lunedì 24 febbraio 2025

Elegia del vino pescarese di Ferdinando Renzetti

 



D’Annunzio in terra vergine e in le novelle della Pescara 
è attratto dall’anima popolare che esprime la propria gioia se non attraverso la gioia di vivere fine a se stessa. Racconti paesaggi rappresentazione di fatti in stretta relazione col mondo circostante in cui gli esseri umani sono assorbiti completamente nell’ambiente, sono persone in quanto ambiente rappresentato. 

I movimenti psicologici sono collettivi e le folle sono pittoriche in quanto suscettibili solo di sentimenti elementari e naturali espressi nella gestualità e nella fisionomia spesso grottesca dipinta sui volti. D’Annunzio celebra la buona terra vergine e l’anima popolare godendo dei suoi odori nei suoi ardori e colori con cuore faunesco primitivo e pagano, cogliendo i drammi dei figli della terra nella sessualità nella bramosia a volte bestiale e nell’ardore per tutte le sensazioni estreme terrestri marine e solari piuttosto che per il pane o il focolare. 
 
 
Da un po di tempo sto mettendo a posto la libreria con tanti libri sparsi qua e la alcuni li ho buttati tante riviste le ho regalate e il resto non so ancora che farne. comunque tra i tanti libri vecchi ho trovato un oscar mondadori del 1976 le novelle della pescara di D’Annunzio letto tanto tempo fa che mi ha incuriosito. ho iniziato a leggerlo svogliatamente invece affascinato dal materiale trattato l’ho letteralmente divorato. racconta dei luoghi e dei vari personaggi di pescara piccolo paese lungo il fiume con la caserma carcere o bagno borbonico prima che fosse costruita la citta. 

Allora paesaggi naturali fluviali marini descrizioni della vegetazione dei cieli del mare dei monti delle stagioni dei campi di grano dei trasporti delle strade delle persone dei costumi modi di dire canzoni proverbi odori luoghi e personaggi caratteristici. quando ho finito di leggere il libro ho fatto anche ricerche sulla rete per capire ispirazione ed elaborazione dell opera che si svolge quasi tutta nell’ottocento dai primi anni ancora regno borbonico fino alla fine del secolo con punita d’Italia la costruzione della ferrovia e l’arrivo del treno. mi sono divertito a montare in sequenza alcuni brani e ne è venuta fuori una nuova breve novella.  
 
Siamo a pescara nella seconda meta dell’ottocento piccolo paese dove nel cinquecento venne costruita una fortezza spagnola pian piano smantellata e trasformata in caserma e in carcere borbonico. Il piccolo paese in provincia di chieti è sempre stato un piccolo porto di mare fin dall’antichità anche se le condizioni di vita sono state sempre pessime per via delle paludi e della malaria, infatti la maggior parte degli autoctoni hanno sempre vissutonei piccoli villaggi sui colli circostanti. Il fiume divideva Pescara dall’altro paese Castellammare Adriatico borgo marino di pescatori in provincia di Teramo. 

Pescara è una citta di fondazione fascista infatti i due paesi sono stati uniti nel 1928 a costituire il piccolo centro urbano con la nuova stazione e man mano si è sviluppato fino a diventare la moderna cittadina di oggi. Il paese era frequentato dai soldati della fortezza dai viaggiatori dagli avventori in cerca di fortuna e dai marinai delle imbarcazioni che per la mancanza di strade dell’epoca collegavano Pescara con Spalato e la costa Dalmata da dove arrivavano via mare la maggior parte delle merci necessarie. Comunque nella fine dell’ottocento con il chinino e le prime bonifiche delle paludi le condizioni di vita erano migliorate e si era formata una piccola borghesia di provincia, in questa nasce D’Annunzio nel 1863. 

Nello stesso paese e sulla stessa via nascerà nel 1910 Ennio Flaiano altro illustre letterato pescarese. Quindi D’Annunzio nelle novelle della Pescara descrive la vita del paese della sua infanzia e della sua giovinezza.
 
La casa molto umile aveva le mura tutte segnate di iscrizioni e figurazioni oscene. Ivi alloggiava ogni sorta di gente avventizia e girovaga. Dormivano i carrettieri di letto manoppello grandi e panciuti, gli zingari di Sulmona mercanti di giumenti e restauratori di caldaie, i fusari di bucchianico, le femmine di Città Sant’Angelo venute a far pubblica professione d’impudicizia tra i soldati, i zampognari di Latina, i montagnoli domatori di orsi, i cerretani, i falsi mendicanti, i ladri, le fattucchiere. 

Per la via turlendana domandò: ci stanno le candine? binche banche rispose: si signore, la candina di speranza, la candina di buono, la candina di ascau, la candina di zarricante, la candina della cecata di turlendana. La candina della cecata è grande e ci si vende lu meglio vino. La cecata è la femmina delli quattro mariti. Lu primo marito fu Turlendana che era marinaio e andava su li bastimenti del re di Napoli, alle Indie basse, alla Francia, alla Spagna e in America. Quello si perse in mare e non si è trovato più. Lu secondo marito dopo cinque anni di vedovanza fu l’Ortonese n’anima dannata che si era unito co li contrabbandieri a tempi di Napoleone che stava contro li inglesi. Facevano contrabbando di zucchero e caffè co li legni inglesi. Infine era morto di una schioppettata nelle reni per mano de soldati di Gioacchino Murat di notte sulla costiera. Lu terzo marito fu Biagio Quaglia che morì nel letto suo di male cattivo. Lu quarto vive ed è Verdura Bonomo che mò mestura li vini. Il vostro nome signor forestiero? mi chiamo Turlendana. Turlendana di qua? Di qua! Dunque non siete morto? Non sono morto. Dunque siete il marito di Rosalba Catena? Sono il marito di Rosalba Catena. E ora? Esclamò Verdura: siamo in due? 

Ecco qua Turlendana marinaio lu marito di mogliema. Turlendana che s’era morto. Ecco qua Turlendana! Passacantando entro sbattendo forte le vetrate malferme. Scosse dalle spalle le gocce di pioggia, poi si guardò intorno togliendosi dalla bocca la pipa. Nella taverna il fumo del tabacco faceva come una grande nebbia turchiniccia di mezzo a cui si intravedevano le facce varie dei bevitori e delle male femmine. C’era Pachiò il marinaio invalido a cui una untuosa benda verde copriva l’occhio destro infermo. C’era Binche Banche il servitore dei finanzieri omiciattolo dal viso giallognolo e rugoso come un limone senza succo. C’era Magnasangue il mezzano dei soldati l’amico degli attori comici dei giocolieri, dei saltimbanchi, delle sonnambule, dei domatori di orsi, di tutta la gentaglia famelica e girovaga. 

Passacantando attraversò la taverna e andò a sedersi su una panca tra la pica e peppuccia contro il muro segnato di scritture e figure invereconde. la cecata padrona della candina si mosse dal banco verso il tavolo barcollando per la sua corpulenza e posò davanti a passacantando un boccale di vetro colmo di vino. Passacantandocinse con il braccio il collo di Peppuccia costringendola a bere e quindi attaccò la bocca a quella bocca che ancora teneva il sorso del vino e fece atto di suggere. Peppuccia rideva schermendosi e per le risa il vino mal tracannato spruzzava la faccia del provocatore. 

La vetrata si apri di nuovo e comparve sulla soglia l’Africana avvolta in un lungo pastrano: ehi ragazze è ora! Peppuccia la Pica e le altre ragazze si levarono di tra gli uomini che le perseguitavano con le mani e le parole e se ne uscirono dietro la loro padrona mentre pioveva e tutta la via del bagno borbonico era un lago melmoso. Turlendana amava il vino il brindisi in musica le serenate in onore della bellezza, i balli all’aperto i conviti larghi e clamorosi. 

Un gran ciuffo di capelli crespi gli sporgeva sulla fronte, gli brillavano agli orecchi femminilmente due cerchi d’argento. per il suo ritorno fu organizzata una grande festa con i due mariti e la mogliera; il maestro delle cerimonie recava le vivande in piatti dipinti, i vapori salivano come una nebbia. i vasi di vino, dalle anse bene usate passavano d’uomo in uomo, le braccia allungandosi e intrecciandosi su la mensa tra i pani cosparsi di anice e i formaggi piu tondi che il disco della luna, prendevano aranci mandorle olive. gli odori delle spezie si mescevano ai freschi effluvi vegetali e di qua e di là entro bicchieri di liquori limpidi i commensali offrivano brindisi gaudiosi. sul finire negli animi si accendeva una gioia bacchica i clamori crescevano fin che turlendana avanzandosi a capo scoperto con in mano un bicchiere colmo cantava un distico rituale che nei conviti della terra d’Abruzzi suol dischiudere ai brindisi le bocche amiche:
 
qistu vinu è dolge e galante;
a la salute di tutte quante!

Ripreso da Ferdinando Renzetti, narratore bioregionale 



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