Ci
sono voluti quasi vent'anni per comprendere che il fenomeno de global
warming
era una realtà e non una fantasia dei soliti ambientalisti e poi
dieci anni per accettare che fenomeni estremi indotti dai
cambiamenti climatici potevano (e possono) produrre danni anche alle
economie sia dei Paesi industrializzati che di quelli in via di
sviluppo.
L'IPCC
all'inizio della sua attività, al fine di bloccare il trend negativo
dell'innalzamento della temperatura sul globo, prospettò alle
nazioni e ai popoli della Terra tre passaggi importanti, il primo: la
conoscenza del problema; il secondo: una strategia di lotta politica
e scientifica compatta a livello planetario per bloccare il fenomeno
e il terzo, qualora gli sforzi per bloccare il fenomeno non fossero
andati in porto: l'adattabilità. Ora la prima fase, quella della
sensibilizzazione al problema è stata abbondantemente acquisita a
tutti i livelli: da studi, documentari televisivi, pubblicazioni,
corsi e quant'altro. La seconda fase, quella della lotta ai
cambiamenti climatici, dopo una serie di incontri internazionali dal
1997 ad oggi si è fatto ben poco, lo stesso accordo sul protocollo
di Kyoto, che cerca di ridurre in maniera insignificante l'emissione
di gas serra nell'atmosfera, ha corso il rischio di fallire più
volte. Morale: la percentuale di CO2 in atmosfera dai 280 ppm
dell'inizio 1900 è oggi passata a circa 400 ppm, determinando un
aumento della temperatura media della Terra di 1 grado. Quindi
fallita questa fase ora non resta che l'adattabilità agli eventi,
quindi prevedere i fenomeni che stanno alla base dell'aumento della
temperatura globale e agire di conseguenza. Ad esempio se a causa
dell'aumento dei livelli del mare la pianura Pontina venisse allagata
come parte della Val Padana, allora tre sono le decisioni da
prendere: alzare grandi dighe, come in Olanda, lasciare che le acque
del mare invadano le pianure e, magari, organizzare in più punti la
pescicoltura e, infine, abbandonare le zone invase dal mare e
ritirarsi in collina. Non sono fantasie queste illustrate, sono una
triste realtà tra l'altro presentata 10 anni fa dall'ENEA in un suo
dettagliato studio sugli effetti dell'innalzamento dei mari a causa
del global
warming.
Tutto
questo, oltre ad avere un pesante impatto sulla società, avrà un
più pesante e drammatico impatto sull'economia della nazione e,
quindi, sul PIL.
A
parlare del collegamento diretto tra economia e disastri ambientali
in maniera più estesa, studio richiesto dal governo inglese, fu nel
2006 Sir Nicholas Stern attraverso il suo famoso rapporto "economia
mondiale minacciata dai cambiamenti climatici".
Rapporto in parte contestato da economisti a digiuno dei fenomeni
connessi al global change e in parte osannato dagli ambientalisti. La
conclusione di questo studio può essere sintetizzata in una frase di
Stern contenuta nella conclusione della sua relazione: " Se
l’economia viene usata per progettare politiche efficaci dal punto
di vista della prevenzione, allora, l’azione per affrontare il
cambiamento climatico consentirà alle società di crescere molto più
rapidamente nel lungo termine di quanto faccia il non agire; noi
possiamo essere ‘verdi’ e crescere. Se non saremo ‘verdi’,
alla fine costituiremo una minaccia per la crescita, comunque la si
misuri".
Ora
molti Paesi, tra cui il nostro, nei loro programmi finanziari ed
economici di previsione non tengono ancora conto di quanto sta
accadendo di non positivo sul nostro pianeta. Se prendiamo in
considerazione gli studi del NOAA circa le incidenze delle tempeste
tropicali, degli uragani e dei tifoni notiamo che dal 1950 ad oggi
sugli oceani sono aumentate in maniera vistosa. Solo sull'Atlantico
da 5 o 6 uragani annuali di una certa importanza fino al 1980 siamo
passati oggi dai 15 a 20 fenomeni estremi alcuni dei quali sono poi
impattati sulla terra ferma. Oltre all'aumento del numero degli
uragani, abbiamo dovuto registrare l'aumento dei livelli di energia
che li contraddistinguono; nel passato raramente superavano livello 2
oggi siamo passati anche a livello 5, il massimo della scala uragani.
Katrina è un esempio. Ma perché accade questo? Semplice, Uragani e
Tifoni sono i regolatori del calore degli oceani, sono per fortuna le
valvole di sfogo dell'eccessiva temperatura dei mari. Essi hanno il
compito di scaricare l'energia calorica in eccesso dalle aree
equatoriali e tropicali verso quelle temperate e polari. Sono
fenomeni che regolano la stabilità climatica del pianeta. Quindi più
fa caldo più intensi e continui saranno questi fenomeni.
Da qui un
completo sconvolgimento delle aree climatiche del pianeta dove si
acuiranno le precipitazioni piovose e di conseguenza gli allagamenti,
le frane e gli smottamenti e come contraltare lunghi periodi di
siccità e incendi colossali sulle ultime foreste del pianeta.
Questa
situazione, certamente non allegra, che sta coinvolgendo il clima del
pianeta è dovuta all'innalzamento di appena un grado di temperatura
globale. Cosà avverrà quando raggiungeremo i 2 gradi e più di
aumento della temperatura media del pianeta?
Tutto
ciò avrà, ma già oggi, ha un pesantissimo impatto sulle economie
dei Paesi vittime di questi fenomeni meteo.
I
disastri naturali stanno diventando una normale consuetudine, non
passa anno in cui apprendiamo dai mass media di eventi catastrofici
che passando dalla Cina, arrivano nel continente americano e poi in
Australia, Africa e infine in Europa. Purtroppo ci stiamo facendo
l'abitudine, come in estate per la presenza della fastidiosissima
zanzara tigre o delle meduse urticanti nei nostri mari, regalini
questi dateci proprio dai cambiamenti climatici. Per i grandi
disastri climatici, oltre alla perdita di vite umane, si ha un
pesantissimo colpo sulle nostre economie. Secondo il prestigioso
Economist,
cinque dei dieci disastri naturali che hanno avuto il maggior costo
economico negli ultimi trent’anni sono avvenuti tra il 2008 e oggi.
Questo cambiamento, spiega
il settimanale
britannico, ci dice qualcosa sull’organizzazione dell’economia
mondiale, sempre più concentrata e interconnessa, sugli spostamenti
della popolazione, dalle campagne ai centri urbani, e sui modi con
cui è stata gestita la prevenzione dei disastri naturali.
Il 2011 è stato
l’anno peggiore dopo il 2004 a causa delle alluvioni
in Thailandia,
Cina e Australia, dello tsunami
in Giappone
e dei terremoti
in Nuova Zelanda.
A
livello di prevenzione soprattutto per gli tsunami e gli uragani si
sono fatti passi da giganti, soprattutto lo si è visto con l'Uragano
Sandy che ha investito recentemente la stessa New York, e dove i
piani di evacuazione hanno funzionato molto bene e si sono
risparmiate molte vite umane, però tutto questo è costato alle
casse USA oltre 300 milioni di dollari. Purtroppo i Paesi più poveri
non hanno disponibilità economiche per fare quello che farebbero i
Paesi occidentali per cui sono i più esposti a disastri e di
conseguenza a perdite umane. Infatti i Paesi dove i disastri naturali
hanno ucciso più persone sono quelli più arretrati e isolati, che
non hanno fatto nulla o quasi per la prevenzione: tra questi, il
devastante terremoto di Haiti del 2010, i cui numeri non sono stati
definiti con chiarezza due
anni dopo il disastro
ma che ha sicuramente ucciso diverse decine di migliaia di persone.
I
costi economici legati alla prevenzione e alle azioni di intervento
umanitario dopo un disastro sono in crescita. Questo è dovuto,
scrive l’Economist,
al fatto che «una parte crescente della popolazione mondiale e
dell’attività economica si va concentrando in luoghi a rischio di
calamità naturali: coste tropicali e delta dei fiumi, vicino alle
foreste e lungo faglie a rischio sismico». Un esempio esaminato
dal settimanale è quello della Thailandia. Dopo le ultime alluvioni
molto serie, nel 1983 e nel 1995, i distretti industriali più
orientati all’esportazione si sono concentrati intorno a Bangkok e
nelle pianure alluvionali più a nord, lungo il fiume Chao Phraya,
che fino ad allora erano coltivate a risaia proprio perché erano
regolarmente esposte ad alluvioni. Nelle ultime alluvioni, le acque
hanno superato le dighe di sei metri intorno al distretto industriale
di Rojana, allagando le fabbriche di importanti produttori di
automobili e materiale tecnologico, tra cui Honda e Western Digital,
un’azienda di dischi rigidi. I prezzi dei dischi rigidi hanno
subito un aumento in tutto il mondo, mentre le alluvioni hanno
causato complessivamente una diminuzione della produzione industriale
stimata da J.P. Morgan in un 2,5 per cento, con un costo per il paese
di circa 40 miliardi di dollari, il più costoso della storia della
Thailandia.
L’evoluzione
urbanistica e la crescita economica nei paesi in via di sviluppo
rendono più probabili disastri con un grande impatto economico:
secondo uno studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico pubblicato nel 2007, nel 2050 sette dei dieci
maggiori centri urbani del mondo esposti al rischio di inondazioni si
troveranno nei paesi in via di sviluppo, mentre nel 2005 non ce n’era
nessuno. Il processo sembra inevitabile, dice l’Economist,
e i paesi del mondo dovranno prendere le contromisure adeguate:Da una
parte, l’urbanizzazione toglie alle città le difese naturali
contro i disastri ed espone più persone alla perdita della vita o
delle proprietà in caso di terremoto o di ciclone, ma dall’altra
parte, l’urbanizzazione offre ai meno abbienti l'opportunità di
vivere o sopravvivere. La densità e le infrastrutture delle città
rendono le persone più produttive e più capaci di permettersi le
misure per mantenersi sicure. Le misure per mitigare l’impatto dei
disastri non devono scoraggiare la gente dall’ammassarsi nelle
vulnerabili città, ma piuttosto devono essere un incentivo per le
città e i loro abitanti a proteggersi ancora meglio.
Alcuni economisti
hanno cercato di stimare i costi economici aggregati netti dei danni
causati dai mutamenti climatici. Tali stime sono lontane da
presentare conclusioni definitive: su circa un centinaio di stime, i
valori variano da 10 $
per tonnellata di carbonio (3 dollari per tonnellata di anidride
carbonica) fino a 350 dollari (95 dollari per tonnellata di anidride
carbonica), con una media di 43 dollari per tonnellata di carbonio
(12 dollari per tonnellata di anidride carbonica).
Gli studi
preliminari suggeriscono che i costi e i benefici della mitigazione
del fenomeno di riscaldamento globale sono a grandi linee attorno
alla stessa cifra.
In base al
programma ambientale delle Nazioni Unite (United
Nations Environment Programme
- UNEP),
i settori economici che dovranno affrontare con maggiore probabilità
gli effetti avversi del cambiamento climatico includono le banche,
l'agricoltura
e i trasporti. Le nazioni in via di sviluppo che sono dipendenti
dall'agricoltura saranno particolarmente colpite.
In tutto questo
Lo Stern
Review,
ha ipotizzato una riduzione del PIL
globale di un punto percentuale a causa degli eventi meteorologici
estremi e nello scenario peggiore la riduzione del 20% dei consumi
globali pro capite.
E allora cosa
stiamo aspettando? Potrà il nuovo governo e parlamento italiano
affrontare e cercare di trovare una soluzione a questa incombente
realtà che già è tra noi, oppure si continuerà a parlare di
aumentare le tasse per far contenti gli istituti finanziari tedeschi
e USA?
Questo
è un compito serio che dovranno affrontare i nostri parlamentari,
però ognuno di noi può già contribuire a bloccare questa corsa
verso l'ecocatastrofe. Non ci rimane che avviare una vera rivoluzione
culturale. Trovare in noi una
nuova coscienza in grado di ricostruire il rapporto tra uomo e
ambiente e limitare il danno indotto da una società consumistica
che, in nome del profitto di pochi, induce le persone a comprare cose
voluttuarie e a disfarsene dopo poco tempo, aumentando così la mole
dei rifiuti che poi impattano con l'ambiente e nel contempo tolgono
ancora risorse al nostro pianeta. Pensiamo e viviamo oggi troppo alla
giornata, non ci poniamo il problema di ciò che lasceremo ai nostri
figli e ai nostri nipoti. Nel parossismo del nostro egoismo umano
finalizzato al piacere d'avere subito e godere oggi stiamo
distruggendo il futuro dell'umanità. Se non ci sarà una profonda
inversione di marcia nel pensiero e nelle coscienze verso un
progresso responsabile e sostenibile, poco resterà alle popolazioni
del futuro per sperare di vivere su questo pianeta almeno con un
minimo di dignità.
Ennio La Malfa
Nessun commento:
Posta un commento