e convegni.

E,  altra domanda, sarei veramente curioso e anche interessato a visitare uno di questi meravigliosi eden in cui si produrrebbe ottimamente in modo così naturale, senza far fatica, senza dover rivoltare la terra, metterci del letame e allevare per questo anche le mucche e le galline, fare sovesci, zappare, sarchiare, diserbare e  potare, liberi dalle catene della schiavitù del lavoro e della gleba, per non dire dal mercato globale neoliberista : fosse vero smetterei subito di fare il bio-contadino ignorante  e sottosviluppato, antiprogressista, quale articoli come questo mi fanno apparire, come uno zotico scemo,io, i miei padri e tanti altri,  e mi offrirei senz’altro volontario in cambio di vitto e alloggio, gratuitamente sino alla fine dei miei giorni, so lavorare con le mani a far un po’ di tutto, basta che non sia in Giappone o al terzo cielo dove gli angeli avevano innalzato il profeta Enoch.

Siccome sono cose queste che circolano da anni, l’idea che me sono fatto, nel tempo e alla luce della mia esperienza pratica di vivere dei frutti della terra e del mio lavoro in natura (conduco da decenni non solo di lavoro ma anche di studi, ricerche e sperimentazione una piccola azienda agraria  organica ossia un ecosistema coltivato ad agricoltura permanente), è quella che la loro diffusione sia funzionale a quel potere stesso cui si imputa ogni male, nel senso che i risultati di tali pratiche , bel lungi dall’essere soddisfacenti dal punto di vista della produttività ai fini di ricavarne anche solo una sopravvivenza , per non dire un piccolo reddito , arrivano a sfiduciare chi ne abbia intrapreso pur con ingenuo entusiasmo la pratica, a prescindere da soddisfazioni morali o spirituali che nutrono solo la mente e l’anima e comunque ci sono lo stesso anche a far altre pratiche e sistemi . Queste romantiche suadenti stramberie infatti non rappresentano alcuna minaccia per il sistema, nessun tipo di concorrenza,  improduttivi quanto inoffensivi quali sono.

Trovo inoltre che l’approccio alla vita di campagna  partendo da utopiche, arcadiche ed idilliache fantasie ancor prima che idee in qualche modo strutturate e fondate anche scientificamente, per quanto ammalianti nei loro enunciati e propositi difettino sia di vere conoscenze agro-ecologiche che storiche, facendo tabula rasa su cui costruire il nulla dal nulla, con il risultato di delusioni  e sonori fallimenti che poi fanno rientrare nel “sistema “ con la coda tra le gambe, perché la realtà, anche quella di natura, per quanto vorremmo fosse come pensiamo o ci illudiamo, è quella che è. L’attenzione posta su quest’agricoltura “del non fare”, o “naturale” che dir si voglia male interpretata, distrae ed occulta altri sistemi di agricoltura organica altrettanto “naturali”, ma nei quali e per i quali il “non fare” è una ridicola stupidaggine, perché la vita e il lavoro in natura non sono una passeggiata tra  boschi da cui pendono  frutti spontanei e noi dobbiamo solo allungare la mano per raccogliergli, facendo poco o nulla.

È  vero senz’altro che è la natura a far tutto, a far germogliare semi e far nascere animali, a creare humus fertile di prateria anche senza l’intervento umano e che noi agricoltori consapevoli ne dirigiamo solamente le energie e le dinamiche, ne ottimizziamo i processi ai fini di una massima produttività a nostro vantaggio.
Ma la natura selvatica in sé non ci nutrirebbe, se non di caccia, pesca e raccolta di scarne bacche, radici, piccoli e amari frutti, in ecosistemi naturali in cui potrebbero a malapena oggi sopravvivere poche decine di individui seminomadi al seguito delle transumanze dei grossi ruminanti, bufali, bisonti e uri nelle praterie fluviali pascolate,  ma non è più il tempo e tutto questo non esiste più, neppure bufali, bisonti e uri.

E non lo era nemmeno più 10.000 anni fa, quando l’ingegno e la necessità umana inventò  l’arte e scienza  di coltivare i campi e allevare in funzione di essi il bestiame, per quel letame la cui etimologia  significa “ciò che rende fertile la terra”, che crea l’humus agrario del tutto identico all’humus delle praterie, e cosi diverso da quello acido delle foreste e solo vegetale.  Un’arte e scienza “magna”, l’agricoltura, come scrisse Varrone oltre 2000 anni fa,  “affinché la terra produca in perpetuo abbondanza di frutti”. Il simbolo ne è la cornucopia, il corno bovino dal quale fuoriescono tutti gli alimenti umani.

I neofiti aspiranti “contadini” i quali dalla vita, mentalità e cultura urbana  anelano al ritorno “alla natura” e  alla vita naturale,  nella loro ricerca su internet  e su libri e articoli, sovente armati del pregiudizio delle “immonde devastanti pratiche agricole” perpetrate ai danni dell’ambiente, degli animali e delle piante, siano esse tradizionali, bio o convenzionali, approcciano inevitabilmente in prima istanza agli slogan suadenti dell’agricoltura del “non fare”, dell’orto sinergico, dell’orto in “permacultura”; ignorando pure in quest’ultimo caso che la cosiddetta “permacultura” quella originale di Mollison e Holmgreen è  un design molto più complesso di modelli e sistemi di agricoltura permanente, non certo riducibile ai minimi termini del fare una spirale di erbe aromatiche e due aiuole per occupare il tempo libero e sentirsi per questo più “sostenibili”.

Un conto è poi vivere o andare a vivere “in natura” con una qualche rendita o diverso reddito, per cui farsi l’orto frutteto “naturale” o il “forest garden”, pure l’orto sinergico così trendy è solo un improduttivo trastullo, per ricavarne scarni raccolti, che certo non coprono un fabbisogno e nemmeno producono un surplus,  un altro è per trarne direttamente la propria sopravvivenza materiale, senza per questo aver scopi di profitto o di sfruttamento della natura e,  in quest’ultimo caso, pur rispettando al massimo l’ecologia di boschi,  praterie e coltivi,  i ruoli e le funzioni reciproche di piante ed animali selvatici e domestici che creano la catena alimentare, la vita del suolo e la sua fertilità naturale, godere anche allo stesso tempo dei colori, profumi, sapori e aromi di una campagna sana e viva, certe idee, teorie ed bio-ideologie arrivano inevitabilmente a decadere  e frantumarsi di fronte ad una realtà come quella veramente naturale che esiste in sé a prescindere di come possiamo pensare che sia o possa essere  oltre ogni fantasia ed ideologia.

Tirando le somme, vorrei dire a tutti questi che credono si possano ricavare dalla natura gli alimenti necessari alla nostra sopravvivenza con il “non fare” di predicatori copia e incolla, di provarci e  di mettere in pratica questi metodi e sistemi “rivoluzionari”, cazzi vostri e non miei alla fine,  personalmente non me può fregare di meno, provare per credere e non il contrario, ossia credere senza provare,  e vedere se veramente in questo modo si possa veramente sopravvivere e non dico guadagnare anche mozziconi di pane quotidiano: comunque tranquilli, c’è sempre un qualche “contadino bio” o mercatino nei dintorni, e per i più radical chich anche un NaturaSi, come poi alla fine fanno tutti quelli che dicono : ah! Fukuoka !.

Questa non è cultura, “agri-cultura”, neppure “contro-cultura” o “agricoltura permanente”, ma sterile “sottocultura” , voli di fantasia  dei figli di questo sistema e società capitalista ammalata nel cervello come ammalato è l’ambiente urbano e rurale, infelici per il paradosso di Easterlin, che hanno bisogno di immaginazione, per sentirsi a posto con la loro coscienza ma raccontando balle a sé stessi e agli altri, dal divano di casa, con la tessera del WWF per salvare i panda in Cina.

Un caro saluto, Alberto Grosoli

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