domenica 3 maggio 2015

Utilizzare al meglio le energie rinnovabili



ENERGIE RINNOVABILI
suggerimenti e proposte
a cura del Prof Roberto Minervini, docente Universitario della Tuscia e responsabile scientifico di Accademia Kronos

Premessa
In considerazione del travagliato sviluppo delle energie rinnovali nel nostro Paese, dei forti interessi che hanno generato ed attualmente continuano a generare fra gli imprenditori,  dei contrasti che sempre più spesso si verificano con le popolazioni residenti e dei frequenti interventi correttivi sul piano legislativo del settore si è ritenuto opportuno realizzare, anche se parziale, questa breve nota sulle energie rinnovabili è rivolta soprattutto agli amministratori pubblici.
 Il presente documento vuole essere uno strumento informativo che deve tenere conto del continuo evolversi sia della materia “rinnovabili”  che della relativa normativa, va considerato quindi  “in progress” e potrebbe essere sostituito in qualsiasi momento da una sua versione più aggiornata.
     

LE SOLUZIONI ENERGETICHE

            Sulle soluzioni energetiche, come spesso è accaduto nel nostro Paese e nonostante le importanti disponibilità finanziarie messe in campo da vari governi, si è purtroppo clamorosamente sbagliato. Gli interventi legislativi, e soprattutto i loro regolamenti di attuazione, evidentemente suggeriti da alcuni centri di potere, hanno fatto sì che si sia avviata nel nostro Paese una campagna  delle rinnovabili, e soprattutto del fotovoltaico, quando in Italia non esisteva un solo stabilimento che costruisse pannelli solari o gli inverter o le pale eoliche per l’eolico.
Questo ha comportato un facile arricchimento di imprese produttrici straniere (soprattutto da Germania e Cina) che in molti casi sono venute esse stesse a realizzare impianti sul suolo italiano  per godere appieno dei benefici offerti dal nostro generoso “conto energia”.  “Conto” che oggi vale circa 13 miliardi per il 2014 ripartiti sulle bollette delle famiglie italiane di cui una parte certamente interessante (l’esatta quantificazione economica è complessa) è andato e va all’estero fra acquisto dell’attrezzatura ed incentivi. Questo stato di cose ha comunque generato una produzione nazionale di elettricità da rinnovabili che, per il mese di Gennaio 2015, è stata già del 36,9% a fronte del 20% previsto entro il 2020 dagli accordi europei. Va inoltre considerato che la potenza elettrica installata nel nostro Paese è pressoché doppia rispetto alle esigenze nazionali. Ma vale la pena di analizzare i vari settori al fine di individuare le varie soluzioni al momento possibili per un loro più corretto utilizzo nel comprensorio orvietano.


L’IDROELETTRICO (1° produttore da rinnovabili italiano con 3.121 MW prodotti nel mese di       
                                                                                                   Genn.2015. Fonte: Terna)

L’idroelettrico è, e da tempo, ampiamente sfruttato in Italia per la produzione di energia elettrica che era, in regime di monopolio ENEL, sostanzialmente concentrata in centri di produzione di grandi dimensioni (soprattutto laghi artificiali e condotte forzate), ma, con la liberalizzazione dal monopolio e l’introduzione degli incentivi, si è giunti a prendere in considerazione anche “interventi” di modeste dimensioni su sorgenti e corsi d’acqua in grado di generare, se inglobati in condotte, solo alcune decine di Kwh. Rese queste però di un qualche interesse per alcuni investitori in considerazione del contributo aggiuntivo, al valore del Kw prodotto, elargibile dallo Stato. Questo aspetto ha comportato, in particolare in alcune regioni d’Italia, l’interesse a mettere in sfruttamento ambienti idrici spesso preziosi sul piano idrobiologico poiché aree di riproduzione degli ultimi anfibi nazionali (salamandre, tritoni, ululoni, ecc), sempre più rari a causa della scomparsa degli habitat idonei , oltre a costituire aree di approvvigionamento idrico, in particolare nei mesi estivi, per una vastissima gamma di specie animali.

Suggerimenti
 Interventi per l’installazione di nuovi impianti per la produzione di energia idroelettrica dovrebbero quindi essere consentiti solo laddove non vi siano ambienti idrici di particolare pregio naturalistico, le installazioni non dovrebbero comunque racchiudere il corpo idrico in condotte forzate che impedirebbero la risalita delle specie ittiche (ad es. le anguille o le trote), la deposizione delle uova da parte degli anfibi, e l’abbeverata di un’infinità di organismi animali, ma dovrebbero essere eventualmente installati generatori “ad immersione” nel corso idrico e senza che queste installazioni comportino la realizzazione di apposite strade in ambiente naturale, palificazioni imponenti per il trasporto dell’energia e quant’altro possa sottrarre appeal naturalistico al comprensorio.


L’EOLICO  (2° produttore di rinnovabile in Italia con 1.876 MW a Genn. 2015. Fonte: Terna)

             In Germania è stato calcolato che ci sono mediamente oltre 3.000 ore l’anno di vento di una potenza tale da far girare eologeneratori di media e grande dimensione. In Italia, con esclusione della Sardegna e non di tutta, le ore valutate si aggirano, sui siti più predisposti, intorno alle 1.600 l’anno. In Danimarca si superano anche le quantità della Germania e questo forse spiega perché questo paese abbia installato eologeneratori già a partire dagli anni ’60.
            Con questi dati dovremmo quindi escludere l’eolico di grandi dimensioni dalle soluzioni energetiche italiane?
            La risposta è semplice: sì, poiché nessuno realizzerebbe in Italia impianti  così costosi ed impattanti su ambiente e paesaggio senza le sovvenzioni del conto energia; no per gli impianti domestici, condominiali ed aziendali.
            In buona sostanza c’è un eolico, giustamente dimensionato, che può essere utile in quei contesti in cui il vento, anche se poco, è in grado di far girare piccoli generatori. Si tratta di dimensionare il generatore (tipologia delle pale) alla quantità di vento disponibile: con poco vento pale più lunghe in grado di raccoglierlo, al contrario con venti più consistenti.
            Queste applicazioni sono possibili soprattutto con il cosiddetto”minieolico”, pressoché sconosciuto da noi, già in uso in larga parte del mondo e specialmente nelle campagne, così come da noi erano frequenti le “ventole” della Vivarelli di Siena montate su tralicci di ferro per pompare acqua dai pozzi. Le ventole della Vivarelli erano così diffuse in Italia da essere entrate a far parte del paesaggio agrario italiano.

Suggerimenti
            Qualcosa di simile è probabilmente riproducibile nell’attuale contesto italiano con il minieolico, anche se, purtroppo, anche in questo comparto, la produzione nazionale è penalizzata dal ritardo con cui il nostro Paese si è avvicinato a queste tematiche. Nel minieolico però sono molte le imprese italiane che si stanno affacciando al settore, anche se ancora in troppi non credono che possa costituire una delle alternative al fotovoltaico.          
            L’eolico nazionale, tutto di dimensioni industriali, è concentrato soprattutto al Sud (Calabria e Puglia) dove spesso hanno completamente trasfigurato il paesaggio e dove, ormai troppo tardi, ci si chiede se ne valeva la pena considerando le scarse rese energetiche, le frequenti infiltrazioni della malavita organizzata, le difficoltà delle manutenzioni ed il costo che grava sulla bolletta elettrica di tutti gli Italiani. Interessante potrebbe essere invece un avvio del minieolico anche nel nostro Paese, specie se di macchinari italiani. La dimensione fino ai 5 Kw potrebbe essere considerata compatibile (senza il solito “trucco” di installare più generatori nella stessa area, ogni impianto dovrebbe vere una distanza dall’altro di almeno 1 Km) con il paesaggio agrario, avendo sempre cura e rispetto, nell’installazione, di avere il consenso di altri residenti presenti in almeno trecento metri di distanza.


IL FOTOVOLTAICO (3° produttore di rinnovabile con 1.130 Kw nel Genn. 2015. Fonte: Terna)

            Questo tipo di produttore di energia è forse quello che, a seguito del cattivo utilizzo che ne è stato fatto, ha impattato maggiormente sul nostro Paese.
            Nel caso dell’Orvietano solo grazie al grande impegno delle associazioni di cittadini si è riusciti ad impedire disastrose distese di pannelli in particolare sull’Altopiano dell’Alfina (Comune di Castel Giorgio).
            Il solare è una tecnica energetica interessante anche se già ritenuta obsoleta e prossima ad essere sostituita con soluzioni tecnologiche molto più economiche, più produttive e meno impattanti sul territorio.

Suggerimenti
            Nel mentre che le nuove tecnologie in corso diventino una realtà, anche in termini di economia, si consiglia l’installazione dei tradizionali pannelli su edifici pubblici e privati, nelle aree fortemente compromesse sul piano urbanistico e paesaggistico, nelle aree industriali e sui capannoni. Mentre sarebbero assolutamente da evitare tali installazioni sugli edifici ed i complessi storici, sui terreni agricoli e comunque laddove l’impatto visivo alteri il Paesaggio.
            Da alcuni anni un ravvedimento governativo, fortemente sollecitato “dal basso”, ha abolito l’incentivo alla realizzazione di parchi fotovoltaici sui terreni agricoli. Da quella data non si sono praticamente più avute installazioni sui terreni agricoli nazionali. A conferma, qualora ve ne fosse ancora bisogno, della forte dipendenza del settore dal contributo pubblico.

LA GEOTERMIA (4° produttore di rinnovabili con 499KWh  a Gennaio 2015. Fonte: Terna)

            Se nel caso delle soluzioni energetiche fino ad ora trattate l’eventuale danno nel loro cattivo o inadeguato uso poteva limitarsi al danno economia ed alla perdita del Paesaggio, nel caso della geotermia si può fare di molto peggio. Quella che sembrava infatti una risorsa spesso abbondante, di grande potenzialità e talvolta pulita sta mostrando invece il suo volto più oscuro. Sono infatti sempre più frequenti le correlazioni fra la geotermia profonda, le perturbazioni del suolo di origine sismica e l’inquinamento irreversibile delle falde acquifere. E’ opportuno pertanto distinguere fra due tipologie diverse di geotermia: quella “di superficie” e quella profonda.
            La geotermia di superficie è quella che sfrutta le differenze di calore, dell’ordine anche solo di pochi gradi (bassa entalpia), fra il sottosuolo e la superficie, magari anche solo semplicemente tramite l’uso di pompe di calore.
            Questo tipo di utilizzo, a parte capire la natura del refluo eventualmente utilizzato, la sua qualità dal punto di vista chimico-fisico e dove e come va a finire (se nell’ambiente, in un depuratore o altro), non genera solitamente grosse problematiche e sarebbe auspicabile il suo utilizzo soprattutto per il riscaldamento degli edifici pubblici.
            Discorso diverso meritano invece gli interventi geotermici profondi finalizzati alla produzione di energia elettrica. In questi casi il refluo che si ricerca è almeno di media entalpia, generalmente non superiore ai 150° C, e lo si trova di solito nel comprensorio vulsino oltre i 1000 m di profondità.
            Il Ministero dello Sviluppo Economico ha varato un piano atto a consentire ricerche minerarie profonde per una produzione di non oltre 50MW (1 Megawatt = 1000 KW) su tutto il territorio nazionale. Questo piano, per la realizzazione di “impianti pilota” è ulteriormente sovvenzionato fino alla cospicua cifra di ben 200 € per MWh prodotto.
            Approfittando di questa “opportunità,” come spesso accade nel nostro Paese, alcuni si sono mossi prima degli altri in quanto depositari di conoscenze specifiche, maturate magari in ambito di società o enti di stato presso cui hanno avuto accesso ad informazioni utili in questo contesto.
            Alcune società si sono quindi attivate, anche sotto forma di vere e proprie “cordate”, in considerazione degli ingenti investimenti da sostenere in caso di intervento geotermico per la produzione di energia. Altre, la maggior parte, tendono solo ad acquisire le licenze di perforazione per rivenderle, come già è avvenuto per l’eolico ed il fotovoltaico, al migliore offerente.
            Interessante a questo proposito è rilevare che molti degli interventi esplorativi previsti dallo Stato sono stati localizzati nel complesso vulsino a cavallo tra Umbria e Lazio.
            Il tipo di intervento proposto è di tipo ”binario”, cioè con perforazione profonda, di solito tra 1500 e 3000 metri, per ricercare un refluo abbastanza caldo sotto forma di vapore (ma misto a molte componenti chimiche tossiche). Questo refluo viene portato in superficie (di solito viene in superficie a pressione elevata oppure viene pompato), scalda un altro refluo tramite scambiatore, il refluo scaldato  porta in pressione un liquido che aziona una turbina che genera elettricità. Dopo aver ceduto calore il refluo primario viene reimmesso nel sottosuolo a circa 2-3000 metri.
            Questo tipo di intervento, apparentemente innocuo e pulito anche se si intravede un grande impegno tecnologico, mostra degli aspetti preoccupanti se non inquietanti. Il primo è che prendendo il refluo gassoso da una parte per reimmetterlo dopo l’uso, e quindi più freddo, da un’altra altera gli stati di pressurizzazione delle grandi profondità. Gli squilibri che determina possono generare, così come sostenuto da molti geologi ricercatori, ma anche da un importante documento di una grande società italiana del settore, dei sismi fino al 3° grado della scala Rikter, a condizione però che la quantità di refluo utilizzato sia entro limiti prestabiliti. Eccedendo tali limiti gli squilibri nelle pressioni possono generare fenomeni sismici  imprevedibili.
            Non solo, le perforazioni profonde possono anche mettere in comunicazione le falde idriche con il refluo profondo inquinandole irrimediabilmente, mentre, nel corso delle trivellazioni, l’uso di paste speciali per fluidificare l’ambiente attorno alle punte di trivellazione possono inquinare permanentemente le falde in quanto altamente tossiche per la presenza massiccia di Bario ed altri composti velenosi,
            Se questo non bastasse, per raffreddare il refluo gassoso prima di ripomparlo a grandi profondità è necessario allestire un enorme capannone, alto come un palazzo di quattro piani e rumorosamente iperventilato da un complesso di decine di ventole per il ricambio dell’aria.
            Impianti di questa tecnologia sarebbero impattanti anche in territori poco popolati, è semplicemente assurdo che vi sia una legge dello stato che consenta di fare simili impianti, seppur di tipo sperimentale, sul territorio italiano. Come purtroppo è regola nel nostro Paese si tratta probabilmente di un altro caso in cui la politica prende ordini da specifici centri di potere. Il caso di Castel Giorgio è emblematico (ancora Castel Giorgio!) dove è in corso di autorizzazione un progetto, richiesto alcuni anni fa, per la realizzazione di un impianto geotermico binario alle porte del paese.
Per questo settore, dove la contrapposizione con le popolazioni locali è totale, le Amministrazioni pubbliche sono tenute a frapporre una forte resistenza istituzionale nei confronti di scelte aprioristiche, tecnicamente confutabili e distorsive del sano rapporto democratico fra le Istituzioni e le popolazioni residenti. Per queste ultime infatti non solo può essere messa a rischio la stessa sicurezza dei cittadini, ma spesso anche le economie delle loro attività produttive e, per dirla in due parole, soprattutto la loro qualità della vita. Questi impianti inoltre generano bassissima occupazione.

Suggerimenti
 Con queste  premesse ed in attesa che sorgano regole nuove ed atte a tutelare le popolazioni residenti dai tanti guasti che la geotermia mal fatta può generare si sollecita a non autorizzare impianti di media ed alta entalpia.

IL BIOGAS

            Questa soluzione energetica è una delle più “antiche” fra quelle oggi disponibili. I famosi Totem per produrre biogas sono stati realizzati già trent’anni fa in varie parti d’Italia, soprattutto laddove l’industria degli allevamenti, in particolare di suini, metteva a disposizione grandi quantità di liquami. La tecnologia è chiaramente notevolmente progredita, ma nonostante queste acquisizioni le conversioni energetiche sono tutt’ora molto basse non superando il 7%.

Suggerimenti
            Con queste premesse non ha chiaramente senso pensare di realizzare “centrali a biogas” se non laddove si renda necessario lo smaltimento dei liquami e cioè all’interno stesso dello stabilimento che produce le deiezioni. Ipotesi di realizzazione di impianti in località avulse dal contesto in cui si producono gli scarti da cui produrre poi il biogas sono da considerarsi meramente speculative e soprattutto foriere di contrasti con i residenti ed altri operatori. Senza sottovalutare poi i rischi sanitari, per uomini ed animali, connessi con la ingente e continua movimentazione per le strade italiane di camion cisterna carichi di liquami.
            Questo settore diventa però particolarmente interessante quando abbinato “in loco” all’allevamento animale. Le deiezioni animali infatti, sempre grazie al conto energia, creano un “valore aggiunto” alla produzione in quanto sinergico all’attività esistente senza praticamente costi aggiuntivi essendo la “materia prima” (le deiezioni animali) direttamente prodotta in azienda. A mero titolo di esempio basti citare il fatto che una vaccheria per la produzione di latte di circa 1.500 capi può generare metano (50-60%) per produrre circa 1 MW/h di energia elettrica.

Alla fine del processo di metanizzazione inoltre i liquami “esauriti” si sono fortemente ridotti di volume e ben si prestano, in quanto “maturi”, ad essere utilizzati in agricoltura come concimi, anziché rischiare di finire, per vie traverse, nell’ambiente.
Importante è però prevedere che i “digestori” preposti alla metanizzazione non vengano realizzati su pendii, o comunque su piani inclinati, o in località soggette ad allagamenti in caso di fenomeni meteo particolarmente avversi che possano quindi smottare o essere allagati e riversare il loro contenuto all’esterno.
             Tali impianti, quando ben fatti e se ben gestiti, non creano eccessi di odori sgradevoli, anzi, almeno in teoria, il surplus finanziario che generano, dovrebbe consentire (e si può pretenderlo!) che la pulizia delle stalle o comunque dei luoghi di allevamento, sia più attenta e frequente riducendo così l’impatto olfattivo dell’intero stabilimento nel comprensorio.
Altrettanto dicasi della gestione dei digestori, mentre per i motori che generano elettricità direttamente dal biogas, devono essere contenuti in ambienti insonorizzati .
Tali considerazioni quindi relegano le centrali a biogas nell’ambito in cui sono originariamente nate: all’interno e a valle degli stabilimenti che producono deiezioni ed altro materiale biologico utile a produrre gas metano. In questa tipologia, anche se con modalità di utilizzo completamente differenti,  rientrano anche le produzioni di biogas all’interno delle discariche.
           

LE BIOMASSE
  
            Generare energia bruciando combustibile non fossile significa sostanzialmente non aumentare di un grammo la CO2 della nostra atmosfera. Se i combustibili fossili sono di fatto una risorsa energetica appartenente ad un passato remoto e sottratta per tempi geologici al bilancio della CO2 del pianeta, la combustione delle biomasse di origine recente (cippato, scarti di vegetazione, sottoprodotti agricoli, scarti di lavorazioni industriali di prodotti vegetali, ecc.) restituisce all’atmosfera solo quella CO2 che le piante da bruciare hanno sottratto alla stessa durante il loro periodo di vita.
            Le biomasse quindi sembrano poter costituire anche un utile matrimonio tra produzione agricola ed energia. Questo binomio, tanto temuto dagli economisti globali poiché rischierebbe di compromettere la produzione agricola finalizzata all’alimentazione umana, è stata solo effetto di valutazioni teoriche e merita quindi di essere meglio analizzato. Basti pensare infatti che negli ultimi cinquant’anni le superfici coltivate del nostro Paese si sono dimezzate mentre la produzione agricola è più che raddoppiata. Ma non solo, il patrimonio boschivo italiano si è raddoppiato dal dopoguerra ad oggi a seguito dell’abbandono delle terre marginali, soprattutto montane, pedemontane ed anche collinari, poiché meno redditizie rispetto ai terreni di pianura.
            Limiti importanti a questa tecnologia possono venire invece da altre problematiche, in primis le basse rese generate dalle combustioni di questi prodotti vegetali. Il loro potere calorico infatti è infinitamente più basso di quello del petrolio e quindi necessitano di enormi quantità di materiale combustibile con onerosi costi di trasporto, stoccaggio e movimentazione sia sui luoghi di produzione che di utilizzo. Tenendo anche presente che lo stoccaggio di grandi quantità di biomasse comporta la produzione di forti odori e di ingenti quantità di spore fungine anche allergeniche.

Questo per rientrare nel concetto di “biomassa” in senso stretto, ma, attraverso una interessante alchimia burocratico-legislativa, all’interno delle biomasse sono recentemente rientrati anche i Combustibili Solidi Secondari (CSS), sostanzialmente una frazione della spazzatura (prevalentemente plastica ed altri derivati del petrolio).

Problematiche degli impianti a biomasse
Un primo aspetto rilevante di questi impianti è che possono essere basati sostanzialmente su due diversi approcci tecnologici: il primo è costituito da una comune caldaia dove ad aria forzata viene bruciato il combustibile, un sistema di filtraggio dei fumi (non sempre obbligatorio), una turbina per la produzione di energia elettrica attivata da un fluido surriscaldato ed un sistema di rimozione periodica delle ceneri.
Il secondo (Pirolisi) è costituito da un gassificatore che “gassifica” legna o altri materiali in una camera chiusa portata a 400° C in assenza totale di ossigeno e senza la tipica turbolenza di un bruciatore tradizionale. Il gas (gas di sintesi: syngas) che si produce dalla “sublimazione” dei materiali da gassificare viene quindi bruciato con irrisoria produzione di residui (polveri sottili, nano-particelle, diossinosimili ecc.) per far girare una turbina.
In caso dell’utilizzo di legna come biomassa il syngas ottenuto può essere invece utilizzato direttamente in un motore per generare elettricità. Altrimenti il calore prodotto bruciando il syngas viene utilizzato per portare un liquido in ebollizione e far girare la turbina.
Il sistema della gassificazione è quindi il più pulito fra i trasformatori di biomasse, unico inconveniente della pirolisi è la formazione di concrezioni catramose all’interno della camera di gassificazione che necessita quindi di periodiche manutenzioni. Il catrame prodotto è poi un rifiuto speciale e deve essere smaltito in discarica, ma in parte può essere riutilizzato nel processo successivo.
L’avvio del procedimento di gassificazione ha necessità di un “innesco” tradizionale con gasolio o altro combustibile che non può superare, per legge, il 5% della biomassa utilizzata.
Un terzo sistema, appena uscito dalla fase sperimentale e che si avvale di un complesso software di controllo e regolazione, prevede invece la presenza di moderate quantità di ossigeno durante la formazione del syngas al fine di ottenere una trasformazione completa della biomassa in syngas, con produzione finale solo di cenere senza residui catramosi.
I vantaggi delle gassificazione rispetto alla combustione tradizionale sono evidenti: poiché sono praticamente assenti polveri sottili, diossine, fumi o residui di combustione e soprattutto la qualità degli scarichi cambia poco se ad esempio si passasse dalla legna al CSS, in entrambi i casi ciò che si brucerebbe non sarebbe mai il materiale “tal quale”, come nei bruciatori tradizionali, ma sempre e solo il syngas in cui si sono trasformate le due biomasse.

Questi gli inquadramenti tecnici, diverse sono invece le valutazioni ambientali, tutte a favore della gassificazione sul piano dell’impatto ambientale dei residui di combustione, anche se sorge spontanea la domanda: ma la legna dove si prende? C’è stato un gran fiorire in questi ultimi mesi di proposte d’impianti a biomasse, ma non si è mai identificato con precisione dove s’intenda procurarla, solo in caso di ammissione a VIA (anche d’impianti di dimensione inferiori ai 200 Kw) bisogna fornire più dettagliate informazioni sugli approvvigionamenti. Allo stato attuale va ricordato che questi ultimi, anche in caso di bruciatori tradizionali, non sempre sono obbligati a dotarsi di impianti per il trattamento dei fumi se bruciano cippato, cosa quest’ultima che li rende particolarmente invisi alla popolazione residente. Non va dimenticato infatti che un impianto di “soli” 200KW consuma dalle 6 alle 8 tonnellate di legna al giorno (quando è legna!) con una produzione di polveri sottili ed inquinanti non indifferente. Senza ignorare inoltre che i fumi di tali impianti possono cambiare il microclima locale favorendo la formazione delle nebbie nelle giornate umide e prive di vento.
A queste considerazioni va anche aggiunto che i limiti di polveri sottili e nano particelle prodotte dai fumi previsti nella legislazione italiana sono ben al di sopra di quanto raccomandato dall’OMS. Se consideriamo poi la diffusissima pratica in Italia di avere “aree industriali (o artigianali)” alle porte di paesi anche con meno di mille abitanti e quindi spesso consentendo che tali installazioni, ma anche di dimensioni maggiori, possano essere posizionate alle porte dei centri abitati.

Suggerimenti
Gli impianti a biomasse dovrebbero essere quindi localizzati, specie se di tipo tradizionale, cioè a combustione diretta e non tramite la produzione di syngas, o in ambiti strettamente connessi alle attività produttive che generano rifiuti utilizzabili quali “biomasse” (segherie) e quindi di modeste  o modestissime dimensioni (50-100 KWh), tenendo conto della loro incompatibilità con abitazioni o attività lavorative limitrofe. Alcuni comuni italiani hanno deliberato a tale proposito di prevedere tali impianti solo a distanze superiori a qualche chilometro da insediamenti abitativi.
Interessante sarebbe comunque una loro applicazione, specie da parte di enti pubblici, “in sostituzione” di impianti tradizionali a gas o a gasolio per la produzione di energia o di calore. Ferme restando comunque tutte le considerazioni fatte sulla necessità di tutelarsi comunque dalle emissioni per ragioni di salute pubblica.
Vanno inoltre chiarite le fonti degli approvvigionamenti delle materie prime, spesso si è tentato in un recente passato di “puntare” al disboscamento di aree demaniali se non addirittura protette proponendo improbabili “ripuliture” dei boschi o degli argini fluviali.
             
IL RISPARMIO ENERGETICO

            Relativamente al risparmio non c’è molto da dire, ma tutto da fare. Quello del risparmio energetico deve essere, per le Amministrazioni e per il cittadino, soprattutto una forma mentale, una pratica quotidiana che deve diventare spontanea non tanto e non solo fra le mura domestiche, ma sempre, soprattutto sui luoghi di lavoro dove maggiore è il danno dovuto all’indifferenza e quindi allo spreco. Per risparmio energetico bisogna comunque ricordare che non si tratta solo di energia elettrica, ma anche e più spesso di risparmio di calore. Si sottovaluta infatti che il deficit energetico nazionale è dovuto, soprattutto nei mesi invernali, ai costi del riscaldamento degli spazi abitativi e lavorativi.
            L’energia elettrica in Italia costa circa un terzo in più della Germania ed ancora più rispetto alla Francia. Questa situazione, com’è noto, è dovuta anche alla scelta, certamente condivisibile, di non avere centrali nucleari nel nostro Paese, ma anche al fatto che per troppi anni si è consentito che il monopolio energetico esistente non attivasse concorrenza e non stimolasse la ricerca e la produzione di soluzioni energetiche differenti da quelle tradizionali.
            In questa situazione, di forte dipendenza energetica dall’estero, ed anche del grande costo della medesima nel nostro Paese, non è possibile che si sprechi energia. Come sappiamo però sono soprattutto le industrie le grandi divoratrici di energia ed in questo il nostro Paese è penalizzato un’altra volta a causa della “forbice” in cui viene a trovarsi fra impianti industriali non moderni, e quindi dispendiosi di energia, ed una classe industriale, ormai ridotta all’osso, che in questi ultimi decenni si è fatta troppo spesso affascinare più dalla finanza che dalla produzione.
            Nel caso dei comuni minori, il risparmio energetico, nella piccola dimensione del comprensorio, avendone le risorse, può essere affrontato promuovendo, per le vecchie costruzioni, il miglioramento della tenuta degli edifici con un contributo elargito ad hoc, ma, nell’attuale situazione, si possono solo promuovere regole edilizie più restrittive sull’efficienza energetica delle nuove costruzioni e buone pratiche del risparmio a cominciare dalle scuole con dei tour d’informazione, comprendendo anche tutte le strutture pubbliche.


1 commento:

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