martedì 3 dicembre 2024

La guerra è un'azione politica...?

 


"Ma a che serve separare concettualmente politica e guerra? In termini pratici, a nulla: questo non porrà termine alla guerra. Serve a un’igiene del pensiero, a non scambiare il disordine con l’ordine, l’abnorme con il normale, la morte con la vita"

Il nesso forte, sostanziale, tra guerra e politica è uno dei (pochi) punti fermi del pensiero politico contemporaneo. Non esiste o quasi, oggi, filosofo o politologo che non dia per ovvio che la guerra sia un atto politico, se non l’atto politico per eccellenza, uno dei poteri che per antica tradizione definiscono il sovrano, cioè, oggi, lo Stato: lo ius gladii, il diritto di spada. Che non è solo il diritto sovrano di fare la guerra, ma il diritto sovrano di disporre della vita dei sudditi; tanto di mandarli a rischiare la vita in guerra, quanto di condannarli a morte. E ne risulta, anche nelle attuali forme democratiche dello Stato, il correlativo dovere dei cittadini di mettere la propria vita a disposizione dello Stato, o meglio, come più spesso si dice quando è questione di sacrificare la vita, a disposizione della Patria. Come fa anche la nostra Costituzione all’art. 52, parlando, in quest’unico caso, di “sacro dovere”.

Ripercorrere la teorizzazione di questo nesso, tanto dell’essere sovrano quanto dell’essere cittadini, con la guerra sarebbe contemporaneamente facilissimo e impossibile. Facilissimo perché basterebbe un poco di pazienza per accumulare una quantità indefinita di citazioni, a partire dalla Grecia antica, senza affatto escludere il cristianesimo; impossibile perché la sovrabbondanza sarebbe tale da impedire comunque di tracciare un quadro completo. Mi limiterò a tre rapidi sondaggi nel pensiero contemporaneo: ulteriori approfondimenti sarebbero tipici sfondamenti di porte aperte.

Hegel, Schmitt. La politica è guerra, la guerra è politica

Comincio da quello che è il massimo teorico dello Stato nel pensiero classico tedesco: Hegel. Nel § 324 dei Lineamenti di filosofia del diritto, citando una sua opera precedente, Hegel sostiene che la guerra è il momento di suprema unificazione etica dello Stato, perché è il momento in cui i diritti individuali dei cittadini, compresi quelli alla vita e alla proprietà, rivelano la propria accidentalità e vengono giustamente sacrificati al superiore bene dello Stato, che è l’universale oggettivo.

Luigi Alfieri


lunedì 2 dicembre 2024

Negare noi stessi non ha senso...

 


 “La mente (ego) tende ad appropriarsi delle esperienze vissute. Naturalmente non è necessario, al fine di realizzare la nostra vera natura, “negare” l’identità fisiologica (nome-forma) ma dobbiamo integrarla con il Tutto, anche perché ne facciamo parte ed il Tutto è inscindibile. Vedi il concetto di “ologramma”, in cui ogni parte che compone l’immagine è costituita dalla totalità dell’immagine stessa. Illudersi di essere separati dal Tutto significa cadere nel dualismo separativo. Il nome-forma è come un’onda che sorge sul mare dell’Assoluto, il quale è appunto il substrato necessario all’esistenza dell’io. Realizzare che l’io è solo il Sé riflesso nello specchio della mente è la chiave della Conoscenza”  (Saul Arpino)
 
Il  “riconoscimento” della nostra vera natura avviene come nel passaggio dal sogno alla veglia, è naturale ed  intrinseco in ognuno di noi. Quando sogniamo siamo immersi nel sogno e quella è per noi la sola realtà… Quando giunge il momento del risveglio ci sono delle avvisaglie che ci fanno percepire l’imminente cambiamento di stato. Come dire, abbiamo sentore dell’imminente uscita dall’illusione del sogno. Certo questa è semplice analogia poiché nel sogno e nella veglia, che sono condizioni mentali, non vi è vera illuminazione e realizzazione. Quel “risveglio” di cui parlo è l’intima essenza indivisibile, inavvicinabile dalla mente, ma la sua realtà è intuibile e sperimentabile nello stato di pura consapevolezza.
 
Nel processo di ritorno che sospinge ogni singolo essere verso quella pura consapevolezza avvengono vari miracoli e misteriosi cambiamenti. L’adattamento ai nuovi stati di coscienza coinvolge sempre e comunque tutto il corpo massa della specie, ma nella nostra dimensione umana noi siamo abituati al funzionamento a locomotiva, ovvero due passi avanti ed uno indietro, anche definito crescita per tentativi ed errori. Per questa ragione sembra che l’evoluzione manchi di linearità e continuità. Nella nostra civiltà abbiamo vissuto vari momenti che sembravano paradisiaci, che mancavano però di una comprensione olistica. Un po’ come avviene nel mondo animale in cui la spontaneità  regna sovrana ma la coscienza è carente nella auto-consapevolezza e nella ragione.
 
Insomma dobbiamo poter integrare l’intuizione e la ragione  nel nostro funzionamento e ciò fatto possiamo procedere a dimenticare il processo sperimentale per poter vivere integralmente l’esperienza in se stessa. Osservatore ed osservato non possono essere separati.
 
Per ottenere questo risultato le religioni consigliano la via “dell’amare il prossimo tuo come te stesso” mentre le filosofie gnostiche indirizzano verso l’auto-conoscenza.
 
Non scindiamo queste due vie, teniamole strette come due remi della nostra barca che ci aiutano ad uscir fuori dal pantano del “dualismo”.
  
In fondo, come possiamo considerare che qualcosa sia al di fuori di noi stessi? 

Paolo D’Arpini - Comitato per la Spiritualità Laica

Passo di Treia. Alla Fierucola delle eccellenze bioregionali


domenica 1 dicembre 2024

Se lo sport diventa fonte di inquinamento e di sperequazione sociale...



Se non ci svegliamo, se non escogitiamo qualcosa che interrompa la discesa verso la completa risibilità del potere popolare, siamo destinati ad una condizione di caleidoscopiche precarietà.

Questo articolo, dedicato alla situazione dei lavoratori impiegati per la costruzione del nuovo stadio di calcio di Riyadh, in vista dei mondiali del 2034, apparso su ilfattoquotidiano.it, illumina sulla deriva delle società capitaliste. Ma è una luce sconsolatamente proiettata sul giorno, nel senso che la condizione in cui versano i lavoratori di cui si parla nel pezzo, non è una novità anzi, gode e da molto di lunga vita.

Lo sfruttamento dei lavoratori – come diremmo noi civili e paladini dei fu diritti sociali, ora abbandonati per quelli individuali – che avviene in Arabia Saudita, e che è avvenuto in Qatar e in tanti altri Paesi, riferito nell’articolo de ilFatto, non ha di che scomporre la nostra società civile e, tantomeno, la relativa classe politica che, infatti, ha voluto e sostiene, ciò che avviene tra le dune e sopra il petrolio. Anche le rispettive Federazioni Nazionali di calcio, che potrebbero e dovrebbero disertare la rassegna del campionato mondiale, e la Federazione Internazionale (Fifa) che dovrebbe e potrebbe imporre norme nei confronti dei lavoratori, nonché sanzioni amministrative e squalifiche tecniche per chi non le rispetta, certamente non faranno niente in nome degli ultimi. E così anche la Federazione Europea (Uefa), che dovrebbe esprimere il proprio dissenso.

In una cultura dove l’interesse economico ha piegato il resto dei pensieri, delle forze, delle passioni, dei credo, semplicemente non può accadere: gli affari sono affari. Formula espiativa per qualunque peccato comportino. Una specie di ragion di stato in seno ai bottegai del commercio e della politica, agli usurai delle banche e agli occulti poteri.

Anche se tutto ciò è alla luce del giorno da tempo immemore, l’articolo resta illuminante, almeno per coloro che sono contenti di poter fare la settimana bianca, di comprare la bmw, di ritirarsi in campagna nel fine settimana. Cioè, nei confronti di quel ceto un tempo detto borghese e qualunquista, ora anche individualista, edonista, opulente, consumista, materialista, divanista e, anche se qui non c’entra, scientista.

Un popolo che guarda la tv credendo di informarsi, parla a frasi fatte e luoghi comuni per via di quanto imparato da esperti e giornalisti, ama la satira che, a sua insaputa gli fa digerire le menzogne della comunicazione e del degrado a tutto tondo. Un popolo che ride soddisfatto e applaude, credendo basti per far sentire il suo dissenso, per sentirsi dalla parte della rivoluzione, ma che, ignaro di mostrare la sua nulla consapevolezza puntellata di buon senso – il massimo del suo orizzonte – seguita a votare e a raccontare agli amici e ai figli che, se Putin vince arriva a Lisbona.

La speranza è che questa fascia enorme, maggioritaria e latrice della cultura progressista trasversale, diagonale, bisettrice, perimetrale, circolare e sferica della scheda elettorale, possa essere toccata dal faro dell’articolo. Più esattamente, possa riconoscere che una politica senza sovranità popolare, venduta all’economia, non possa che proseguire il suo corso verso il basso, cioè verso quel punto creduto lontano, ma al quale siamo tutti esposti in forma varia, illuminato dall’articolo. Che possa scuotere, oltre che le mani, anche il proprio potere, risvegliarlo dall’incantesimo, disseppellirlo dal tumulo di futilità – comprate risparmiando, naturalmente – con le quali aveva creduto di poterlo esercitare.

Un’economia finanziaria slegata dal lavoro e un capitalismo troppo costoso rispetto a quello orientale non possono che essere ingredienti di ricette dal costo al ribasso, da molto tempo garantito da una politica d’immigrazione travestita d’umanitarismo, ma voluta e promossa con strategia, per questioni squisitamente economiche ed egemoniche.

Di questo la classe media dovrebbe prendere coscienza e, finalmente, sentire che dal piano di sopra non cadono più le briciole che erano sufficienti a tenerla per il naso, nonché di accorgersi di essere appoggiata ed eretta su un terreno umido e senza più vespaio, senza più separazioni impermeabili rispetto alla classe che le sta sotto, composta da disgraziati, immigrati, reietti, lavoratori, disoccupati, pensionati, nullatenenti. Classe dei poveri che si sta infoltendo dal tempo della globalizzazione e della delocalizzazione, penultimi e pressoché congiunti espedienti per dare ossigeno al capitalismo occidentale. Una classe che, suo malgrado non può per cultura che esser anch’essa avida, in questo caso legittimamente di dignità e decoro minimo e sopravvivenza fisica. Che perciò non potrà fare sconti allo strato che le sta sopra. Gli affari sono affari, no? La competizione lo vuole. Il profitto lo impone. E una guerra tra poveri è sempre un fumogeno, dentro il quale, mentre nessuno vede, si ratificano leggi come quelle di Riyadh e ben oltre.

C’è da chiedersi quanto la luce gettata dall’articolo citato, e di mille altri già esistenti, possa essere vista dai ciechi o udita dai sordi, prima che l’espediente della rana bollita non ci faccia sentire, con troppo ritardo, cosa significhi esistere e lavorare nella multiforme precarietà, in questo caso, in nome del gioco più bello del mondo.

Lorenzo Merlo