venerdì 28 marzo 2025

Poveri ma vivi e vegeti...!

 


Nell’immaginario collettivo la parola povertà genera angoscia e spavento perché viene associata erroneamente ad una condizione negativa come l’indigenza, la fame, il freddo e gli stenti. Basterebbe restituire alle parole il loro vero significato per evitare fraintesi, per cui sarebbe più corretto associare quelle condizioni negative alla miseria e non alla povertà.

Povertà e miseria non sono sinonimi, come comunemente si crede, ma con esse si definiscono condizioni molto diverse. La prima è una libera scelta che con altre parole potremmo definire sobrietà, mentre la seconda, la miseria, si subisce e non si sceglie. Essa è spesso la conseguenza di un sistema socio – economico fondato sull’ingiustizia e sulla disumanizzazione.

A chiarirmi questi concetti è stato uno dei massimi teologi medioevali Tommaso D’Aquino che affermava: “La povertà è la mancanza del superfluo, la miseria è la mancanza del necessario”.

Premesso che resta da capire cosa è necessario e cosa è superfluo per ciascuno di noi, possiamo affermare sulla scorta della definizione dell’aquinate, che la povertà è una scelta verso l’essenzialità, di chi cerca di soddisfare i suoi reali bisogni e li sa discernere dai suoi desideri spesso indotti e artificiali. Proprio perché i bisogni sono essenziali, anche i mezzi per soddisfarli sono semplici e non richiedono sforzi sovrumani per procurarseli.

Questo processo di liberazione da tutto ciò che non è essenziale ci fa comprendere meglio la natura strumentale dei mezzi che vengono utilizzati e che non vanno confusi con i fini che s’intendono perseguire. E’ importante comprendere questa distinzione per non cadere nell’attaccamento e nella possessione dei mezzi che generano dipendenza a scapito della libertà.

La scelta di una vita semplice e frugale ci permette di riappropriarci del nostro tempo, che non è denaro, come recita un famoso proverbio inglese, ma uno spazio temporale sottratto alla mercificazione e alla speculazione dell’utile. Mentre il tempo diventa denaro quando l’obbiettivo che si persegue è la ricchezza perché si è convinti che con i soldi si possono soddisfare non solo bisogni e desideri, ma anche ottenere prestigio e potere.

In molti si sobbarcano le classiche fatiche di Ercole sacrificando il tempo per soddisfare i desideri. E non di rado, una volta raggiunti, molti rimangono talmente delusi che non si chiedono nemmeno se valeva la pena investire quel tempo e quelle risorse per soddisfarli.

E ora, vorrei fare qualche riflessione sul vangelo, in particolare sul famoso discorso della montagna in cui la povertà diventa la prima di una serie di beatitudini. In un mondo in cui la ricchezza è venerata come una divinità, affermare che i poveri sono beati rappresenta una blasfemia.

Mi chiedo perché Gesù di Nazaret disse quelle parole aggiungendo che di essi è il regno dei cieli? A mio avviso la prima beatitudine non riguarda una povertà fine a sé stessa avulsa da un fine, ma è una scelta liberante e propedeutica per vivere le altre beatitudini.

Liberarsi da tutto ciò che è superfluo e non essenziale alleggerisce l’animo umano disponendolo ad accogliere la verità del vangelo. Ma cosa sarebbe quest’ultima? Nel vangelo Gesù si scaglia sovente contro gli ipocriti definendoli sepolcri imbiancati, mentre c’invita a conoscere la verità perché ci renderà liberi. Per verità non s’intende tanto il vasto scibile della conoscenza, che pure ci libera dalla prigionia dell’ignoranza, quanto la verità intima dell’animo umano, ovvero la sua sincerità.

Le scelte di vita condizionano non poco il nostro rapporto con la sincerità. Quest’ultima è fortemente condizionata dalla ricchezza o meno che si possiede. Ma non sarà proprio la condizione in cui versano i poveri ad avvicinarli alla sincerità? I poveri non devono difendersi da chi attenta alla ricchezza che non ambiscono e che non hanno, non incutono timore, né rappresentano una minaccia o sono di una qualche utilità. Anzi, da sempre vivono una condizione di emarginati.

Ma proprio perché essi hanno scelto di vivere in quel modo che noi possiamo permetterci il “lusso” di essere sinceri con loro senza freni inibitori! Per i poveri invece la sincerità degli altri, anche se potrebbe essere spiacevole, è un “privilegio” che non modifica la condizione in cui versano, ma li libera dall’ipocrisia e da una falsa rappresentazione del mondo con i suoi miti, le sue mode e i suoi pregiudizi.

Dobbiamo sinceramente ammettere che verso le persone ricche e potenti non abbiamo lo stesso atteggiamento che di solito riserviamo ai poveri. Nei confronti dei ricchi e dei potenti si tende a non essere sinceri fino in fondo perché se lo fossimo si correrebbe il rischio di una loro reazione.

Colpevolmente si preferisce tacere specie quando i potenti si macchiano di azioni riprovevoli. Al contrario, se si stima di ottenere favori e vantaggi dalla loro vicinanza, si tende ad omaggiarli fino all’adulazione. In buona sostanza, la sincerità, o meglio la nostra verità soggettiva, non è la stessa, ma dipende dalla categoria sociale a cui appartiene il nostro interlocutore.

E cosi, mentre per un povero è più facile avvicinarsi alla verità, per un ricco, che ama circondarsi non di rado di ruffiani e di cortigiani, diventa estremamente più arduo. Pur di accumulare e difendere il suo patrimonio è disposto a sacrificare l’indicibile. Forse è per questa ragione che è più difficile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel regno dei cieli.

Ad una persona ricca e potente non interessa tanto la sincerità degli altri quanto la loro subordinazione. Non sanno cosa farsene della verità, a meno che non sia utile.

Una preziosa lezione sull’importanza dell’essenzialità la devo ad una poesia di un poeta dialettale abruzzese che si chiamava Modesto Della Porta. Modesto era un sarto che aveva la passione per la poesia. Viveva a Guardiagrele, un paese dal nobile passato ubicato ai piedi del massiccio della Maiella.

Nella sua raccolta di poesie “Ta – pù, lu trumbone d’accumpagnamente” c’è una poesia “Lu privilegge de lu disperate” (Il privilegio del disperato) in cui si evince che la ricchezza non ci mette a riparo da certe tragedie, le quali si possono affrontare meglio con una vita più sobria e un lavoro umile.

Sarebbe bello leggerla nel dialetto in cui è stata scritta per cogliere tutte le sue ricche sfumature e l’acutezza del poeta, ma temo che la comprensione non sia agevole per chi non è abruzzese. Provo modestamente a fare una sintesi consapevole di questo limite.

In questa poesia si narra di un paese dove si svolgeva una fiera e di due ambulanti che si erano sistemati uno davanti all’altro con le loro mercanzie. Il primo ambulante era un vecchietto che aveva un misero sacchetto di castagne e che ogni tanto invitava i passanti all’acquisto. L’altro invece, che era un grosso commerciante, allestì un ricco baraccone esponendo sulle bancarelle ogni ben di dio.

Quest’ultimo, ad un certo punto, mosso dalla boria, dopo aver esaltato il suo commercio, si mise a punzecchiare il vecchietto fino a disprezzare il suo lavoro. Una sicumera che di lì a poco si sarebbe trasformata in disperazione perché all’improvviso sulla fiera si abbatté un diluvio, una bufera di acqua e vento.

E così, mentre il vecchietto chiuse la bocca del sacco e trovò subito riparo in una chiesa lì vicino, il borioso commerciante vide tutta la sua mercanzia andare in frantumi. Nonostante avesse chiesto aiuto, nulla poté contro la cieca violenza di quella bufera.

Quando il tempo si fece sereno, il vecchietto si rimise nel suo angoletto e tornò al suo piccolo commercio, mentre il ricco commerciante ancora in pena per i danni subiti e con il cuore pieno di amarezza non si capacitava di quel disastro.

E quando rivolgendosi al vecchietto gli chiese perché era stato risparmiato dalla tempesta, la risposta fu una saggia lezione di vita. Gli rispose che lui era abituato a vivere in mezzo alle difficoltà e che la sua vita non dipendeva più di tanto dalla mutevolezza degli eventi. Gli disse: “Il pesce quando piove non si bagna perché è abituato a vivere nell’acqua!”

Michele Meomartino





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