Da giorni i media ci raccontano, con dovizia di particolari (più o meno rispettosamente), le conseguenze del terremoto che ha devastato la provincia di Rieti. L’ondata emotiva che hanno contribuito a montare ha generato, di conseguenza, una gara di solidarietà tra gli italiani che sono accorsi numerosi a prestare il proprio aiuto alle popolazioni colpite da una così immane tragedia.
Una gran parte dell’attenzione è giustamente posta sui volontari, provenienti da tutta Italia, che si sono messi a disposizione e che hanno lavorato e continuano a lavorare notte e giorno, ininterrottamente, per salvare vite e contribuire a salvare il salvabile. Alcuni li definiscono angeli, altri eroi, io li definisco civili. Se il termine civiltà ha ancora un senso e trova ancora cittadinanza nella nostra società, lo possiamo ritrovare e riconoscere in questi gesti, in queste azioni che, a mio avviso, non dovrebbero manifestarsi solo in queste circostanze estreme e a favore di telecamera.
L’Italia è un paese in continua emergenza, un paese estremamente fragile oltre che morfologicamente variegato, che avrebbe bisogno di mettere in piedi una squadra di volontari permanenti con l’obiettivo di ricostruire pezzo per pezzo il territorio, che è stato a seconda delle circostanze abbandonato, violentato, sfigurato, sottovalutato, negato.
Non è pensabile e non è immaginabile credere che la ricostruzione e la messa in sicurezza, ma anche l’organizzazione e la gestione del territorio, possano essere affidate alle cosiddette “istituzioni”, per due motivi:
1) non è sufficiente stanziare dei soldi per ricostruire un territorio, l’italiano medio (che sia un cittadino, un imprenditore o un politico) è abituato a considerare i soldi provenienti dalle istituzioni come un’occasione per arricchirsi a discapito degli altri e del territorio, per cui stanziare soldi (calandoli dall’alto) equivale a perpetrare comportamenti già visti in passato e a mantenere inalterati i problemi (se non ad ingigantirli). L’Aquila, l’Irpinia e tanti altri disastri docent.
2) Spetta ai cittadini che vivono il territorio acquisire la consapevolezza di dove si trovano e di quali pericoli possono incombere sulla propria comunità e pianificare le azioni volte a mettere in sicurezza, ma anche a valorizzare, le risorse presenti nella propria comunità. Partendo dalla propria casa.
Si chiama bioregionalismo, un termine che viene dalla parola greca bios (vita) e da quella latina regere (reggere o governare). Occorre ricominciare a governare le nostre vite e il nostro territorio e farlo partendo da singole iniziative, considerare il territorio come geograficamente omogeneo in cui dovrebbero essere predominanti le regole dettate dalla natura e non le leggi che l’uomo ha definito artificialmente, determinando confini amministrativi, astrusi e insignificanti, come tutto ciò di cui si circonda.
Molti residenti non sono neanche consapevoli di vivere accanto ad un fiume, ad un canyon, ad un bosco, ad una cascata, tutto ciò che non è urbanizzato non viene frequentato e preso in considerazione.La paura dei luoghi selvaggi o naturali, inculcata dalla Chiesa che fin dall’Alto Medioevo scaricò sulle selve (oscure) tutta la propria ostilità, considerandole roccaforti dei culti pagani, ha impedito alle persone di considerare i luoghi selvatici vivibili, frequentabili e gestibili, li ha allontanati dalla natura. Poi il consumismo, i boom economici e lo sviluppo delle tecnologie hanno dato all’uomo l’illusione della crescita infinita e di poter dominare la natura.
Le macerie di fronte alle quali siamo costretti a soffermarci ci comunicano che spetta a tutti noi cittadini-volontari, cominciare da domani mattina a ristabilire un rapporto con l’ambiente che ci circonda, ricostruire le nostre comunità, pezzo per pezzo, senza bisogno di attendere un terremoto o un’alluvione per farlo o lo stanziamento di soldi da parte di qualche ente preposto. L’Italia è un paese in macerie culturali prima che strutturali, il percorso da compiere è lungo e richiede tempo.
In Calabria c’è già chi si è messo al lavoro senza attendere che si verificasse il disastro, come i ragazzi di Costa Nostra, per citarne solo alcuni. Da queste esperienze si può e si deve ripartire per attuare e portare avanti la manutenzione del paese. Non c’è bisogno di fondi per farlo, ma solo di collaborazione e tanta passione per la propria terra, la stessa che gli angeli del terremoto stanno dimostrando di avere, in questi giorni, tra le macerie della nostra “civiltà”.
Massimiliano Capalbo
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