lunedì 22 gennaio 2024

I nodi della "civiltà"...

 



La conoscenza in forma di accumulo di dati predisposti e organizzati non è la sola possibile. Ve n’è un’altra, che non deve essere considerata alternativa, ma solo più idonea a riconoscere ciò che alla prima sfugge.

La rete

Il sapere può essere figurato come una rete da pesca. Ognuno nasce con la propria, le cui caratteristiche sono uniche, cioè lo spessore e la qualità della sagola, la luce dei riquadri, nonché le dimensioni dell’intera rete.

Nella struttura della rete in opera si impigliano solo e soltanto certe nozioni, tutte le altre sfuggono. Più precisamente solo i dati riconosciuti vengono trattenuti.

Ad ogni battuta di pesca, altri dati inspessiscono la sagola, riducendo così la luce della maglia. Il sapere cresce mantenendo però quale meccanismo di base, quello di poter trattenere solo e soltanto i dati riconoscibili come pertinenti.

Da qui a vedere l’assurdità in cui questa cultura crede, che corrisponde all’idea – mai discussa – che basti argomentare con buona dialettica per tramettere il sapere, il passo è più che breve.

L’esperienza non è trasmissibile. La rete ferma soltanto gli elementi che gli sono permessi dal suo stesso stato del momento. Tutti gli altri, quelli che professoralmente vengono declamati con presunta autorevolezza, intrattenibili, ci trapassano, privi di valore e significato.

Come non posso parlare di analisi due a chi è all’equazione di primo grado, così non posso mostrare come tirare la lima a chi non sa se è destrorso o mancino, a chi non è in grado di riconoscere che non è la lima a fare il lavoro ma tutto il corpo e come è posto.

L’assurdità raggiunge il suo culmine nel diritto di giudizio da parte del presunto detentore del sapere verso i discenti ordinari della scuola o occasionali dalla vita. Diritto che comporta selezione, esclusione, morte. Che non è una conclusione eccessiva in quanto tutti sappiamo quanto i nostri tempi e modi del cosiddetto apprendimento possano essere diversi e quanto le nostre doti possano essere coltivate o castrate in tutte le circostanze di relazioni impari, di dipendenza, come possono facilmente essere quelle ordinarie della scuola e della famiglia.

Tutto ciò, in una parola si chiama meccanicismo, la cui egida governa i nostri pensieri non solo in un contesto didattico, ma permanentemente. Volendo delineare il contrario del meccanicismo si potrebbe utilizzare il concetto di relazionale. In questo caso, l’altro non è meno di me, ciò che esso esprime ha il massimo valore perché attraverso l’ascolto posso escogitare come rimodulare la mia proposta didattica fino a trovare quella idonea al livello della rete del mio interlocutore. Interlocutore, non discente.

A parte la digressione dedicata all’esperienza non trasmissibile (come per la scelta delle scarpe – misura ed estetica –, tratteniamo solo i dati a noi idonei) e al razzismo della meritocrazia (nient’altro che un criterio di mantenimento del potere), la figurazione della rete cognitiva che gradualmente si stringe fino a trattenere i dati più raffinati a causa di quelli più semplici, già impigliati, rappresenta anche la specializzazione, o meglio, il suo culto totalitaristico: davanti ala parola dell’esperto e dello specializzato si deve tacere senza possibilità di appello. Come per il giudice, esso è la verità. Fine.

Il totalitarismo del culto della specializzazione ne comporta il dogma. Nessuno infatti, Ivan Illich (1) e Edgar Morin (2) a parte, ma in verità anche altri, – per non parlare di tutte le tradizioni sapienziali del mondo, sebbene l’abbiamo indirettamente fatto in modo implicito al loro discorso – l’ha mai messa in discussione. Ne ha mai evidenziato il potere mortificante che appare quando, invece di tenere al centro la tecnica e il sapere stesso, ci metti l’uomo e il modo in cui consuma la vita.

Le concezioni

Chi concepisce la rete come una struttura rigida, tende a rendere impossibile la consapevolezza della sua intrinseca dinamicità. Così i saperi sono impermeabilmente separati, bene che vada messi a contatto con il palliativo detto interdisciplinarietà. Una specie di specchietto per le allodole come lo è la sostenibilità, l’impatto zero, l’economia circolare nei confronti della questione ambientale-fintamente-ecologica.

Se la rete staticamente intesa è più simile all’urbanistica di un accampamento romano, dove per spostarsi bisogna necessariamente seguire l’ortogonia –sinonimo di sterilità creativa, rigidità dottrinale – dei percorsi che lo caratterizzano, quando è invece dinamicamente concepita, avviene una magia.

Ovvero, vedere la relazione di tutte le cose e quindi l’arbitrarietà dei dogmi di qualunque sorta, comporta anche una emancipazione dal concetto di dato come mattone della conoscenza e – che è ciò che più conta – la sostituzione del Dato con la Consapevolezza.

L’accampamento da rigido diventa libero, ogni tenda o dato diviene stella e ogni osservatore lo può relazionare ad altri, in costellazioni e sinapsi non protocollabili, non algoritmabili.

Nella concezione dinamica della rete, i saperi – che prima di tutto, non sono più solo cognitivi, ma emozionali, estetici – non si erigono linearmente, mattone su mattone, destinati a far crescere la Torre di Babele della finta conoscenza, della conoscenza di superficie o materialista. In essa, i saperi assomigliano più a moti ondosi, le cui forme non possono essere estrapolate, né separate, né identificate. Ogni onda è tale a causa delle altre, la nostra stessa inclusa.

Ciò che era ortogonale, prevedibile, schematico, nella concezione dinamica della rete della conoscenza, è dendritico, scapigliato, disponibile a ogni richiamo, perché il suo criterio non è codificato ma energetico, non culturale ma naturale.

Nella concezione statica della rete, ogni mattone è legato a catena con il precedente e il successivo e non ha altra posizione che quella obbligata dalla meccanica costruttiva del sapere analitico.

In quella dinamica, nulla avviene linearmente. Nulla è costretto entro il campetto di gioco della logica, dello spazio, del tempo e del principio di causa-effetto. Le consapevolezze insorgono quindi non per accumulo di dati ma con modalità più serempidiche e quantiche, cioè al di là delle strutture obbligate dai principi della logica – ciò che è può essere nel contempo anche non essere –, dello spazio – ciò che è qui può essere anche là –, del tempo – ciò che è passato diviene nell’emozione presente –, del principio di causa effetto – le forze sono energetiche non più solo nella sua forma materiale.

Se la rete statica è funzionale a gestire e amministrare, è estremamente nociva quando applicata anche alla conoscenza in generale e a quella dell’uomo in particolare, quella dinamica ha il potere magico della metafora e quello frattalico della parte che contiene il tutto.

Limitarsi a coltivare la conoscenza analitica è costringere a credere di conoscere il fondo della verità senza avvedersi che la dimensione cognitiva non solo è la più superficiale e la meno idonea al benessere umano, privato e politico contemporaneamente. È impedirsi della conoscenza attraverso i simboli, ovvero della consapevolezza che, come in un moto ondoso, tutto le forme, che pensavamo autonome e indipendenti, sono espressioni della medesima energia.

Così in alto così in basso, non riguarda solo terra e cielo ma ogni cosa. Riconoscerne la verità è riconoscere in che termini è vero che l’osservatore fa il mondo.

Lorenzo Merlo




Note

  1. Ricercatore cattolico e saggista austriaco, 1926-2002

  2. Filosofo e sociologo francese, 1921.


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