Note sul motore della storia di sofferenza e su come provocarne l’avaria.
La concezione personalizzata del mondo, degli individui, delle politiche, dei regni, delle nazioni e degli imperi nonostante dimostri la sua implicita contraddittoria caducità, persevera nel suo avanzare. Tuttavia, credendola corrispondente al progresso, è costantemente perseguita nonostante non faccia costrutto evolutivo. La cecità nei confronti della propria autoreferenzialità, sempre alimentata a pappe di presunto universalismo, implica conflitti, insoddisfazioni, malattie. Le politiche alle quali stiamo assistendo in questi anni sembrano essere un premio oscar alla carriera, ormai secolare, di una concezione della vita che ci ha portati al punto in cui ci troviamo. Una specie di pulpito dal quale possiamo vedere la valle del mondo sempre più piena di lacrime, sempre più glabra di fiori.
La giostra della storia prosegue dunque nell’atroce replica di se stessa, incantando sempre i piccini che vi salgono per eseguire anch’essi il loro giro, sotto lo sguardo compiaciuto dei genitori. L’idea che il proprio volere, volitivo ed egoico, sia il solo comandamento da rispettare, comporta una recisione dall’origine, dal tutto. La sacralità della vita è così venuta meno, rinchiudendo il pensiero entro la stretta gabbia della storia materiale, cercando l’effimera soddisfazione sul ring nel quale, come infoiati proprietari di pitbull, ci buttiamo nella mischia sanguinosa, combattendo, attaccando e difendendo a colpi di vizi capitali.
In un certo senso c’è n’è un ottavo. Più subdolo e convincente dei suoi sette fratelli. Consiste nella prostrazione ad un dio che ci appare superiore ad ogni altro. È il dio del razionalismo, arma che crediamo insostituibile, la cui punta avvelenata di piatta logica ci fa avanzare a petto in fuori, convinti di poter battere ogni pensiero e guerriero pagano, di annullarne i poteri multidimensionale che gli sono propri. È infatti un vizio che, come tutti i suoi pari, ci domina e dal quale dipendiamo. Con la logica crediamo di poter argomentare il necessario per buttare nel sacco nero della spazzatura il sacro e il mistero e così, disfarcene una volta per tutte, nonostante siano proprio essi a rivelare la nostra natura e identità. Ma quelli, in quanto tali, sono immortali, vivono insieme a noi, indipendentemente dalla consapevolezza che ne abbiamo. La figura per esprimere la separazione dell’uomo dalla conoscenza e dal benessere è la frattura.
Si può comprendere colui che arriccia il naso. È uno dei piccini ansiosi di salire sulla giostra. Chi non lo arriccia, semplicemente vede che non si tratta per niente di moralismo, tantomeno gratuito. La via per la serenità c’è, e chi la trova, costi quel che costi, osserva quanto fossero proprio quelle abitudini capitali, che ci si crede in diritto di mantenere ed esercitare, il carburante del motore dell’intero luna park della storia caduca e dei suoi valori.
Ripulirsi dall’inquinamento materialista è necessario per tornare a sentire le vibrazioni della frequenza della natura, del cosmo, dell’origine. Per cambiare direzione e lasciare la via della falsa conoscenza per imboccare quella dell’essere.
Vantare proprietà su noi stessi e pensare e agire come detentori della realtà che concepiamo è una posizione di tipo infantile. È la condizione della negredo alchemica.
Avvedersi delle dinamiche conflittuali che l’egocentrismo comporta conduce allo stadio detto rubedo, in cui il fuoco della conoscenza fa piazza pulita dei feticci scambiati per valori da rispettare e difendere. Seguirà quello dell’albedo, in cui prendiamo consapevolezza di essere creatori del mondo, dei magi che siamo, e senza alcun vanto.
Ma capire non conta nulla. Ricreare è necessario. E la questione, non è se una certa realtà è vera o meno, ma in che termini lo diviene.
Lorenzo Merlo
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