[Ho fatto girare questa riflessione all'interno della Rete Semi Rurali, in risposta a una sollecitazione inviata dall'associazione contadina Asci-Piemonte. Ora la condivido con chi sia interessato.]
Cosa sono i semi: patrimonio di una cultura del territorio o pretesto per esibire muri già alzati nella testa e nel cuore?
Che ne facciamo del dialetto? E' un veicolo di resistenza per affermare la centralità del locale (e dire che la periferia è altrove, magari in città o al centro dell'impero), o un strumento di chiusura che dice "noi" e "loro", che fa sentire gli altri sempre foresti, che condanna al provincialismo di chi si ostina a pensare il mondo dentro il lessico di una valle o di un paese?
Che ne facciamo del dialetto? E' un veicolo di resistenza per affermare la centralità del locale (e dire che la periferia è altrove, magari in città o al centro dell'impero), o un strumento di chiusura che dice "noi" e "loro", che fa sentire gli altri sempre foresti, che condanna al provincialismo di chi si ostina a pensare il mondo dentro il lessico di una valle o di un paese?
Ha senso raccogliere i microtoponimi quando non si fa più un uso produttivo del territorio, quando il territorio non lo si percorre più a piedi, o è solo un'iniziativa museale, museale e di retroguardia?
Possiamo girare le questioni - queste ed altre - come le bussole di una clessidra e non credo che se ne verrebbe a capo, perché è vera l'una ed è vera l'altra posizione. La difesa delle varietà locali può essere affermazione di un patrimonio contadino, ma anche scusa per buttare benzina sul localismo (sciovinismo in miniatura: stessa meschinità). Per questa ragione, da anni mi sento di dire - e più volte l'ho scritto pubblicamente - che il vero obiettivo non è difendere i semi perché non si mescolino, non si "imbastardiscano", ma difendere chi li produce e il modo di produzione umano (la parola prima di essere legata a uomo è etimologicamente unita a humus) e comunitario che ha permesso di costituirli nel tempo delle generazioni.
I semi senza i contadini non sono nulla: solo contenitori di materiale genetico decontestualizzato, solo pretesti per ideologie urbane o per collezioni da belle anime.
Le varietà locali sono un punto di partenza per ritessere un'economia locale non inquinata da logiche orientate dal mercato e al mercato, ma non sono un obiettivo; sono un punto di partenza per ritessere una comunità intorno al proprio patrimonio (così come il dialetto, così come le buone consuetudini - quelle che uniscono le persone e le generazioni), ma non sono un obiettivo. Si parte da lì, non si arriva lì e non ci si arrocca lì. Va benissimo recuperare la polenta Ottofile (e si parte da lì), ma non va bene chiuderla perché non esca dallo sguardo del campanile, o metterci un preservativo perché non si sposi con chi non deve e dia una semenza meticcia (come meticci siamo tutti noi - io certamente), questo non va bene: è ideologico, è astratto, è una fantasia urbana e intellettualistica, non ha a che fare né con il mondo contadino che le sementi le faceva girare, le scambiava, le introduceva con la curiosità che 'chissà che non renda di più e meglio', né con la vita che non conosce confini né disciplinari.
Il mio Ottofile è mescolato, non lo so con chi e quante volte si è sposato. Mi interessa niente. Ho tenuto le pannocchie più belle, quelle ricche di semi, integre, senza segni di malattia, e tra loro ci sono anche colori un poco differenti: e non sarebbe legittimo continuare a pensarlo come l'ottofile di partenza anche se le file restano otto: questa è la popolazione del mio paese, del mio campo: non l'ho costituita io, ma questa terra, questa aria, questo clima. E non lo so come si chiama, ma è questa, piuttosto stabile ma ancora capace di mutare, ne sono certo, come sono certo che muterà ancora, adattandosi ai cambiamenti di questa terra, di quest'aria, di questo clima e di me che ne ho presa cura. E chi la vuole, se ne ho glie la dò, senza gelosie; e se ne trovo che mi piace la porto a casa e se si sposa con la mia che Dio la benedica.
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Col mio mais ci faccio la polenta (buona) non una collezione né un oggetto per bullarmi di avere quello che altri non hanno perché "sapete: ce l'ho solo io, anzi noi del mio paese e di questa valle!". No. E come per la polenta, così per tutto il resto.
Questo è ciò che oggi penso e a cui sono arrivato nel tempo (trenta e venti anni fa non la pensavo affatto così e mettevo regole strette per imprigionare la Quarantina nelle mie fantasie localiste); e se qualcuno pensa in altro modo io - amante della biodifferenza e convinto che un prato è bello quando ci sono cento fiori - ne sono anche contento.
Massimo Angelini
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