Nelle Facoltà di Ingegneria (ma non solo) la parola “terra” è stata sempre sinonimo di suolo: suolo da edificare, suolo dove lavorare, suolo da dove estrarre risorse illimitatamente (fossili, in primis), comunque suolo da sfruttare. Questa visione ideologica (che nasce con la rivoluzione scientifica: la separazione tra mente e natura) e produttivistica (capitalismo sempre più feroce ed estrattivo) ha prodotto, e continua a produrre, enormi danni al pianeta, desertificandolo, riducendo la sua biodiversità, immiserendolo.
La mitologia sottesa dagli studi di ingegneria si basa sull’abbattimento di ogni limite o barriera (il ponte più lungo, la macchina più veloce, la produzione più accelerata) e costituisce l’alleata più efficiente della crescita illimitata (alla base del mito di Odisseo che travalica le colonne d’Ercole, i limiti del divino).
È stato detto che su tutto questo domina la cultura del silenzio, una cultura che tace su tutto ciò che dovrebbe essere invece ascoltato, dibattuto, confrontato: il silenzio dei poveri, dei dannati della terra, degli sfruttati e, ora, dei tanti morti per guerre combattute per fame di terra, acqua, di risorse che questa sapientemente dispone per la nostra sopravvivenza, di una dignità ferita per sempre.
«Chi grida nella notte delle macerie?/ Non credevamo sarebbe tornata/ La razionalità ci avrebbe difeso/ Giocare a Dio non è stato un buon affare/ La hybris ci ha devastato/ Branchi di semidei vagano rabbiosi/ Noi che venimmo da un passato animale/ Dal cuore di tenebra/ Sognammo un incubo/ Il ritorno all’animale».
È tempo di cambiare paradigma e parole ormai usurate: terra significa “madre-terra” o ancora Gaia, Biosfera, ecosistema planetario, luogo che ci ospita, che produce la vita e quanto abbiamo bisogno. Definita con un neologismo la terra è Matria, luogo fisico e metaforico di accoglienza contrapposta a “Patria” parola inservibile, irrecuperabile. «Patria è ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione femmina la cui inviolabilità è garantita dai maschi), è il precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e classista».
Pensarsi in termini di Matria, dice Michela Murgia, consente di sradicare la prospettiva di Nazione, poiché significa madre di tutti che nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata, quella sempre desiderata.
Gli uomini sono al 100% cultura e al 100% natura, sostiene Edgar Morin. Impossibile separare; la mente non è più nobile del corpo come pensava Descartes, entrambi prodotti di un’evoluzione biologica che ci lega alla terra, non siamo abitanti occasionali, apparteniamo ad essa come gli animali e le piante. Siamo parte di un ecosistema planetario mosso e alimentato dall’energia solare.
Il vento, le maree, la pioggia e tutti gli eventi atmosferici nascono da questa energia che poco riusciamo ad usare, diversamente dalla natura che ne è animata e da cui ricava la sua bellezza e abbondanza. Nel 1957 un oggetto fabbricato dall’uomo fu lanciato nell’universo e per qualche settimana girò intorno alla terra seguendo le stesse leggi di gravità che determinano il movimento dei corpi celesti. Ma, afferma Hannah Arendt, per un fenomeno piuttosto curioso la gioia non fu il sentimento dominante, quanto piuttosto di sollievo per «il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre». Nel commentare questa manifestazione Arendt sostenne che la terra è la quintessenza della condizione umana e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio. Dunque, tale sentimento “di liberazione” esprime lo sforzo di rendere artificiale anche la vita, di recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i figli della natura.
Il nuovo paradigma mette al centro una nuova cultura all’altezza dei tempi, una cultura che richiede un profondo ripensamento del rapporto che lega gli esseri umani al resto della vita sulla terra, una cultura che permetta l’uscita dall’antropocene, una cultura che richiede una radicalità ancor più forte di quella all’origine delle pratiche e delle lotte che hanno caratterizzato il secolo passato cui molti sono ancora ancorati.
La crisi climatica e con essa, le disuguaglianze, le migrazioni, tenderanno ad aggravarsi: ce lo confermano le comunità di scienziati che al tempo stesso ci avvertono che siamo in prossimità di un punto di non ritorno. Combattere la crisi climatica richiede non solo opere di mitigazione, ma anche un atteggiamento di adattamento che coinvolge le relazioni tra persone, soprattutto quelle più fragili, quelle povere, quelle sfruttate, più oppresse.
La transizione ecologica, meglio sarebbe chiamarla conversione ecologica, come sostiene Viale, dovrà essere una transizione che muove soprattutto dal basso, dove le esperienze più virtuose oggi già in atto potranno essere replicate da altre comunità.
La nuova prospettiva è quella che vede il superamento tra cultura e natura, tra spirito e materia, tra mente e corpo e che mette in discussione la crescita illimitata e lo sviluppo. La crescita altro non è che accumulazione di capitale e richiede lo sfruttamento della terra e degli esseri umani. Lo sviluppo è il suo volto presentabile sotto forma di “sostenibile”, “umano”, “ecologico”. Questo slittamento semantico conduce verso pratiche devastanti, quali il nucleare (considerato dalla comunità europea “sostenibile”), la produzione di CO2 e il suo seppellimento (per continuare a produrre senza cambiare nulla), lo sfruttamento di interi paesi e dei fondali marini, alla ricerca dei minerali rari per la costruzione di batterie per le auto elettriche. Ma i governi mondiali pubblicizzano tali rimedi come necessari per la transizione, nessuno di essi dice che bisognerebbe consumare di meno, spostarsi di meno. Mangiare una torta e poi ri-averla tale e quale come sostiene la definizione di sostenibilità è un obiettivo fisicamente irraggiungibile come già ci spiegava Georgescu-Roegen sulla base del secondo principio della termodinamica.
Già Giorgio Nebbia nel 1999 proponeva di abolire la parola sostenibilità e tutti i suoi aggettivi. La sostenibilità è il trucco che i governi usano per far credere che sia possibile continuare nella stessa direzione con qualche rattoppo. Gregory Bateson, con riferimento alla sua conoscenza della Bibbia, ci ha insegnato che il dio ecologico non può essere beffato e che in ecologia non esistono scorciatoie. La conversione ecologica indica invece una conversione a U nella direzione dello sviluppo e significa in primo luogo avere cura della terra e del suo vivente.
La nuova prospettiva richiede la rinuncia alla centralità dell’uomo nell’universo, la rinuncia al patriarcato, all’imperialismo e a tutti i gretti nazionalismi, alle guerre, tutte. Ed è quella basata su comunità accoglienti e sulla valorizzazione del lavoro di cura, attività legate alla produzione e riproduzione della vita, comprese quelle sociali che tengono unite le comunità e ne rafforzano i legami.
Il vero “sviluppo sostenibile”, quello ostacolato dai poteri forti, è quello legato al miglioramento delle condizioni di vita di una generazione, dell’abolizione di ogni tipo di sfruttamento degli esseri umani e degli ecosistemi di supporto alla vita, quello legato all’accoglienza di chi fugge da guerre o desertificazioni, dall’abolizione degli armamenti in ogni paese e, dunque, da una ritrovata armonia con la terra.
Nella storia non c’è mai continuità; quando poteri pur forti che siano si affermano è altrettanto probabile che essi cadano velocemente a seguito di rivolte. Comunità virtuose, stili di vita diversi, pur restando silenti per anni, possono irrompere sulla scena dando luogo a capovolgimenti inediti e imprevisti, come fiumi carsici che riaffiorano prepotentemente dopo lunghi tratti attraversati nel sottosuolo, silenti.
È già accaduto. Non avverrà spontaneamente; ogni cambiamento determina lutti e gioie; è probabile che avvenga al seguito di rivolte non pacifiche, di certo non con la rassegnazione al consumismo e al pensiero unico, almeno fino a quando non ci sarà più nulla da consumare su questa terra.
C’è chi tra di noi crede che l’unico conflitto sia quello tra gli uomini per il possesso del potere o per il mantenimento del predominio. Credo che l’epoca attuale abbia fatto emergere che questo stesso conflitto vede ora quegli stessi uomini contro la madre-terra dispensatrice di beni. Non ci sono due conflitti separati: il predominio degli uomini sui propri simili comprende quello più vasto del predominio sulla natura.
L’armonia con la natura ha bisogno di pace, è pace. Come Università, come studiosi, cultori e depositari del pensiero critico disinteressato, abbiamo il dovere di contribuire a erigere queste casematte di resistenza negli atenei e nei territori; sentinelle silenti che torneranno utili nel momento in cui l’umanità, si spera, ritroverà la sua Ragione.
Enzo Scandurra * - Articolo ripreso da Comune-info-net
* Urbanista, saggista e scrittore. Ha insegnato per oltre quarant’anni “Sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio”. Collabora con numerose riviste scientifiche. Ha scritto molti saggi sulle trasformazioni delle città. Tra i suoi libri: Un paese ci vuole (2007), Ricominciamo dalle periferie (2009), Vite periferiche (2012), Fuori squadra (2017), Splendori e miserie dell’urbanistica (con I. Agostini, 2018).
Nota: il titolo riprende quello di un libro di Giovanni Franzoni "Farete riposare la terra" del 1999.
Nessun commento:
Posta un commento