La conoscenza è osservare verità in tutte le affermazioni, il resto è tirannia gonfia di autoreferenzialità. Materia e mente non sono separate se non nell’assolutismo del dualismo e del meccanicismo ovvero, nel ristretto mondo materialista. Queste considerazioni non rappresentano direttamente il contenuto dell’articolo, ne sono invece un dietro le quinte. C’è chi potrà riconoscerlo e chi no. Per questi ultimi, ritornare alla prima riga e scoprire in che termini, ciò che essa esprime, è attendibile. Quindi riguardare quanto è in scena tra le seguenti parole.
Per buona parte di noi, ascetismo significa rinuncia, e questa, forzatura e sofferenza. Sottrarsi volontariamente ai piaceri della vita risulta così insensato, senza valore, derisibile. Vederla così comporta trovarsi in una prospettiva inetta a cogliere il potere evolutivo implicito nell’astinenza dalla mondanità e, contemporaneamente, della tossicità – tanto spirituale quanto fisica – di uno stile che ha giocoforza eletto a valore la soddisfazione di passioni e desideri, specie di totem sacri, ai quali non mancare di devozione in nome dell’effimero piacere, nonché per eludere risentimento e pena.
Nonostante l’evidenza, disponibile a tutti, del famelico ciclo desiderio-soddisfazione-desiderio, pare non sia sufficiente per avvedersi del suo dominio su noi, sulla nostra creatività, sulla nostra libertà e bellezza. Basta però, impettiti di buon senso, per concludere che, così stanno le cose! Che non si può sfuggire dalla cricetica ruota! Dichiarazioni ampiamente condivise, maggioritarie, quindi per molti legittimate a tracciare il filo rosso delle nostre scelte. Ma in esse vive l’auto-condanna ad una reclusione scambiata per consuetudine. Esse implicano l’abiura al potere infinito che siamo. In esse si trova il nido in cui alleviamo l’arroganza di essere superiori a tutto, di poterci permettere tutto. In esse c’è l’inferno, ma la sicumera scientista ci impedisce di constatarlo.
L’irrinunciabile corsa alla soddisfazione di qualsivoglia desiderio, oltre a essere mossa da un consesso di presunte superiorità morali è, nella sua essenza, una dipendenza. Né più né meno, pari a quella da sostanze varie, sancita da consuetudini, pomposamente dette scientifiche, e da tutti riconosciute e identificate come tali. Ma si tratta di un sortilegio. Dipendere dalle proprie bugie, in termini evolutivi, non comporta alcuna differenza da una dipendenza che la medicina o la legge ha allineato nei propri autoreferenziali schedari.
Termini evolutivi, sta per emancipazione dalle consuetudini, cioè per recuperare la nostra originaria natura nuda, svestita dagli orpelli storici scambiati, fino a quel momento, come verità, vita e conoscenza, progresso e civiltà, ricchezza e benessere. Sta per riconoscere in sé l’imprescindibilità della propria condizione, sta nel riconoscere che solo l’assunzione di responsabilità di tutto ne permette l’accettazione, in quanto conduce a osservare l’ineludibile parzialità della nostra posizione e quindi, la parità, se non identicità tra noi e il prossimo.
Tutto ciò non è rinuncia di sé, ma una potente forza in grado di mantenerci nel flusso energetico ottimale per superare avversità e inconvenienti con la migliore disponibilità creativa, quindi rigenerativa e di garantito superamento della crisi, fisica o spirituale, relazionale o esistenziale.
C’è una discriminante affinché si possa accedere alla soglia ascetica. Finché sussiste l’identificazione con il proprio io, essa è negata. L’io è quel reticolo babelico di controventature di sostegno biografico, composto da steli e putrelle prese dalla storia. È una struttura organica, sempre funzionale a se stessi, in grado di far fronte alle proprie contraddizioni e di assorbirne l’urto, nonché di dare un’apparente continuità logica alla forma con la quale vediamo e concepiamo noi stessi, il mondo e la realtà. Quando siamo esauriti entro questi termini, il passaggio alla conoscenza tende ad essere stretto se non impraticabile. Un’impalcatura di noi stessi, che teniamo inconsapevolmente in vita a mezzo di espedienti, arzigogoli e colpi di teatro che consideriamo tirati da fili razionali.
Privi delle consapevolezze necessarie per osservare a quali reconditi flauti magici obbediamo, non c’è verso di avviarsi verso la libertà dal conosciuto, verso la via che porta anche alla verità ascetica, quale territorio evolutivo.
Forzare la via dell’astinenza potrebbe essere l’idea balzana in transito nei pensieri del materialista-positivista, quello dell’io voglio, simile all’io-macho, primo comandamento del mondo individualista. Oltre ad essere un ossimoro puro, è inopportuno.
Recedere da desideri, passioni e cosiddette dipendenze da sostanze o farmaci, nonché liberarsi dalle ossessioni, senza la necessaria consapevolezza relativa alla recita della vita secondo il canovaccio impartitoci dall’ambiente famigliare, sociale e culturale, tende a garantire e provocare comportamenti fuori controllo. Come l’acqua le emozioni non sono comprimibili, come l’acqua sembrano fatte di niente ma non si perdono mai, esse si riaggregano alla minima scintilla utile.
Le emozioni, sono capsule energetiche che ci contengono e ci impongono scelte ad esse coerenti, mostrandoci un mondo da esse conformato, offrendo a noi il senso del diritto delle scelte che in nome loro compiamo. Se per liberarsene bisogna passare attraverso l’avvedersene, così, nell’impossibilità di ciò, è preferibile lasciare facciano il loro corso. È infatti opportuno accondiscendere le dipendenze altrui, piuttosto che violentarle. Soprattutto in mancanza della motivazione/evoluzione da parte di colui che ne è preda. Forzarne l’uscita ha un considerevole potere deflagatorio, frustrante, alienante, il cui rischio di insuccesso e peggioramento tende ad essere prevedibile.
È per questo che per far desistere l’uomo sul cornicione da suo intento autolesionista è preferibile fargli sentire la nostra vicinanza alla sua disperazione piuttosto che infliggergli altre pene a suon di minacce e sensi di colpa, naturalmente pieni di buon senso, il nostro.
Il dominio di un’emozione su di noi non è acqua fresca, non ce ne si emancipa dopo averla presa con le mani nel sacco, cioè dopo averla vista agire su noi e strapazzarci con i suoi impulsi. Come per ogni altra faccenda d’umanità, serve dedizione, in modo indirettamente proporzionale al talento di auto-osservazione specifico di cui disponiamo. Con l’allenamento se ne potrà venire a capo, senza dimenticare che niente è permanente, che la sola costanza è l’oscillazione.
Così, pregustare il cibo ci spinge a procurarcene. Il richiamo è comandato dalla soddisfazione che il masticare, e il senso di dominio ad esso associato garantisce. Ed ecco la dipendenza, tanto dai piccoli languori, quanto dallo stato di bulimia, ai quali non sappiamo sottrarci. Effetti degli affetti mancati nel periodo dell’infanzia dicono gli esperti. Affetti raccattati dal masticare, che ci restituisce anche equilibrio e stabilità, almeno per quell’attimo di tempo che incorre tra la soddisfazione e l’insorgenza del nuovo desiderio. Come un segno zodiacale, la lunga mano della carenza affettiva si farà sempre sentire, ma sempre meno man mano che ce ne assumeremo la responsabilità, o sempre più se seguiteremo a darla a qualcuno che riteniamo autore della nostra condizione.
Quando la soglia ascetica diviene accessibile la via dell’astinenza mostra le sue doti per riportarci a noi stessi. Essa permette di osservare che il primo combustibile che alimenta e sostiene il motore del desiderio e delle dipendenze è l’idolatria della falsa conoscenza specialista, nozionista e positivista. Allora, l’uomo di medicina che si allontana dal villaggio per digiunare solitario, al fine di prendere una decisione, non sarà più un poveretto superstizioso ma un maestro.
Lorenzo Merlo
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