Stocastopia? Stocastica? Può andare? Distopia non basta più. Questa rispettava e riferiva lo scorrere del pensiero analogico. Con il digitale l’unità di misura è cambiata, ma non nel senso di modificata, bensì in quello di alterata. Nel tempo stocastopico il tempo e le distanze dell’informazione, della circolazione di parole e immagini, sono annullate e percorse senza fatica, ma anche presenti e un istante dopo sparite. Anche il più sagace nostromo perderebbe la bussola in questo mare di sponde virtuali
Non vedo diversità spirituali tra la guerra per esportare democrazia e un atto terroristico. Ne vedo invece nella cronologia. È venuta prima la violenza di stato o quella dei tagliagole, bombaroli e martiri?
Ne vedo anche nella concezione, così magistralmente inseminata tra le zolle dei popoli, che sono proprio questi a chiamare giustizia la violenza di stato e assassinio quella privata.
Ne vedo anche nella forma e, nonostante la vedano tutti, l’incantesimo riesce ancora nel suo intento, tanto da nasconderne la sostanza, la brutalità, il preteso monopolio.
Per quanto l’essere violento sia un momento dell’essere umano, vedo come l’impiego della violenza sia culturalmente alimentato. L’imbocco al popolino bisognoso di emozioni non solo sussiste, ma cresce. La ragione commerciale vince a mani bassi la gara nel circuito del liberismo. Vendere e far comprare sono il concorrente e l’arbitro che, inconsapevolmente governa la partita costringendo noi tutti alla regola del mercato capitalista. Hollywood, una delle sue motrici, ce lo rende evidente. Basta guardare nei suoi menù la percentuale di brutalità complessiva rispetto all’intera produzione. In quel modo, inoltre, propaganda una certa morale manichea tra buoni e cattivi, alimenta il principio statunitense del Destino manifesto, elegge e coltiva miti ed eroi nazionali, mangime sempre nutriente da gettare nel cortile dei semplici.
Vedo differenze tra la violenza delle istituzioni e quelle individuali e settarie nel gradiente di brutalità e di sofisticazione. Ma evidentemente non è prospettiva condivisa. Così, le bombe di Hiroshima e Nagasaki da imperdonabile marchio bastante a bandire chiunque dalla comunità umana, risciacquate nell’emolliente dell’incantesimo sono divenute opera di civiltà. Il destino del candeggio nella bacinella non appartiene al giubbotto esplosivo, non è disponibile per chi sta soffocando sotto il peso delle norme che non gli appartengono, dei valori che gli sono imposti.
Così, il popolo del vecchio continente, per quanto allibito dalla politica dell’Unione Europea – titolo di un non stato, nome di un corpo senza suffragio, ente senza un’anima che non sia merce – si vede costretto ad assistere a ciò che pare più una pièce teatrale, buona per sbeffeggiare e surclassare il Dottor Stranamore, Orwell, Huxley e Zamjatin messi insieme, che una realtà che con la ribalta non ha nulla a che fare. Al blasfemo spettacolo dell’élite politica corrisponde, però, una popolare realtà sanguinante. Se dai palchi del teatro di guerra signore ingioiellate e impeccabili frac applaudono, la plebaglia in platea vomita e incredula si dispera. È consapevole che il suo potere dall’urna è passato allo scontrino, che qualuque buuuuuu di tifoseria non conta nulla, tranne che lo si rivolga a un negro, allora c’è l’arresto.
[Negro per alcuni è razzismo o fatti del genere, che riguardano solo il pensiero ideologizzato, per altri non lo è per niente. Come mamma e papà, surrettiziamente in via di eliminazione o equiparazione con genitore uno e genitore due; e con quale geniale criterio sentirsi uno o l’altro?]
È consapevole che prima, anche se votava il piccolo partito, manteneva il suo status di cittadino e che ora, se non compra da far scoppiare la casa, ammesso ce l’abbia, non conta niente e che quando scoppierà non conterà comunque niente.
Fino a ieri, mai nessuno di quella platea, neppure sotto tortura dell’immaginario, avrebbe potuto ipotizzare ciò a cui sta assistendo. Una platea resa impotente soprattutto dall’inerzia accondiscendente dei suoi simili in Bmw e Suv elettrico. Quelli che si sono risentiti per lo sterminio degli indiani, ma continuano ad andare a sciare, ridendo di quello dei loro simili, perché non vedono che baionetta e winchester non sono differenti dalle incruente ma soggioganti armi digitali e circonvenzionanti di ora, che compiono lo stesso sterminio compiuto da quelle bianche e da fuoco.
Quelli che non vedono né considerano l’invasiva instillazione capillare dello stile e dei valori occidentali nelle culture fiorite da alberi differenti da quelli che hanno generato il liberismo, il capitalismo, il materialismo, l’individualismo.
Quelli come i progressisti di sinistra e di destra, per i quali si può accettare e considerare ordinaria la demolizione programmata delle tradizioni identitarie piccole e grandi.
Quelli per cui si può mettere la testa sotto la sabbia e dire di non aver visto il potere che abbiamo dato a entità che per esser spiegate e ammesse richiedono, prima di ogni altra operazione, il dimenticarsi della giustizia sociale, dei servizi sociali.
Quelli per i quali siamo in democrazia, sennò, vai in Russia!
Mai nessuno avrebbe pensato di arrivare ad applaudire Luigi Mangione, a pensare che quell’atto di giustizia individuale fosse anche un atto di giustizia sociale. Ma un passo alla volta si arriva ovunque. E mai nessuno, fino a ieri, quando i tentacoli della democrazia arrivavano fino a noi a trastullarci di buoni pensieri e di giusti propositi, avrebbe pensato che il solo antidoto all’incubo di questo presente, e allo spettro del suo futuro, sarebbe stato un altro Luigi che si sacrificasse per tutti noi impotenti, staccando all’Unione Europea la testa di cobra in forma di donna e la sua prole di serpi apolidi.
Lorenzo Merlo
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