Se non ci svegliamo, se non escogitiamo qualcosa che interrompa la
discesa verso la completa risibilità del potere popolare, siamo
destinati ad una condizione di caleidoscopiche precarietà.
Questo
articolo, dedicato alla situazione
dei lavoratori impiegati per la costruzione del nuovo stadio di
calcio di Riyadh, in vista dei mondiali del 2034, apparso su
ilfattoquotidiano.it, illumina sulla deriva delle società
capitaliste. Ma è una luce sconsolatamente proiettata sul giorno,
nel senso che la condizione in cui versano i lavoratori di cui si
parla nel pezzo, non è una novità anzi, gode e da molto di lunga
vita.
Lo sfruttamento dei lavoratori – come diremmo noi civili e paladini
dei fu diritti sociali, ora abbandonati per quelli individuali –
che avviene in Arabia Saudita, e che è avvenuto in Qatar e in tanti
altri Paesi, riferito nell’articolo de ilFatto, non ha di
che scomporre la nostra società civile e, tantomeno, la relativa
classe politica che, infatti, ha voluto e sostiene, ciò che avviene
tra le dune e sopra il petrolio. Anche le rispettive Federazioni
Nazionali di calcio, che potrebbero e dovrebbero disertare la
rassegna del campionato mondiale, e la Federazione Internazionale
(Fifa) che dovrebbe e potrebbe imporre norme nei confronti dei
lavoratori, nonché sanzioni amministrative e squalifiche tecniche
per chi non le rispetta, certamente non faranno niente in nome degli
ultimi. E così anche la Federazione Europea (Uefa), che dovrebbe
esprimere il proprio dissenso.
In una cultura dove l’interesse economico ha piegato il resto dei
pensieri, delle forze, delle passioni, dei credo, semplicemente non
può accadere: gli affari sono affari. Formula espiativa per
qualunque peccato comportino. Una specie di ragion di stato in seno
ai bottegai del commercio e della politica, agli usurai delle banche
e agli occulti poteri.
Anche se tutto ciò è alla luce del giorno da tempo immemore,
l’articolo resta illuminante, almeno per coloro che sono contenti
di poter fare la settimana bianca, di comprare la bmw, di ritirarsi
in campagna nel fine settimana. Cioè, nei confronti di quel ceto un
tempo detto borghese e qualunquista, ora anche individualista,
edonista, opulente, consumista, materialista, divanista e,
anche se qui non c’entra, scientista.
Un popolo che guarda la tv credendo di informarsi, parla a frasi
fatte e luoghi comuni per via di quanto imparato da esperti e
giornalisti, ama la satira che, a sua insaputa gli fa digerire le
menzogne della comunicazione e del degrado a tutto tondo. Un popolo
che ride soddisfatto e applaude, credendo basti per far sentire il
suo dissenso, per sentirsi dalla parte della rivoluzione, ma che,
ignaro di mostrare la sua nulla consapevolezza puntellata di buon
senso – il massimo del suo orizzonte – seguita a votare e a
raccontare agli amici e ai figli che, se Putin vince arriva a
Lisbona.
La speranza è che questa fascia enorme, maggioritaria e latrice
della cultura progressista trasversale, diagonale, bisettrice,
perimetrale, circolare e sferica della scheda elettorale, possa
essere toccata dal faro dell’articolo. Più esattamente, possa
riconoscere che una politica senza sovranità popolare, venduta
all’economia, non possa che proseguire il suo corso verso il basso,
cioè verso quel punto creduto lontano, ma al quale siamo tutti
esposti in forma varia, illuminato dall’articolo. Che possa
scuotere, oltre che le mani, anche il proprio potere, risvegliarlo
dall’incantesimo, disseppellirlo dal tumulo di futilità –
comprate risparmiando, naturalmente – con le quali aveva creduto di
poterlo esercitare.
Un’economia finanziaria slegata dal lavoro e un capitalismo troppo
costoso rispetto a quello orientale non possono che essere
ingredienti di ricette dal costo al ribasso, da molto tempo garantito
da una politica d’immigrazione travestita d’umanitarismo, ma
voluta e promossa con strategia, per questioni squisitamente
economiche ed egemoniche.
Di questo la classe media dovrebbe prendere coscienza e, finalmente,
sentire che dal piano di sopra non cadono più le briciole che erano
sufficienti a tenerla per il naso, nonché di accorgersi di essere
appoggiata ed eretta su un terreno umido e senza più vespaio, senza
più separazioni impermeabili rispetto alla classe che le sta sotto,
composta da disgraziati, immigrati, reietti, lavoratori, disoccupati,
pensionati, nullatenenti. Classe dei poveri che si sta infoltendo dal
tempo della globalizzazione e della delocalizzazione, penultimi e
pressoché congiunti espedienti per dare ossigeno al capitalismo
occidentale. Una classe che, suo malgrado non può per cultura che
esser anch’essa avida, in questo caso legittimamente di dignità e
decoro minimo e sopravvivenza fisica. Che perciò non potrà fare
sconti allo strato che le sta sopra. Gli affari sono affari, no? La
competizione lo vuole. Il profitto lo impone. E una guerra tra poveri
è sempre un fumogeno, dentro il quale, mentre nessuno vede, si
ratificano leggi come quelle di Riyadh e ben oltre.
C’è da chiedersi quanto la luce gettata dall’articolo citato, e
di mille altri già esistenti, possa essere vista dai ciechi o udita
dai sordi, prima che l’espediente della rana bollita non ci faccia
sentire, con troppo ritardo, cosa significhi esistere e lavorare
nella multiforme precarietà, in questo caso, in nome del gioco più
bello del mondo.
Lorenzo Merlo