lunedì 18 febbraio 2013

"Stanotte a Treia mi sono svegliata..." - Memorie sul rapporto uomo animali di Caterina Regazzi

Caterina Regazzi

Stanotte a Treia mi sono svegliata e tra le varie cose mi sono messa a pensare a quei cani oggetto del mio sopralluogo di qualche giorno fa nel modenese che, secondo il punto di vista di diverse persone, erano tenuti in condizioni non idonee fino quasi a rasentare il maltrattamento. 

Ho pensato così anche agli animali che teniamo nei nostri allevamenti. Una delle problematiche che veniva sottolineata dall'animalista che mi accompagnava al sopralluogo era "la presenza di numerose feci" nel recinto in cui erano custoditi i cani.

Il giorno successivo sono stata chiamata in un allevamento di bovini da latte ed ho approfittato per controllare, almeno in parte,  la situazione del benessere animale. Si tratta di un allevamento a stabulazione libera (cioè non alla catena) con lettiera permanente. Il fondo dell'allevamento "dovrebbe" essere costituito da uno strato di paglia su cui gli animali riposano, si muovono, ma anche defecano e urinano e quindi l'allevatore, ad intervalli regolari, deve aggiungere nuova paglia in modo da mantenere la lettiera asciutta e pulita anche per avere, al momento della mungitura, le mammelle abbastanza pulite. Ho detto volutamente "dovrebbe" perché in realtà quelle vacche riposavano su letame (ah! che spirito di adattamento hanno gli animali!).

Ho pensato poi, sempre stanotte, all'allevamento "moderno" del suino. Dico "moderno" perché non importa se i suini siano 100 o 1000 o 10000, i suini stanno sempre sul cemento, intero o fessurato (formato da travetti di cemento), in diverse proporzioni. La normativa sul benessere dei suini prevede che ci debba essere una percentuale massima di parte fessurata e non di più, i suini infatti camminano praticamente in punta di piedi e sul fessurato, specie se lo spazio fra i travetti fosse troppo ampio, gli unghielli si potrebbero infilare nelle fessure creando traumatismi. 

Avendo lavorato anche occasionalmente in macelli suini, non mi pare che questo sia un problema frequente. Il suino è un animale che, per la sua natura, è dotato di un  grugno, con cui in natura scava per cercare tuberi e radici di cui è ghiotto. Lo scavare è per lui anche un passatempo.  E questa caratteristica si scontra con la tipologia dell'allevamento intensivo, che prevede appunto il pavimento compatto in cemento, una volta, nei vecchi allevamenti con pavimento in mattoni, i suini arrivavano a scavare fino a divellere i mattoni. Negli allevamenti moderni il suino si deve accontentare di mangime sfarinato o in pellet o, nel migliore dei casi, della broda, sicuramente bilanciato dal punto di vista della composizione nutrizionale, ma poco divertente da consumare. E così visto che il maiale è un animale intelligente e gregario, credo almeno come il cane, si annoia ed allora possono insorgere problemi comportamentali nel gruppo, con morsicature a code ed orecchie, graffi, liti, morte per infarto. 

Una delle prime cose che imparai all'Università e che mi colpì, fu che il suino ha un rapporto tra il volume del cuore e la massa corporea sfavorevole (ma forse non era così nel suo progenitore selvatico) per cui sono frequenti, sotto stress, collasso cardio circolatorio ed infarti. L'alimento che viene somministrato al suino comunque, almeno in parte, compensa la noia dell'animale: anche l'uomo, si sa, con la panza piena si arrabbia di meno di quello con la panza vuota (vedi varie situazioni nel mondo) e dorme di più. Anche qui lo spirito di adattamento e di rassegnazione aiuta.
Poi mi sono chiesta come fosse stato l'allevamento suinicolo "una volta", all'interno del sistema agricolo in vigore fino ai primi anni '50. La stessa mia nonna materna, pur vivendo a Treia, in paese, allevava ogni anno un maiale, tenendolo in uno scantinato. Gli portava da mangiare dei pastoni ed in più gli avanzi della cucina e quando scendeva le scale chiamandolo per nome (chissà qual'era non c'è più nessuno al mondo che se lo può ricordare), lui grugniva di piacere. Lo stesso accadeva con le galline, tenute in un'altra stanza che poi fu ristrutturata dai miei genitori e che oggi è la camera da letto mia e di Paolo.

Intanto, come era composta la famiglia di un agricoltore? Nonni, padre, madre, eventuali fratelli e/o sorelle scapoli o nubili, figli che poi, a loro volta, finché c'era posto in casa, restavano con la famiglia di origine e si stava quindi stretti stretti. Magari i bambini piccoli dormivano nella stessa stanza dei genitori. 

Il podere, più o meno grande,  di solito  comprendeva una piccola stalla di bovini (buoi, vacche da latte, vitelli), 10-12 o anche meno, il porcile con una scrofa e i piccoli (siccome non tutti avevano il verro, la scrofa si portava a far coprire dal vicino e poi  non partoriva mica i 10 -12 suinetti come le scrofe di oggi), c'era anche il pollaio o semplicemente un'aia dove gli avicoli razzolavano, tenendola così libera dalle erbacce (ma sporca di qualcos'altro), c'erano inoltre piccioni, conigli, arnie di api. Non si buttava via niente, tutti gli scarti venivano utilizzati, gli scarti di cibo per gli animali, la paglia dei cereali coltivati per lettiera prima e come concime poi, legna secca e non, carta ecc. come combustibile per la stufa. Il porcile era in muratura, col pavimento in mattoni, con un po' di paglia o i tutoli del granturco all'interno, che facevano da giaciglio, passatempo, alimento. Quando il maiale veniva macellato tutto veniva usato, si dice che del maiale non si butta via niente e da questa tradizione  sono nati tutti i prodotti della salumeria nazionale, ed emiliana in particolare, e i prodotti ricavati da uno o due maiali bastavano per una famiglia per tutto l'anno. 

I bovini da cui si ottenevano principalmente latte e letame e lavoro, si macellavano a fine carriera, anche a 15-20 anni,  da questa necessità nacquero i macelli pubblici, per venire incontro all'esigenza di dare un servizio alla collettività, smaltendo in ambito locale le parti dell'animale. Non c'erano frigoriferi e congelatori come ora.
Quasi tutti gli alimenti  erano prodotti nella fattoria per la sua sussistenza, il surplus portato al mercato. Il ricavato serviva per acquistare quello che non si produceva nell'azienda e poco altro: tele di tessuto o vestiti confezionati dal sarto locale, qualche paio di scarpe (mio padre, classe 1928, raccontava sempre che da bambino, all'arrivo della primavera, si "buttavano" via le scarpe nel senso che si andava in giro scalzi), qualche quaderno, penne, pennini e inchiostro per i bambini che andavano a scuola, pentole e stoviglie, lampade e lampadine, qualche mobile costruito dall'artigiano locale.

Nella casa di campagna tutti avevano qualcosa da fare: coltivare la terra e accudire gli animali, cucinare, pulire, lavare, fare la maglia, cucire e rammendare, accudire gli anziani, crescere ed educare i bambini, fare piccole riparazioni, andare al mercato a scambiare prodotti. Credo che il lavoro potesse anche essere faticoso, ma il clima in cui si viveva era di affetto e rispetto reciproco, per tutti.

Ho preso in considerazione la famiglia di agricoltori proprietaria del suo fondo. Ovviamente la situazione, per molti non era così. C'era la mezzadria o il lavoro come bracciante agricolo, nel terreno altrui. I grossi proprietari terrieri avevano nei loro fondi diverse abitazioni per le famiglie degli operai, magari ognuna con la sua piccola stalla e la possibilità di tenere altri animali. Credo che per molti di quegli operai stipendiati o braccianti a ore o a giornata o per i mezzadri, lavorare una terra che non è la tua non potendo godere pienamente dei suoi frutti, non porti ad amare il lavoro della terra, ma poteva essere addirittura anche umiliante.
Forse nel primo caso che ho descritto, ho disegnato un quadretto idilliaco, probabilmente molti agricoltori hanno desiderato di lasciare questa attività faticosa e troppo incerta a quei tempi: bastava un anno di magra, siccità, tempeste e altre avversità atmosferiche per portare la carestia e miseria. Ma anche qualora le cose fossero andate  bene di certo l'uomo coltivava anche il suo egoismo, l'avidità e la spinta ad avere sempre di più facendo la minore fatica possibile, senza vedere le conseguenze per il genere umano e per il pianeta di quello che di lì a pochi decenni sarebbe successo.

Lo sviluppo della tecnologia e la scoperta ed il sempre maggior utilizzo di nuove fonti energetiche ha contribuito all'opera. Le macchine in campagna hanno sostituito quasi completamente l'uomo. Non c'era allora più bisogno di manodopera in campagna con conseguente trasferimento in massa in città di parecchi contadini  e, tra l'altro,  questo è stato vissuto come un affrancamento dell'uomo dalla fatica. Ad esempio i
 miei nonni emiliani erano braccianti, avevano tre figli, di cui i due maschi, tra cui mio padre, si trasferirono a vivere e lavorare in città, mentre la femmina rimase in campagna, sposa di un agricoltore con un bel podere che, nel tempo, acquistò anche le macchine per lavorarlo.

E allora via allo spopolamento delle campagne!

Andare a vivere in città sembrava un elevamento del proprio stato sociale: non più mani screpolate, arrossate ed indurite dal freddo, dal bagnato, dall'uso di utensili pesanti, non più visi arrossati o rugosi per il troppo sole o il troppo vento, non più schiene doloranti per aver trasportato carichi pesanti (mio padre, giovane operaio bracciante prima di trasferirsi a Roma, raccontava dei sacchi di grano o farina da 50 chili che gli avevano ridotto la schiena come quella di un vecchio), in cambio si ottenevano  pelli lisce, vestiti eleganti, creme e profumi, scarpe strette, mica come quelle del contadino (scarpe grosse e cervello fino)! Mi ricordo che mio padre e mia madre, novelli cittadini, nei primi anni '50, dopo 10 anni in città  soffrivano entrambi di dolorosi calli ai piedi per cui usavano mettervi sopra delle gommmine bucate per distanziarli dalle scarpe.

Però c'era la lavatrice, per lavare le lenzuola tutte le settimane (chissà ogni quanto venivano lavate in genere quando l'operazione doveva essere fatta al lavatoio o al fiume), il frigorifero dove si poteva conservare tutto quel "ben di Dio" che cominciava ad apparire nei negozi (magari un formaggio francese o un salame calabrese), l'automobile nel garage per andare al lavoro, ai giardini alla domenica, in trattoria, alla scampagnata fuori porta, o, nel mese di ferie per  magari tornare in quel paese tanto bello che si era lasciato con tante aspettative per il futuro.


Non sarebbe il caso, con il senno di poi ed avendo presenti pregi e difetti di un progresso incontrollato, che si è verificato senza ritegno, senza considerare le conseguenze per l'ambiente e per il tessuto sociale (famiglie sempre più piccole, abbandono degli anziani, delega alla crescita dei nostri propri figli, isolamento di chi non riesce a trovare una collocazione familiare), di fare un po' marcia indietro, ridando valore a ciò che lo ha veramente?


Caterina Regazzi - Medico Veterinario


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Di questo e simili temi se ne parlerà durante la Festa dei Precursori 2013 che si tiene al Circolo Vegetariano VV.TT. di Treia dal 25 al 28 aprile 2013 - Programma di massima: 

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