...qualche anno fa viaggiando in Basilicata mi sono trovato a percorrere la Valle d’Agri, stupito dalla bellezza dei paesaggi dei paesi sospesi sulle cime dei monti circostanti e dei vari ecotipi presenti, fagioli neri di Morcone peperoni secchi di Senise e melanzana rossa di Rotondella. Quello che mi stupiva era quell’odore di sottofondo di petrolio che spesso si sentiva e prendeva alla gola.
Arrivato a Montemurro, un paese vicino, sono stato ospite di un amico musicista che mi ha raccontato e spiegato la situazione dell’estrazione del petrolio e dei pozzi presenti sul territorio della Val D'Agri e dell’inquinamento delle acque e delle sorgenti. Si, perché pare che il petrolio estratto in Basilicata, almeno secondo il suo racconto, sia un petrolio sporco e se nel golfo dei Paesi arabi ogni venti barili se ne consuma solo uno per l’estrazione, qui in Basilicata ogni cinque barili se ne consumano quattro per estrarre e ripulire il petrolio, con conseguente rilascio di scorie e altri materiali inquinanti sul territorio.
Alla popolazione locale viene dato un bonus tipo cento litri di benzina all'anno… Effettivamente non so se sia vero quanto detto, ho fatto una ricerca su internet su giornali vari, tra i quali l’Internazionale e ne è venuto fuori il quadro che riporto, sicuramente non incoraggiante e con il pensiero che l’uomo si adatta a qualsiasi situazione soprattutto in questo contesto. Le popolazioni lucanem per sfuggire a un passato di miseria povertà e disagio, sono disposte a inquinare il luogo in cui vivono per sempre, senza pensare ad altro, giustificando il tutto con il benessere e la modernità della vita.
(F.R.)
Notizie tecniche reperite su internet:
Viaggio nella più grande riserva di petrolio d’Italia...
Sui monti della Basilicata ci sono due grandi aree petrolifere, cioè i due giacimenti della Val d'Agri (Eni al 60,77% e Shell al 39,23%) e il nuovo giacimento di Tempa Rossa (Total con Shell). L'area petrolifera della val d'Agri è da sempre legata al petrolio. Ovunque si vada non si riesce a liberarsene: la fiamma perennemente accesa a segnalarne la presenza, un rumore di sottofondo incessante come di lavori sempre in corso e le esalazioni di gas e zolfo. Tutto cominciò nella seconda metà degli anni trenta quando la neonata Agip cominciò a bucherellare il territorio senza che la “miseria contadina” ne traesse alcun beneficio. Oggi la storia si ripete. La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia: qui si estraggono il 70,6 per cento del petrolio e il 14 per cento del gas italiani. per strada si incontrano solo mezzi della statunitense Halliburton, tecnici della Total francese o auto dei vigilantes locali, uno dei piccoli business fioriti attorno alle estrazioni.
A Viggiano, poco più di tremila abitanti che affacciano sul Centro oli e su venti dei 27 pozzi attivi in Val d’Agri, in molti hanno avuto o hanno a che fare con il petrolio: c’è chi ha preso soldi per un pezzo di terra espropriato, chi fa lavoretti occasionali e chi ha un familiare impiegato, e tanto basta a far sì che dell’argomento in molti parlino poco volentieri. La consapevolezza dei danni procurati all’ambiente è tanta, in un bosco incantevole dove ci si potrebbe abbeverare a una sorgente con annessa fontanella, se non fosse per una scritta, “acqua non controllata”. È stata messa lì dal comune che, nell’impossibilità di monitorare costantemente le sorgenti, avverte gli assetati viandanti: se vi azzardate a bere, lo fate a vostro rischio e pericolo. Il problema è reale: l’acqua dell’abete, tra i boschi della vicina Calvello a 1.200 metri d’altitudine, è risultata inquinata, e anche questa potrebbe non essere limpida come appare. Viggiano è oggi la capitale del petrolio italiano. Nel suo comune ricadono venti dei 27 pozzi della val d’Agri, nonché il Centro oli dove il gas viene separato dalla parte liquida (come pure lo zolfo), compresso e immesso nella rete distributiva della Snam. Il greggio, stabilizzato e stoccato, è invece spedito a Taranto, attraverso un oleodotto lungo 136 chilometri, da dove prende soprattutto la via della Turchia.
Il paese è attraversato da una rete sotterranea di tubi che affluiscono dai pozzi verso il Centro oli: ogni giorno nelle viscere del paesino lucano viaggiano 3,4 milioni di metri cubi di gas e l’equivalente di 81.868 barili di petrolio (ogni barile contiene 159 litri). Sono queste cifre a fare di questa valle “il più grande giacimento onshore dell’Europa occidentale”, come la definisce l’Eni. Per paradosso, Viggiano è il comune petrolifero più ricco d’Europa in una delle regioni più povere d’Italia. Accade per le royalty che puntualmente, dalla fine degli anni novanta, l’Ente nazionale idrocarburi versa nelle casse del comune: fino al 2010 si trattava del 7 per cento del totale del petrolio estratto, poi è stato aumentato al 10 per cento. L’Eni dichiara di aver pagato 1,16 miliardi di euro dal 1998 al 2013 (ultimo dato disponibile) e a Viggiano arrivano più di 11 milioni all’anno, così tanti che l’amministrazione ha perfino difficoltà a spenderli. “Ci finanziano sagre e feste estive, hanno messo fioriere dappertutto”, tutto ciò non basta a impedire che i giovani emigrino alla ricerca di fortuna altrove e in paese rimangano solo gli anziani, come in molte aree interne del Mezzogiorno.
Nemmeno la presenza di tecnici e operai del Centro oli e delle aziende dell’indotto pare aver modificato più di tanto lo stile di vita del paese. Alle due di pomeriggio, lungo il corso principale c’è una sorta di coprifuoco e all’unico bar aperto regna l’accidia mediterranea delle ore di fuoco. “La petrolizzazione ha danneggiato il territorio non solo sul piano ambientale e paesaggistico, pure su quello sanitario, identitario e della coesione”. “Fino a ieri, per i lucani la terra era un elemento di identificazione culturale e sociale. Nessuno dubitava dell’acqua e della salubrità dei prodotti locali. Ora invece pensano che le risorse naturali possano essere compromesse e questo cambia profondamente la loro identità. Nel loro immaginario la natura da fonte di vita si è trasformata in rischio di morte”. Oggi, grazie agli sconvolgimenti portati dalle trivelle, la natura è diventata perennemente matrigna. Ma sono pure altri i sentimenti che agitano gli abitanti di queste terre: “La popolazione si sente derubata di una cosa che è sua e che dovrebbe rimanere a loro. Pensano che il petrolio è lucano e ne debbano beneficiare gli abitanti del posto. In buona sostanza, ragionano in questo modo: ci avete derubato, messo a rischio e ora ci trattate come persone del terzo mondo. È uno schema interpretativo al quale aderisce pure chi è a favore delle perforazioni”.
Per addolcire la pillola ai suoi cittadini la regione Basilicata, dismessa ogni velleità autarchica (qualche anno fa aveva minacciato di aderire autonomamente all’Opec, l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio), utilizza i proventi dell’oro nero per finanziare lo stato sociale: tra i 20 e i 30 milioni al sistema sanitario, due milioni in borse di studio universitarie, 20 milioni in programmi di forestazione e per le vie blu marittime, 3,5 milioni in investimenti nella Società energetica lucana. E ancora, dieci milioni all’anno vanno all’Università della Basilicata, altri soldi sono destinati alla riduzione della bolletta energetica e del costo della benzina, nonché a un fondo di garanzia per le imprese. In definitiva, il petrolio copre così tante spese culturali e sociali per i nemmeno 600mila abitanti di una regione poco popolosa e priva di grandi città che la Cgil è arrivata a denunciare il rischio di una “dipendenza eccessiva dai diritti provenienti dalle attività estrattive”. Cosa accadrà se le royalty dovessero diminuire, a causa del crollo dei prezzi del petrolio, o addirittura il giorno in cui tutto dovesse finire?
L’enorme giro d’affari attorno al business delle trivelle spiega perché, al di là dell’opposizione di facciata, nel mondo della politica locale al petrolio intendano rinunciare in pochi. Nel palazzo della regione a Potenza un tabellone segnala l’estrazione giornaliera come in un emirato arabo e attorno all’oro nero si gioca la stabilità di un sistema politico che non ha avuto grandi scossoni dai tempi della prima repubblica. Ma l’opinione pubblica non è più la stessa che accettò senza battere ciglio le prime perforazioni negli anni novanta e i politici sono costretti a seguirne gli umori per non perdere consensi. Le inchieste giudiziarie hanno fermato le nuove prospezioni petrolifere e la giunta regionale ha deciso di non concedere più nuovi permessi, ma la corte costituzionale le ha dato torto e ora su tutta la regione incombono 18 nuove istanze, firmate Shell e e Total, su una superficie di 3.896 chilometri quadrati e 95 comuni interessati. Lo sblocca Italia del governo Renzi, che qui considerano l’ultimo atto di una colonizzazione cominciata con gli accordi del 1998 e proseguita con un successivo Memorandum, ha completato l’opera, scavalcando per legge gli enti locali e autorizzando trivellazioni un po’ ovunque, perfino di fronte alla costa di Policoro, sul mar Ionio, dove una decina di anni fa ci fu una vera e propria sommossa popolare contro la proposta dell’allora governo Berlusconi di costruirvi il sito unico per le scorie nucleari.
Prendono la parola esponenti della regione, sindaci e politici delle zone del petrolio. Si parla di ospedali ma il tema dominante è l’onnipresente petrolio. C’è allarme sulle patologie causate dall’inquinamento ambientale. In buona sostanza, nessuno pensa a uno stop al petrolio ma solo a come compensarne gli effetti più deteriori. Così vanno le cose nella “Basilicata Saudita”, come l’ha efficacemente definita il segretario dei radicali lucani Maurizio Bolognetti, autore di numerose denunce sui disastri ambientali provocati dalle perforazioni. A separare il pozzo Monte Alpi 1 dalle stalle dell’azienda agricola Sassano è un reticolato e null’altro. Il proprietario dell’azienda, Gaetano: “Da quando sono spuntati i pozzi per me è stata la fine”, dice. Il vino che produce non lo vuole più nessuno e le mucche hanno cominciato a morire senza motivo: “In meno di un mese ne ho seppellite quindici e nessuno sa darmi una spiegazione”. Davanti all’azienda ce n’è una con una sorta di distrofia muscolare, scheletrica, separata dalle altre, gli occhi che paiono implorare aiuto. “Diciamoci la verità: l’idea di coniugare ambiente e petrolio è una grande cazzata”.
Nel centro di Grumento Nova un simpatico personaggio che non vuole dire il suo nome da una piazzetta affacciata sulla val d’Agri, sulla collina di fronte a quella su cui è costruita Viggiano, indica il Centro oli, la “cattedrale nel deserto”: “Una volta questa era una valle bellissima, del vino di Grumentum”, l’antica città romana, una sorta di Pompei lucana oggi parco archeologico, “ne parla Tito Livio, ma ora arriva un olezzo…”. La cittadina non beneficia di royalty milionarie come Viggiano e risente degli effetti più sgradevoli: il rumore, specie di notte quando tutto tace, le esalazioni che non deliziano l’olfatto, la moria di carpe nel lago Pertusillo, invaso artificiale che, volgendo lo sguardo verso la sinistra da questo paese-terrazza, si estende a perdita d’occhio circondato dai boschi. Dovrebbe essere una riserva naturale, quest’ultimo, un’oasi nel verde che fornisce alla Puglia, attraverso una mastodontica diga alta cento metri, il 65 per cento del suo fabbisogno di acqua potabile e per usi irrigui: 4.500litri al secondo, per una capacità di 155 milioni di metri cubi. Da anni, invece, si susseguono denunce e controdenunce, analisi e controanalisi, in una guerra di dati e notizie che servono solo a far confusione e a coprire di una spessa coltre di disinformazione l’intera questione.
Da quando muoiono le carpe attorno al Pertusillo è accaduto di tutto: un tenente della polizia provinciale che aveva diffuso i dati sull’inquinamento è stato sospeso dal servizio, processato per rivelazione di segreto d’ufficio e poi definitivamente assolto, l’Arpa della Basilicata ha censito la presenza di ben 21 metalli pesanti nelle acque del lago, cinque dei quali passati indenni perfino agli impianti di potabilizzazione, l’Organizzazione lucana ambientalista ha denunciato concentrazioni di idrocarburi superiori ai limiti legali nel 70 per cento dei campioni mandati ad analizzare, specie in coincidenza con la foce del fiume Agri che attraversa le terre del petrolio. Sono finite sotto accusa le trivellazioni e i depuratori malfunzionanti, i cambiamenti climatici e calamità naturali come la misteriosa comparsa di una devastante alga rossa. Da ultimo, un deputato lucano cinquestelle, Vito Petrocelli, ha presentato un dossier alla commissione ambiente del parlamento europeo sostenendo che l’inquinamento del Pertusillo è tutta colpa del fracking, la tecnica di fratturazione idraulica utilizzata dalla Halliburton per cercare gas e petrolio.
Come per la puzza e il rumore del Centro oli, nessuno è finora riuscito a dimostrare un legame di causa-effetto e a stabilire responsabilità e pericoli per la salute. E chi è stato chiamato a fornire un’analisi scientifica non ha contribuito a diradare le nebbie. “Qui si scontrano la scienza di stato che fornisce una verità ufficiale, quella aziendale che porta acqua al mulino dei petrolieri e un’altra di prossimità, fatta da medici, ingegneri, geologi ed esperti locali di vario genere che studiano il territorio e svolgono un’importante opera di denuncia ed educazione delle popolazioni”. Poi c’è quella che definisce “la scienza dei senza scienza”, vale a dire le conoscenze legate alle esperienze sensoriali degli abitanti del luogo, che sono insofferenti ai rumori, soffrono per la puzza e si rendono conto che l’acqua non è più quella di una volta. Di fronte a questa evidenza, non c’è soglia di legge o interpretazione che tenga: lo scienziato senza scienza, abitante e profondo conoscitore dei luoghi per esperienza diretta, si rende conto che oggi in val d’Agri non si vive più come un tempo. In definitiva esiste un danno percepito che è molto superiore a quello certificato.
Che non sia facile attribuire colpe è testimoniato pure da un’altra evidenza: il petrolio, da queste parti, viene fuori anche se nessuno lo cerca. C’è la prova in un canyon di Tramutola: da una sorgente, a poca distanza da un parco acquatico che sfrutta le acque sulfuree del sottosuolo, sgorga l’oro nero di Lucania, viscido e oleoso. Forma una sorta di ruscello nerastro e va poi a riversarsi in un torrente, il rio Cavolo. In qualche punto si addensa e si formano delle bollicine di metano, mentre l’acqua sulfurea gli scorre addosso e scende a grande velocità verso il rio, lasciando per strada molte impurità. Proseguendo oltre, si incontrano le vestigia dell’“eldorado nero” della seconda metà degli anni trenta, come fu definito dagli amministratori dell’epoca. Si tratta di 47 pozzi svuotati e abbandonati, una sorta di avvertimento per quello che potrà accadere in futuro alle estrazioni di oggi. Oggi il miraggio petrolifero si è spostato di poco, dalle gole di questo paesino lucano all’altro capo della valle. Ha conquistato politici e gente comune, lasciando credere che insieme alle jeep e alle trivelle sarebbero arrivati soldi, benessere e lavoro per tutti.
L’Eni fornisce qualche numero: 2.881 impiegati in Basilicata, di cui 348 direttamente (tra questi 206 lucani) e 2.553 (1.077 del luogo) nelle aziende dell’indotto o “nella catena di fornitura di beni e servizi”. Davide Bubbico, sociologo all’università di Salerno e autore del dossier per la Cgil, puntualizza: “Si tratta in gran parte di attività a basso valore aggiunto”. In buona sostanza, per i giovani del posto che non emigrano il petrolio rimane un miraggio: si accontentano di mansioni poco qualificate, stipendi bassi e, almeno nella metà dei casi, di contratti a tempo determinato (spesso legati alla manutenzione degli impianti o a esigenze particolari). “Sono tutti lavoretti per far stare tranquilla la popolazione, i giovani sono impiegati solo per pochi mesi, si tratta di assistenzialismo allo stato puro”.
Notizie trasmesse da Ferdinando Renzetti
Nessun commento:
Posta un commento