Negli ultimi decenni, l’agricoltura ha visto una continua evoluzione delle forme organizzative della produzione. La tecnologia e l’innovazione hanno portato, in molti casi, ad una emarginazione del lavoro manuale in agricoltura, sostituito da un’intensa meccanizzazione e ricorso massiccio alla chimica, ma anche ad una artificializzazione delle tecniche colturali e di gestione delle risorse naturali (semi, suolo, paesaggio, acque), guidati dalla ricerca spasmodica della massimizzazione della produttività (e dei profitti). A livello nazionale e internazionale, i processi di investimenti nel settore agricolo, insieme alle politiche nazionali e ai meccanismi internazionali di cooperazione economica e commerciale, hanno portato al consolidamento di corporation transnazionali dell’agro-business, che esercitano un potere oligopolistico nell’ambito del sistema agro-alimentare, dalla produzione alla distribuzione sui mercati.
Questa evoluzione del sistema segue il processo di ristrutturazione neo-liberista a livello globale, traducendosi in una diminuzione del numero delle aziende agricole e in un aumento della dimensione delle stesse. Le aziende più grandi operano nel settore a livello transnazionale, con l’obbiettivo di diminuire sempre di più i costi di produzione per massimizzare i profitti, a discapito dei diritti umani e di riproduzione sociale, in virtù delle pressioni sui salari del lavoro, sui redditi agricoli e sulle risorse naturali e sui mezzi di produzione.
Sul territorio italiano, coesistono diversi modelli produttivi: da quello industriale a quello di piccola scala e/o familiare, passando per aziende di media dimensione. La diffusione di uno o dell’altro modello porta con sé conseguenze sotto diversi aspetti. Se si analizza il modello agricolo industriale si comprende facilmente la struttura in cui questo è inserito: la base è il sistema della Grande Distribuzione Organizzata (GDO), la quale è formata dai grandi supermercati ed è fondata sul principio che tutti possiamo avere tutto e sempre. Dal punto di vista sociale, le aspettative lavorative si stanno abbassando sempre di più, fino ad arrivare all’accettazione di condizioni contrattuali e lavorative molto inferiori rispetto agli standard medi di pochi anni fa. In questo quadro, si inserisce anche l’azienda agricola di piccola scala o a conduzione familiare, la quale soffre molto della competizione sul mercato dei grandi produttori: nonostante esistano diversi modelli di produzione, il mercato è unico, mentre il costo dei processi produttivi cambia molto. I soggetti che subiscono le conseguenze di questo sistema sono due: da una parte il contadino che non ha la possibilità di vendere a prezzo equo i prodotti del proprio campo e quindi derivare un reddito adeguato dalla propria attività, dall’altra i braccianti che vengono sfruttati attraverso contratti irregolari,nessuna protezione a livello sociale e pessime condizioni di vita.
L’interesse delle mafie rispetto al settore agricolo è testimoniato dalle numerose inchieste giudiziarie nell’ambito dell’import-export oltreoceano dei nostri prodotti agro-alimentari, della contraffazione, della logistica, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, dei mercati ortofrutticoli e dei diversi passaggi che caratterizzano la filiera. Inoltre, un altro dato descrive meglio questo interesse: quasi il 50% dei beni sequestrati o confiscati alle mafie sono proprio terreni agricoli. Questo intreccio fra quadri legali e illegali,
l’alternarsi di attori diversi all’interno di un sistema agro-alimentare sempre più ampio e complesso determina un’opacità dei rapporti di lavoro e delle connessioni di mercato che permette un facile sfruttamento e il drenaggio di risorse economiche importanti. C’è da sottolineare però che il solo focus su criminalità e agro-mafie oscura il ruolo dei rapporti di produzione, dunque le responsabilità del sistema produttivo e del sistema di regolazione, nazionale e sovranazionale. C’è quindi la necessità di evitare la fossilizzazione sulla questione della criminalità – seppur tenendola in considerazione – e vedere il problema come un sistema più ampio.
Infatti non c’è bisogno delle infiltrazioni mafiose perché si verifichino situazioni di sfruttamento in Italia: si sta assistendo ad una trasformazione della morfologia del territorio, in cui le grandi aziende accumulano capitali, costringendo i contadini a vendere le proprie terre – soffocati da pressione fiscale, burocrazie e regole miopi e costi di produzione troppo alti – attuando una sorta di landgrabbing. Per questo motivo una trasparenza della filiera produttiva è fondamentale. La GDO e le grandi aziende transnazionali dovrebbero, ad esempio, munirsi di un’etichetta narrante, che renda disponibile a tutti le informazioni sui fornitori e sul numero dei passaggi che ci sono lungo la filiera, e che accompagni il consumatore verso una scelta consapevole basata sull’origine del prodotto. E’ importante sottolineare però come le forme di certificazione portino dei costi: bisogna quindi porre l’attenzione sul fatto che il costo di questa organizzazione di filiera non ricada poi sui piccoli produttori.
L’approccio istituzionale fino ad ora si è basato, quasi esclusivamente, sulla repressione del caporalato come unico responsabile dello sfruttamento dei braccianti. Questo approccio di tipo repressivo ignora altre problematiche legate alle condizioni specifiche dei migranti, ma anche all’organizzazione del mercato del lavoro e soprattutto all’organizzazione del sistema agroalimentare. Leggi sull’immigrazione e politiche di asilo che determinano condizioni di estrema ricattabilità delle persone, la mancanza di un servizio di collocamento efficiente, l’assenza di un intervento strutturale del Governo sul sistema di produzione agricola, e sul sistema alimentare in generale. Infine, una seria riflessione sullo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne non può non considerare il ruolo di politiche commerciali e di investimento a livello nazionale e sovranazionale, le quali promuovono modelli di produzione intensivi, con conseguenze economiche, sociali e ambientali estremamente negative, alla base – spesso – dei processi migratori.
Un cambio nelle forme di produzione – o per lo meno un riconoscimento dei diversi modelli esistenti sul territorio – è una priorità, dal momento che ingloba diversi aspetti sociali, economici e culturali, fondamentali per la vitalità del settore agricolo italiano. delle aree rurali, sempre più soggette a processi di spopolamento, invecchiamento e dissesto idro-geologico. Il modello dell’Agricoltura Contadina rappresenta l’alternativa all'agroindustria. Si tratta di un’agricoltura di piccole dimensioni, basata sul lavoro intensivo del conduttore diretto e, prevalentemente, dei membri della famiglia o della comunità. Finalizzata alla produzione di reddito e alla riproduzione in autonomia. Il lavoro agricolo che si fonda sul rapporto di coproduzione con la natura: il rispetto delle risorse ambientali e della terra, il rifiuto di sostanze chimiche, l'auto-produzione delle sementi (dove possibile) permettono l’indipendenza, anche economica, del
contadino. Si tratta di un’agricoltura che partecipa a mercati locali e realizza la vendita diretta, con un prezzo che cerca di rispecchiare i costi di produzione, finalizzato a garantire il reddito. Queste condizioni possono garantire trasparenza e condizioni di lavoro dignitose. Si tratta di una realtà già presente e di un’alternativa strutturale per il futuro dell'agricoltura, da rafforzare attraverso sistemi di distribuzione decentralizzati, di dimensioni ridotte e autogestito il più possibile.
Questa alternativa all’attuale sistema produttivo, sostenibile, etica ed inclusiva, dal punto di vista economico e sociale, già esiste ma va protetta. Pensiamo che il riconoscimento legislativo di questo modello agricolo (http://www.agricolturacontadina.org/) possa essere un passaggio fondamentale al fine di perseguire l’eliminazione dello sfruttamento dei lavoratori agricoli e delle condizioni che vi sono alla base. La fine del ricatto lavoro/documenti di soggiorno e politiche di accoglienza per i migranti e rifugiati – i quali formano una grossa fetta dei braccianti – sono altresì importanti per garantirne il rispetto dei diritti e scelte di vita autonome. La promozione di un processo di sindacalizzazione e mobilitazione collettiva trasversale al mondo rurale, che unisca insieme lavoratori e produttori agricoli, a livello nazionale e transnazionale, sarà l’obiettivo di una strategia di azione per una via contadina di carattere bioregionale.
Gruppo di lavoro “Bracciantato e Agricoltura Contadina” (braci@googlegroups.com) partecipano attivamente persone di:
Associazione Rurale Italiana, Centro Internazionale Crocevia, Sos Rosarno,
M.a.i.s. Ong, ContadinAzioni, U.S.B., Funky Tomato, Centro studi per lo Sviluppo Rurale Unical
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