giovedì 14 agosto 2014

Relazione ecologica bioregionale fra uomo ed animale




Anni fa, quando incontravo classi di alunni delle scuole elementari
per parlare di animali domestici ero solita incominciare
“classificando” gli animali domestici in animali da reddito ed animali
da affezione e sul diverso “uso” che si fa, noi umani, di queste due
categorie di animali, dato che sempre di “uso” si tratta.

Nei loro riguardi si può facilmente notare il diverso atteggiamento
dell’uomo di oggi: gli animali d'affezione o pets spesso sono
considerati e trattati come veri e propri membri della famiglia,
quando non sono sostituti di figli, amici o compagni non avuti o forse
non abbastanza amati. Vivono all'interno delle nostre case, sono
oggetto di cure, premure ed attenzioni come forse a volte non ce
l'hanno nemmeno i nostri anziani, rispettati ed amati nelle culture
arcaiche e spesso oggi dimenticati. A seguito di questa nuova
“sensibilità” collettiva sono state emanate disposizioni che tutelano
il loro benessere ed, in un clima di “animalismo” dirompente,
aumentano le segnalazioni di “maltrattamento”.

Al contrario, gli animali da reddito, vengono comunemente considerati
e trattati dai loro proprietari come delle macchine, che per produrre
hanno bisogno di un carburante, l’alimento, di strutture,
l’allevamento e che devono fornire un reddito adeguato, da cui la
diffusione dell’allevamento intensivo. .Il consumatore, spesso e
volentieri, è completamente indifferente a questo stato di cose, anche
per una scarsa conoscenza dei sistemi di vita di questi animali. Parlo
per la realtà in cui vivo ed opero, una zona ad ancora elevata
produzione di alimenti di origine animale.

Durante i miei studi universitari di veterinaria, parecchio tempo fa,
si cominciavano ad insegnare in zootecnia le tecniche dell’allevamento
intensivo, le strutture, le attrezzature, le condizioni, i tempi, le
diverse tipologie, a seconda della specie e dell’attitudine degli
animali allevati, come se l’unico sistema o almeno il migliore, fosse
questo: ho superato esami di zootecnia e di tecnica mangimistica in
cui l’allevamento rurale non era neanche contemplato (ed in effetti,
per questo sistema non c'è bisogno di particolare preparazione e
studio).

Gli animali negli allevamenti intensivi sono tenuti costantemente
confinati se non addirittura al chiuso per tutta la loro vita. Per
molti di essi (suini, pollame) l’unico momento in cui vedono la luce
del sole è l’uscita dall’allevamento per il macello.

Ma dall’altra parte, c’è ancora una moltitudine di operatori, che di
questo lavoro vivono, anche se con profitti molto più modesti degli
anni ’70-’80, quando ci fu il boom della fettina ogni giorno. Il
consumo di prodotti di origine animale ed in particolare della carne,
diventò una specie di status symbol prima e poi un’abitudine
inveterata, con conseguente maggiore richiesta e necessità di
aumentare le produzioni e la competitività tra le aziende. La
globalizzazione dei mercati poi ha coinvolto anche questo settore
produttivo ed il commercio degli animali vivi e dei prodotti di
origine animale si è allargato a paesi europei ed extra europei, sia
in entrata che in uscita e così quello di tutte le merci che ci
ruotano attorno, principalmente mangimi.

I prezzi dei prodotti non sono aumentati come quelli di altri beni di
consumo e quindi per mantenere le aziende in attivo si è dovuto
ricorrere ad un aumento dello sfruttamento degli animali. Sappiamo
ormai tutti che gran parte delle terre coltivate mondiali sono
occupate da coltivazioni di cereali e soia per l'alimentazione del
bestiame a scapito di colture che potrebbero alimentare direttamente
gli esseri umani , con la distruzione di foreste che potrebbero
contribuire a risanare l'atmosfera del globo.

Sembra che la riconversione di queste attività verso modelli più
sostenibili dal punto di vista ecologico e del benessere animale, sia
improponibile economicamente o forse solo culturalmente e si può anche
capire che persone che hanno investito tutte le loro risorse,
competenze, e aspettative per un futuro economicamente tranquillo per
loro e magari anche per i loro figli, non siano favorevoli a buttare
tutto al macero e ricominciare riavvicinandosi ai vecchi sistemi, con
una nuova consapevolezza.

Questa consapevolezza tarda a diffondersi in certi settori e strati
culturali . Inoltre ci sono tradizioni gastronomiche e culinarie che
sono il simbolo di certe regioni e che una gran parte della
popolazione tiene a mantenere ed anzi a consolidare e, nell'ambito
commerciale, ad esportare, se possibile. E quindi, se in Italia in
generale diminuisce il consumo degli alimenti di origine animale , si
cercano nuovi mercati e si cerca di “sfondare” in paesi come la
Russia, gli Stati Uniti e tanti altri. Con le difficoltà burocratiche
e le incertezze dei mercati che la cosa comporta.

A mio modesto avviso, fisiologicamente non abbiamo necessità di un
consumo di tante proteine di origine animale, eventualmente solo di
un'integrazione, anche a seconda dell'età e del tipo di attività
fisica lavorativa che si svolge.

Sono convinta che l’agricoltura ha solo da avvantaggiarsi del concime
animale, e della presenza fisica dell'animale sui terreni, magari a
rotazione, ma non della quantità di letame e liquami che attualmente
vengono prodotti, inquinando sempre più le falde acquifere e
l’atmosfera o, in alternativa, comportando un costo esorbitante per lo
smaltimento, con depuratori che raramente funzionano secondo le
ottimistiche previsioni con cui furono costruiti.

Da parte di alcune frange di consumatori, si sta creando attorno
all’allevamento intensivo un movimento di opinione, che punta il dito
sulla sofferenza che questo ingenera in esseri viventi che condividono
con noi questo passaggio sulla nostra bella e martoriata Madre Terra e
sui danni di natura ecologica da esso causati.

Si stanno infatti diffondendo un vegetarismo e un veganesimo per
motivi etici, per evitare in assoluto la sofferenza che deriva dal
cosiddetto “sfruttamento” che sarebbe insito nell'appropriarsi di
qualsiasi prodotto animale.

Io sono invece per un riequilibrio (ovvio che questo concetto è
soggettivo), sono per un ritorno ai consumi che c'erano fino agli anni
'50 del secolo scorso, prima dell’avvento dell’allevamento
industriale, in una simbiosi mutualistica fra uomo e animale: l'uomo
può offrire protezione e qualche piccola quantità di alimento
supplementare all'animale, prendendo in cambio una piccola quota di
prodotto e questo tipo di rapporto potrebbe valere anche per gli
animali da compagnia, che dovrebbero essere lasciati liberi di vivere
in maniera più naturale, ed, in questo sistema, potrebbero anche loro
svolgere ancora compiti di una qualche utilità e non solo stare seduti
sui nostri salotti come oggi avviene in massima parte.

Il tutto poi va visto in un'ottica di riduzione dei consumi e di
abolizione degli sprechi, imparando ad accontentarci di quel che ci è
necessario senza rincorrere beni superflui, riscoprendo la solidarietà
verso tutti gli esseri viventi, umani e non, e riappropriandoci delle
nostre innate ma dimenticate capacità di sopravvivenza, pensando al
futuro nostro e del pianeta.

Caterina Regazzi
Referente Rapporto Uomo Animali della Rete Bioregionale Italiana

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