Dipinto di Franco Farina
Maria Adele Anselmo, La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Johanne Håland,
Fondazione Thule Cultura, Pa 2011
(Recensione di Giuseppe Gorlani)
Tommaso
Romano scrive, nella Prefazione, che
con questo suo libro Maria Adele Anselmo consegna il lavoro della studiosa
norvegese Evy Johanne Håland: «… all’attenzione non solo di un ristretto
circolo di cultori ma alla più ampia considerazione di tutti coloro che
perseguono nella radice il senso vivo
della vita e dell’oltre».
È
bene chiarire subito come l’estensore delle presenti note appartenga al secondo
più ampio gruppo di lettori e come in tale veste, arricchita da un particolare
interesse per gli accostamenti tradizionali al Sacro, egli abbia trovato questo
volume estremamente interessante e stimolante.
Nella
sua Introduzione l’Autrice ci immerge
nella temperie dell’opera presentandoci sinteticamente la figura della Dea
Madre, il cui culto risale al Paleolitico ancor prima che al Neolitico, e il
cui archetipo è intriso di dualità: “elementare” e “trasformatore”. Il primo
carattere fondamentale è quello della madre che protegge, nutre, conserva,
accoglie; il secondo, in apparente contrasto col primo, è quello che presiede
alla morte, al divenire incessante, suscitando nell’individuo angoscia e
terrore. Al culto della Dea Madre, partogenetica, pare sia puntualmente legato
un sistema sociale di tipo matriarcale. Il Dio, la divinità maschile, compare
infatti in epoca più tarda e, assorbendo in sé le qualità femminili, permette
l’affermarsi di un sistema sociale patriarcale caratterizzato da una concezione
lineare del tempo, opposta a quella circolare connessa al culto della Grande
Dea.
Il
Dio uomo si afferma soprattutto per il tramite delle nuove religioni
monoteiste: Ebraismo, Islam e Cristianesimo. In quest’ultimo, il ruolo della
Dea è stato soppiantato da Maria, la quale però manifesta solo l’aspetto
materno, provvido e benefico e abbandona quello trasformatore, terribile. Qui il
Figlio, il principio è l’epicentro e Maria assume importanza soltanto «perché è
il tramite terreno della venuta di Cristo».
Anticipando
quello che costituisce il tema principale dell’opera, l’Autrice ci informa che
la Håland ha svolto un’accurata indagine comparativa incentrata sui culti
religiosi e sui rituali nella cultura greca antica e in quella moderna,
constatando come vi sia una connessione tra le feste dedicate alle Dee Madri,
in ambito mediterraneo, e quelle in onore della Vergine Maria, la Panagia (da pan, tutto, ághia, santa), la “Tutta Santa”, soprattutto nell’isola di Tinos,
nel Mar Egeo; entrambe, infatti, sovraintendono alle funzioni della fertilità,
della fecondità e della prosperità, legate al ciclo agricolo e all’anno
rituale.
«Il
presente lavoro – dichiara l’Autrice – intende illuminare ed esplorare la
prospettiva di ricerca adottata dalla Håland, caratterizzata da uno studio di
tipo comparativo e metodologicamente interdisciplinare con particolare riguardo
nei confronti del legame tra la sfera sacrale femminile, l’anno rituale, le
festività legate alle Dee Madri e i passaggi del ciclo della vita, con i suoi
significati e ambivalenze connessi alla fertilità e al rapporto vita/morte».
L’Introduzione si conclude con un quadro
sinottico dell’opera: il capitolo I introduce la figura di Evy Johanne Håland,
delineandone con accuratezza il percorso e la formazione accademica, i progetti
di ricerca, gli incarichi accademici, le collaborazioni culturali e la
produzione scientifica; nel capitolo II il tema del culto della Dea Madre viene
visto da diverse angolature attraverso gli studi di archeologi, mitologi,
antropologi e storici delle religioni quali Mircea Eliade, Marija Gimbutas e
Ignazio E. Buttita; nel capitolo III si riporta in inglese il saggio della
Håland, The ritual year as a woman’s
life: the festivals of the agricultural cycle, life-cycle passages of Mother
Goddesses and fertility-cult, con relativa traduzione, chiosato da alcune
riflessioni di Maria Adele Anselmo. E infine, in un’Appendice, troviamo la trascrizione di un’intervista che l’Autrice fece
alla studiosa norvegese durante un incontro svoltosi ad Atene nel 2010.
Le
pagine dedicate al celebre studioso Mircea Eliade si intitolano
significativamente: Mircea Eliade e il
dramma agrario. Di questo grande studioso l’Autrice dice: «Il suo pensiero,
rispetto a molti altri antropologi, si caratterizza non solo per l’attenzione
ma soprattutto per una sua convinta adesione al mondo arcaico, una sintonia che
egli manifesta nel riconoscere un primato antropologico alla categoria del
“sacro” poiché il fattore religioso e ancora più quello mistico rappresentano
per lo studioso la chiave di lettura per la comprensione dell’essenza
dell’uomo». I testi di riferimento sono il Trattato
di Storia delle Religioni, Storia
delle credenze e delle idee religiose. Dall’età della pietra ai Misteri
Eleusini, La Nostalgie des Origines,
Il sacro e il profano, Il Mito dell’eterno ritorno - archetipi e
ripetizione. Tra i principali argomenti trattati abbiamo il trapasso dalla
Terra-Madre alla Grande Dea, segnato dalla scoperta dell’agricoltura, che è
sostanzialmente: «passaggio dalla semplicità al dramma».
L’agricoltura, secondo
Eliade, conferisce alla donna una notevole importanza e «rivela in modo più
drammatico il mistero della rigenerazione vegetale». In tale prospettiva anche
la visione ciclica del tempo viene evidenziata, poiché rimanda alla
rigenerazione periodica del mondo e al misterioso e indefinito susseguirsi di
morte e rinascita.
Concludendo
le pagine dedicate allo studioso rumeno, Maria Adele Anselmo scrive: «In tale
contesto appare quanto mai rilevante sottolineare il valore fondamentale
assunto dall’agricoltura nell’evoluzione dell’umanità, poiché essa oltre a
costituire una prodigiosa fonte di cibo per le popolazioni, mostra un
significato più profondo che è possibile rintracciare soprattutto
nell’ottimismo soteriologico, ossia legato alla “salvezza”, insito nella
mistica agraria preistorica, proprio per il fatto che sia il seme nascosto
nella terra che i morti possono sperare in un ritorno alla “vita” sotto nuova
forma e quindi in una “rigenerazione”».
A
parte il fatto che, in chiave tradizionale, è opinabile definire come
“evoluzione” miglioratrice il passaggio per l’uomo dallo stato di
raccoglitore-cacciatore a quello di agricoltore, in simili visioni arcaiche
troviamo adombrato il significato riposto della Via degli Antenati e la sua
scaturigine. I morti sono i semi che, affidati al solco, ritornano puntualmente
alla luce. In India, come si sa, la Via degli Antenati (Pitryana) è quella seguita dalle persone che ottemperano al proprio
svadharma e che quindi, pur non
disperdendosi nella trasmigrazione nesciente, non escono dalla sfera terrestre,
in cui è inclusa la luna. Riguardo alla locuzione “ottimismo soteriologico”,
vorremmo però notare come i popoli dell’India (terra che Alain Daniélou
definisce “un museo vivente”) non ritengano la rinascita sulla terra l’esito
migliore. L’uomo dopo la morte o viene trascinato in modo incosciente nel
divenire cieco (samsara), o segue la
Via degli Antenati sovra accennata, in cui, dopo una sosta sulla Luna, si
ritorna allo stato animale od umano, oppure ascende di stato in stato (di mondo
in mondo, loka) lungo la Via degli
Dei, oppure si identifica col Brahman,
liberandosi in vita o al momento della morte dall’identificazione nel nascere e
nel morire.
Abbiamo
poi alcune pagine dedicate a Marija Gimbutas, archeologa e linguista di origine
lituana, autrice della celebre opera Il
linguaggio della Dea – Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica,
la quale con il rinvenimento di circa 2000 manufatti riuscì ad elaborare «un
glossario fondamentale di motivi figurativi che fungono da chiave
interpretativa per la mitologia di un’epoca altrimenti non documentata» (dalla Prefazione di Joseph Campbell all’op.
cit.). Con le sue ricerche ella riuscì a portare alla luce l’esistenza di
società (collocate nell’Antica Europa tra l’8000 e il 2500 a.C.) in cui vi era
uguaglianza tra i sessi e «sostanziale assenza di sistemi gerarchici e
autoritari». L’archeologa Riane Eisler le definì “gilaniche” (“gi” da gyné, donna, “an” da anér, uomo e la “l” in mezzo come legame
tra i due poli).
La
studiosa lituana elaborò inoltre la cosiddetta “Ipotesi Kurgan” in cui mette in
relazione la sparizione delle civiltà gilaniche con la discesa dei
proto-indoeuropei da Urheimat, località situata nel sud della Russia,
nell’Antica Europa. Secondo lei, le invasioni di tali popolazioni nomadi,
dedite alla pastorizia e ad attività guerriere – che chiamò “Kurgans”, poiché
erigevano tumuli sepolcrali detti kurgan
– determinarono: «l’ibridazione della civiltà europea, causando sconvolgimenti
di natura sociale: diffusione della violenza, confusione generale, movimenti
disordinati di popoli, importazione del patriarcato, del classismo e della
gerarchia». Prima di tali invasioni la donna avrebbe occupato un ruolo di
prestigio all’interno delle società arcaiche che la Gimbutas definisce di
“matrice materna”, precisando tuttavia come simile espressione non rimandi al
termine “matriarcale”. Questo, infatti, è intriso di idee di dominio e contrapposto
a “patriarcale”. In realtà il sistema gilanico sarebbe espressione di società
equilibrate «in cui non si avverte una preponderanza del potere della donna,
tale da usurpare tutto ciò che fosse prerogativa maschile; gli uomini infatti
continuano ad occupare le loro posizioni, a compiere il proprio lavoro, ad
adempiere i propri compiti e ad avere il loro potere».
L’archeologa
lituana diede altresì origine ad una nuova disciplina chiamata
“Archeomitologia”, basata «sullo studio comparato delle mitologie non
“scritte”, delle tradizioni orali popolari, del folklore, delle manifestazioni
magico-religiose». E infine non si può non menzionare come la stessa abbia
identificato la donna e la Dea che la essenzia con la Natura: «Attraverso una
comprensione di ciò che era la Dea, possiamo comprendere meglio la natura (…)
la Dea è esattamente questo: Lei è la natura stessa. Se la Dea è il mondo in
cui si manifesta, ogni segno a partire da questo rinvia alla divinità».
Cosa
assai importante, la Gimbutas associa la rappresentazione della vulva – che può
essere triangolare, ovoidale o romboidale – a segni rinvianti all’acqua, come
per sempio lo zig-zag; la vulva-acqua sarebbe, in tale ottica, l’utero cosmico,
la Shakti, il Principio femminile da
cui trae origine la vita manifesta.
Il
secondo capitolo si conclude con alcune pagine dedicate a Ignazio E. Buttita:
«eminente antropologo palermitano, si occupa dello studio della cultura
tradizionale nel Meridione d’Italia e soprattutto in Sicilia […] In particolare
ha focalizzato la sua attenzione sull’analisi del simbolismo cerimoniale
tradizionale connesso alla periodicità stagionale e alle scadenze del
calendario rituale, prediligendo un metodo storico-comparativo grazie al quale,
partendo dalla preliminare e puntigliosa ricerca delle affinità e delle
analogie, è giunto all’individuazione delle irriducibili specificità dei
singoli prodotti cultuali».
Egli
ha fatto suo il metodo “dell’osservazione partecipante” elaborato
dall’antropologo polacco Bronislaw Malinowsky, evidenziando con le sue ricerche
la salda connessione esistente tra la “periodicità rituale” e la “periodicità
naturale”, ovvero: riti e feste si susseguono in stretto contatto con i cicli naturali
degli equinozi e dei solstizi e con i momenti salienti del lavoro umano
finalizzato a trarre nutrimento dalla terra. In proposito lo studioso ricorda
le feste greche (Thesmoforie, Misteri
Eleusini, Haloa, Antesterie) e quelle romane (Feriae
sementivae, Fordicidia, Cerealia, Matralia).
Anche
presso il Cristianesimo l’anno liturgico manifesta legami evidenti con i cicli
agrari e stagionali; a livello rituale, infatti, questa religione si innesta su
tradizioni preesistenti. In particolare in Sicilia, l’attuale calendario
cerimoniale è ripartito in tre periodi connessi al ciclo del grano e a tre
dimensioni fondamentali: ctonia (semina), uranica (crescita) e sociale-umana
(raccolta, ringraziamento). Il ciclo del grano è, tra l’altro, dotato di un
forte significato metaforico che rimanda alle dottrine della rinascita: il
seme, affidato al solco, muore in quanto tale per rinascere pianta e quindi
spiga; dal che si deduce come «ogni morte annuncia una nascita, ogni nascita
deriva da una morte». Ciò ovviamente non vale solo per il grano ma anche per
l’uomo e spiega la credenza degli antichi nella metempsicosi, nonché la loro
associazione tra semi e defunti, tra morte e fertilità.
I
defunti pertanto sono in intimo contatto con la Grande Dea e presiedono al
benessere dei viventi. Il focolare è il luogo nella casa in cui l’uomo può
comunicare con le divinità femminili e con gli antenati. La Grande Dea
rappresenta il “centro” intorno al quale la vita si rinnova eternamente. Ella
non presiede soltanto alla fertilità ed alla fecondità, ma anche alla morte e
all’oltretomba.
In
sintesi, gli studi di I. E. Buttita: «offrono un considerevole e magistrale
contributo alla comprensione dei linguaggi mitico-rituali attribuiti alla
figura della Dea-Madre della quale, in una società ormai irreversibilmente
segnata da una concezione lineare del tempo, perdurano gli echi e le usanze
della ciclicità del mito e del rito».
Giungiamo
ora al nucleo dell’opera: il saggio di Evy Johanne Håland. In esso vengono
porti spunti di riflessione assai importanti a chi voglia recuperare il volto
femminile del Sacro e ripercorrere le tappe dell’allontanamento del mondo
moderno dalla comprensione dell’assiologia inerente la relazione Donna-Terra-Natura-Cosmo:
distacco sfociato nell’alienazione che lo scientismo attuale reputa l’apice del
progresso e dell’intelligenza.
Nella
cultura greca antica e contemporanea la festività religiosa è «un importante
mezzo di comunicazione, un’offerta o un dono». Abbiamo usato il termine
“contemporaneo” invece di “moderno”, utilizzato nell’originale, per evidenziare
come, a parer nostro, la cultura in cui ancora viene vissuta la festività
religiosa non sia quella “moderna”, figlia della “morte di Dio” e
dell’illuminismo agnostico, parodia dell’Illuminazione, bensì quella arcaica
che continua a sopravvivere, laddove gli uomini restano connessi ai cicli della
terra e del cosmo, perpetuando i significati, i culti e i sentimenti religiosi
dei quali si occupa la Håland nel suo scritto.
Nell’articolo
si legge: «l’anno agricolo è rappresentato negli stessi termini della vita di
una Dea Madre»: nell’antica Grecia il punto di riferimento era Demetra, oggi è
la biografia di Panagia. Comunque,
sia per gli antichi che per i contemporanei la percezione ciclica del tempo
resta centrale, poiché legata al movimento circolare (o, meglio, spiraliforme)
della Natura-Dea.
Credo
sia importante qui citare testualmente la Håland: «Come una vita umana
simbolizza l’anno agricolo, il corpo umano simbolizza il cosmo divino, che in
se stesso riflette i due sessi. La Terra è concepita come una Madre Terra ed
equivale alla donna. Inoltre le donne sono le più importanti interpreti dei
rituali durante le festività agricole». Evidentemente la saggezza simbolica ed
analogica adombrata nella citazione è inseparabile da un modus vivendi in intimo contatto con i cicli della Natura; essa
però si affievolisce o sparisce a mano a mano che gli uomini si svincolano
dalla realtà naturale, sostituendovi un paradigma astratto, privo di misura e
di ritmo, basato su un impossibile progresso illimitato.
L’anno
liturgico ortodosso procede di pari passo con la biografia di Panagia e
comincia in Settembre con la sua nascita. La nascita, l’ingresso nel tempio, la
concezione, la raccolta, l’annunciazione, la dormizione di Panagia sono momenti
a cui corrispondono determinati lavori agricoli e determinate feste rituali.
Un’analisi accurata dei riti contemporanei permette di capire che «la madre di
Cristo ha assunto le funzioni di una precedente Dea Madre pre-cristiana» e cioè
di Demetra, la dea delle messi.
«L’inno
omerico a Demetra descrive le origini dell’agricoltura». Demetra era le dea del
grano per eccellenza e il suo anno festivo coincideva con l’anno del grano che
cominciava con la semina autunnale. Tra le feste ad essa dedicate, molte erano
riservate solo alle donne. Alcuni Misteri celebravano la rinascita del grano
associandola al mito di Persefone (o Kore “la figlia”) stuprata e rapita da Ade
(o Plutone), il re degli Inferi, che la adescò con una melagrana, simbolo
sessuale di fertilità, ma anche di morte. «La storia della discesa e ascesa di
Kore negli Inferi è un’allegoria dell’anno agricolo». Cosa assai importante:
l’inno omerico e il calendario ortodosso «esplicano più di una funzione ed
agiscono su più di un livello».
La
Håland procede esaminando il rapporto tra fertilità-matrimonio e morte-iniziazione,
indi evidenzia il significato riposto della “caverna” e chiarisce come
l’attuale culto alla Panagia sostituisca l’antica devozione alla Dea Madre. Le
corrispondenze tra le festività antiche e quelle contemporanee: «mostrano come
le ideologie politiche ufficiali sono adattate a regole o mentalità
profondamente radicate connesse alla necessità di celebrare una festa dedicata
a una Dea Madre negli stessi momenti dell’anno agricolo, quando vi è lo stesso
squilibrio climatico tra secco e umido. Ciò significa che la festività moderna
dedicata a una Dea Madre ha probabilmente soppiantato il ruolo di una o più dee
precedenti».
Nell’ultima
parte del saggio, la studiosa sottolinea come le donne, «portatrici dei segreti
della fertilità», abbiano sempre occupato un ruolo centrale
nell’interpretazione e nello svolgimento dei rituali agricoli: «La cultura
umana tende generalmente ad associare le donne alla natura e al
soprannaturale».
Sia
nella Grecia antica come in quella moderna e nel mondo mediterraneo in generale,
alla donna viene attribuita la fertilità, all’uomo, la creazione; il sesso
femminile viene inscritto nella categoria “fisica”, quello maschile nella
“spirituale”. Le donne possiedono la padronanza sulla fertilità che possono
promuovere o inibire «con la loro conoscenza degli usi delle piante magiche».
Il loro corpo è associato alla terra e il loro organo sessuale è «una caverna
misteriosa inaccessibile alla vista dell’uomo». «L’anatomia femminile è più
segreta di quella maschile». Le donne, in virtù del loro possedere un “luogo
segreto”, il ventre, sono portate alla conoscenza dei segreti. Il corpo femminile,
il cui “luogo segreto” è spesso simbolizzato da una giara, un vaso, una grotta,
un giardino, è un microcosmo; da ciò si può comprendere bene come l’anno
agricolo e la vita di una donna siano un tutt’uno.
Qui
la Håland sostiene che tali associazioni sono frutto delle ideologie maschili
dominanti. Ella nota: «È stato detto che la svalutazione posta sulle donne
derivi dalla percezione che donna=natura, uomo=cultura, e dalla principale
preferenza della società “civilizzata” per la cultura sulla natura. Tuttavia,
la fertilità risiede nell’elemento “non civilizzato” che deve essere domato
dall’elemento maschile».
Vien
da osservare: se l’associazione fondamentale tra corpo femminile, fertilità e
terra è frutto di ideologia e condizionamento culturale, se ne deduce che non
esistono verità o leggi oggettive preposte al Manifesto. Sostenere che l’attribuzione
alla dicotomia fondamentale maschio-femmina di distinte proprietà e funzioni
sia frutto di condizionamento culturale significa imboccare un vicolo cieco.
Semmai
bisognerà sottolineare come l’uomo, nella sua progressiva decadenza dallo stato
di pienezza primordiale, sia gradatamente scivolato nell’arbitrarietà e nella
divisione, proiettando sulla natura-donna una connotazione negativa ed
inferiore. Una tra le poche dottrine metafisiche che tenta di rimediare a tale
errore è quella dello Shivaismo Trika
del Kashmir, in cui si ritiene che la Shakti
sia la kriya o lo spanda (pulsazione, vibrazione, energia)
inseparabile da Shiva. Dunque, in tale prospettiva, la Manifestazione o
Creazione non deriverebbe da ignoranza, ma sarebbe espressione della spontanea
e libera esuberanza dell’Assoluto.
Per
contro, nel mondo moderno, dietro il concetto di “emancipazione della donna”,
si cela la tendenza a mascolinizzare la donna e a femminilizzare l’uomo, il che
equivale a corteggiare il caos.
Comunque
nell’intervista conclusiva la studiosa norvegese spiegherà che cosa intende per
“ideologia patriarcale”, lumeggiando una prospettiva sostanzialmente
condivisibile.
Nelle
riflessioni di Maria Adele Anselmo sul saggio della Håland e sulla sua opera in
generale, si nota come «il filo di continuità tra presente e passato» sia dato
dalla stessa area geografica, dallo stesso clima in cui si svolgono i rituali
prima rivolti a Demetra e oggi a Panagia. In riferimento ai diversi ruoli
assunti dal femminile e dal maschile si chiarisce altresì come la Håland parli
di “sfera femminile” e di “sfera maschile” e come queste siano divise da una
linea di demarcazione non rigida che permette talvolta inversioni di compiti.
Ciò spiegherebbe la teoria ipotizzata dalla studiosa norvegese circa “la
decostruzione dei valori maschili”; gli uomini, infatti, essendo stati tutti
allevati nella sfera del femminile sino all’adolescenza hanno contezza dei
valori inerenti tale sfera.
Veniamo
infine all’intervista. La Håland comincia con lo spiegare la metodologia del
suo lavoro che attinge a ricerche sul campo (fieldworks) e che quindi si fonda su un approccio
antropologico-comparativo implicante un confronto diretto tra la Grecia antica
e quella moderna, dal quale emerge che il ciclo antico non differisce dal
moderno calendario agricolo.
Alla
domanda: «Crede legittimo ancora parlare di sincretismo pagano-cristiano in
Occidente?», risponde che la Grecia si situa al centro tra Oriente e Occidente;
la sua musica, per esempio, è più orientale che occidentale. Riconosce che il
cibo offerto nell’antichità alle dee è lo stesso che oggi viene offerto alla
Panagia o alla Paraskeva, tuttavia non direbbe mai che i Greci di oggi sono
pagani, bensì Cristiani. La continuità, come spesso ripete, è data dal luogo
geografico, dal clima, dal cibo, etc.
Le
viene domandato ancora: «Può dire qualcosa sulla annosa questione
“patriarcato-matriarcato” nelle società mediterranee antiche? Secondo Lei ha
ancora senso parlare di questa opposizione?». Si tratta di una domanda di
grande importanza alla quale la Håland risponde di non credere, a differenza
della maggior parte dei ricercatori, che la religione mediterranea sia
matriarcale o patriarcale o che prima ci fu il matriarcato e in seguito il
patriarcato, ma che piuttosto vi siano una sfera femminile ed una sfera
maschile, ognuna con le proprie competenze e poteri di espressione. Ella
aggiunge come la tendenza del Nord Europa sia quella di spingere gli uomini a
fare lavori che in genere facevano le donne e viceversa. Tuttavia restano
differenze biologiche invalicabili: «gli uomini non possono allattare i
bambini». C’è sì un’ideologia patriarcale, ma essa non necessariamente è
specchio della realtà. Ad esempio, nel matrimonio del figlio sembra che la
scelta della sposa spetti al padre quando invece è la madre a scegliere la
nuora che si porterà in casa. La risposta termina con le seguenti significative
parole: «Non mi piace questa opposizione. Ecco perché scrivo sempre “la
cosiddetta società patriarcale mediterranea”, perché non ci credo».
Riguardo
alla “decostruzione dei valori maschili” e ad un’eventuale sua predilezione
della sacralità femminile, ella spiega che è indispensabile entrare dentro i
valori maschili se si vuole imparare a leggere tra le righe, ravvisando i
valori femminili. Questi non sono immediatamente evidenti, ma emergono se si
scava in profondità. Così, nell’ambito della spiritualità tradizionale, Dio e
la Chiesa occupano i posti preminenti, ma se si guarda con maggiore attenzione
la Panagia è lì.
Concludiamo
aggiungendo alcune nostre osservazioni marginali: la prima concerne la teoria
secondo la quale la divinità maschile comparirebbe più tardi rispetto a quella
femminile, dando il via ad un sistema patriarcale caratterizzato dalla
concezione lineare del tempo. Avanziamo numerose perplessità su questa tesi sia
alla luce della mitologia indiana che di quella egiziana. In quest’ultima, per
esempio, Osiride è il dio della vegetazione, della fertilità e della
coltivazione e riveste un ruolo essenziale presso le religioni misteriche
poiché muore e risuscita. Leggiamo ne Le
livre des morts (Champdor Albert, 17, parigi 1973): «Osiride è l’attività
vitale universale, terrena o celeste. Sotto la forma visibile di un dio,
discende nel mondo dei morti per permettere loro la rigenerazione ed infine la
risurrezione nella gloria, perché ogni morto perdonato è un germe di vita nelle
profondità del cosmo, esattamente come un chicco di grano lo è nel seno della
terra». Non si può di sicuro dire che Osiride sia un dio recente, dato che le
sue origini sembrano scavalcare persino l’Antico Regno (tra il 2700 e il 2200
a.C.) e nemmeno che dalle poche righe citate si possa evincere una visione
lineare del tempo. Lo stesso può dirsi di Shiva, del quale, secondo Alain
Daniélou, si hanno le prime tracce addirittura nel 6000 a.C.. Ci sembra
pertanto giusto parlare, come fa la Håland, di qualità legate ad una sfera
maschile e ad una sfera femminile; polarità che, in ultima istanza, riflette la
questione fondamentale della relazione tra l’Uno e i Molti, tra Immanifesto e
Manifesto, tra l’Essere e l’Esistere, tra Purusha
e Prakriti.
La
seconda si riferisce all’inoppugnabile associazione proposta dalla Gimbutas tra
vulva ed acqua, intesa come fonte della vita, dalla quale molti deducono che l’Acqua
costituirebbe l’elemento primario da cui deriva tutto. In realtà secondo la
tradizione sapienziale, sia occidentale che orientale, l’elemento primo è il
Fuoco, da cui deriva l’Acqua e quindi la molteplicità degli esseri. Nella Pashna-upanishad si dice esplicitamente
che il Sole contiene le nubi da cui cade la pioggia. Inevitabilmente, nel mondo
manifesto caratterizzato dalla dualità e, in particolare, nel mondo umano
fondato sulla ragione dicotomica tutti gli enti si rapportano gli uni agli
altri in modo gerarchico.
Vi sono vari tipi di gerarchie relative alle più disparate
chiavi di lettura della realtà; in ogni caso, la gerarchia è inevitabile e sta
alla base del linguaggio. Il superamento della dualità e quindi della gerarchia
non va perseguito nella contrapposizione, bensì nella riflessione metafisica
anteriore al pensiero, alla quale si può accedere soltanto per mezzo
dell’intuizione noumenica che ha sede nel Cuore, il Centro dell’ente, dove Shiva e Shakti, il principio maschile discendente e quello femminile
ascendente, si incontrano e si risolvono nel Sé-Atman.
E
infine, l’identificazione Donna-Natura, più volte proposta in questo libro, ci
induce a riflettere sul grave squilibrio in cui è caduto il mondo moderno; squilibrio
che non deriva tanto dalla predominanza di un maschile astratto, predatorio e
miope su un femminile dimentico della propria dignità, come molti presumono, ma
dall’alienazione rispetto alla realtà archetipale di entrambi. Basti pensare che
procedendo col ritmo attuale nella cementificazione l’Italia entro sessanta
anni avrà consumato l’intero suo territorio. I nostri nipoti o persino i nostri
figli potrebbero non vedere più un bosco o un prato.
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