Valentino, un papà del Monferrato, diceva spesso alla figlia quando parlavano del complesso militar-industriale che gli stessi sindacati non criticavano abbastanza per via dei posti di lavoro: «Ma sarebbe meglio pagare questi operai per stare a casa! Produrre armi vuol dire che poi le usi e distruggi, quindi è dannoso, costa più soldi di quelli che ci guadagni».
Non succede proprio così: il costo umano ed economico delle armi usate non ricade mai su chi le ha vendute. Ma a livello globale, in un clima di giustizia, il ragionamento sarebbe giusto. Decisamente le fabbriche d’armi – da guerra e da caccia - sono un brutto posto di lavoro. Fossile, del passato.
Ma ce ne sono altri.
Ad esempio i lavori della catena zootecnica e ittica, che come scrissi sulla Vegagenda 2014 (edizioni Sonda), in una vegonomia dovrebbero sparire… Gli impieghi zootecnici, in senso lato, sono così spiacevoli che quasi nessun consumatore li assumerebbe su di sé.
Si delega a qualcun altro il lavoro sporco. Sono attività spesso scaricate su categorie deboli. Si pensi agli intoccabili in India o ai migranti in Italia (i sikh indiani negli allevamenti da latte, i bengalesi e senegalesi nelle concerie e nei macelli).
Nel suo intramontabile libro The Jungle scritto nel 1906, Upton Sinclair fu il primo a occuparsi dell’intreccio fra lo sfruttamento dei lavoratori e le sofferenze degli animali da essi «lavorati», nella fabbrica di smontaggio di viventi chiamata macello, che a Isaac B.
Singer ricordava i campi di sterminio. Nei macelli, più o meno meccanizzati, sangue, urla, gesti difficili da compiere, sono allontanati dalla vista e spesso coperti solo da stranieri, soggetti oltretutto a fenomeni di caporalato, ritmi pesanti e malattie professionali in agguato.
Prigionieri degli allevamenti sono anche, talvolta, gli umani. Inizio 2000: un piccolo allevatore emiliano che non aveva il denaro per ammodernare la stalla e teneva le sue vacche da latte alla catena perpetua, mi disse che in fondo anche lui si sentiva legatissimo. Mai ferie, tocca governare ogni giorno gli ergastolani animali, nutrirli, togliere il letame, i parassiti, compiere operazioni violente come le mutilazioni, o la triturazione dei pulcini maschi, o l’allontanamento dei vitellini maschi figli delle vacche da latte (destinazione: ingrasso e rapido macello).
Immaginiamo brutture analoghe negli allevamenti da pelliccia (e nei laboratori di trasformazione dove si fa largo impiego di sostanze chimiche).
Nei processi post mattatoio gli animali non soffrono più, i lavoratori sì. Soprattutto nel Sud del mondo, i poli conciari sono fra i posti peggiori dove vivere e lavorare. Gli addetti sono esposti a sostanze chimiche altamente tossiche come cromo, formaldeide, sbiancanti; si ritrovano con malattie respiratorie e della pelle, rischiano di mutilarsi. I contadini delle aree circostanti sono rovinati dai veleni. Ma anche in Italia le concerie hanno un’elevata densità di migranti, più disponibili a sopportare lavori spiacevoli e usuranti.
Incerto, rischioso, sacrificato è poi il mestiere del pescatore, condannato oltretutto a sperare di catturare e asfissiare molti pesci ogni giorno, mors tua vita mea.
Doveva essere un brutto lavoro tosare le pecore da lana, fra parassiti ed escrementi incrostati. Adesso l’operazione è quasi del tutto automatizzata; così le lame, standard, non di rado tagliano anche la carne. La lana è sofferenza perché gli animali oltre alla tosatura – che in inverno li espone a colpi di freddo - subiscono dolorose mutilazioni «funzionali» di vario tipo. E, come del resto tutti gli animali al pascolo, sono tormentati dagli insetti.
Marinella Correggia
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