venerdì 22 settembre 2023

Una panoramica sul concetto di "bioregionalismo ed ecosofia"

 



Il dibattito cruciale nel mondo ambientalista contrappone chi parte da una mentalità antropocentrica di gestione delle risorse e chi propone valori che riflettono la consapevolezza dell’integrità della Natura nella sua interezza. Quest’ultima posizione, definita  Ecosofia, neologismo coniato dal filosofo e alpinista norvegese Arne Næss, per descrivere qualcosa che già era e che faceva parte del nostro sentire ancestrale, è più vivace, coraggiosa, conviviale, rischiosa e scientifica.

Mai come oggi il futuro apre ad una molteplicità di scenari, dai più catastrofici e drammatici, ai più creativi e spirituali. Tuttavia, le tendenze autodistruttive di scala planetaria e tutte le contraddizioni che si stanno delineando a causa dei meccanismi omologanti messi in atto da politiche che non sempre tengono conto dei corretti indicatori del benessere delle persone e della biosfera, ma solo dei fallaci dati del PIL, trovano spiragli ottimistici grazie alla prospettiva bioregionale. Come lo stesso Snyder ricorda abbiamo ancora l’opportunità di imparare dalle culture tradizionali del posto, perché se è vero che il futuro è nelle nostre mani, per imparare di nuovo a vivere nel proprio luogo è necessario compiere uno sforzo che porti al superamento dei “confini artificiali” e ritornare al mondo naturale, con i bacini fluviali e le connessioni ecologiche come sottofondo principale per il nostro abitare.

Tale approccio lo accomuna non solo a Thomas Berry (1914-2009), ecoteologo e storico delle culture per il quale la Terra esprime se stessa non in territori omogenei ma in varie regioni differenti l’un l’altra, per cui abbiamo solo bisogno di ascoltare ciò che la Terra ci sta dicendo, ma anche a Peter Berg (1937-2011), altra anima del bioregionalismo, secondo il quale la bioregione è tanto il terreno geografico quanto il terreno della coscienza.

Eduardo Zarelli, saggista e pubblicista convinto sostenitore di decrescita, comunitarismo e bioregionalismo, ben chiarisce il significato del termine “bioregione” composto della parola greca bio, che significa vita e “regione” derivata dal latino regere, cioè governare; quindi la vita che si autogoverna nel limite biotico di un territorio abitato, un luogo definito dalle forme di vita che vi si svolgono piuttosto che da decreti legge: “una regione governata dalla natura”.

Questa sensibilità, come pratica di un’ecologia locale, viene riaffermata anche in un suo articolo del 2007 in cui scriveva: «La pluralità delle identità comunitarie evita i rischi di accentramento del potere e quindi di colonialismo o imperialismo. La complementarietà e lo sviluppo di una fitta rete di relazioni intercomunitarie - tra cui la sussidiarietà e l’interdipendenza - possono definire con sufficiente approssimazione l’intento di un “federalismo ecologista”, di assoluta attualità dato il destino tecnocratico dell’unità europea.

Il problema di fondo è di ripensare pluralisticamente il mondo fuori dall’Occidente, dal suo universalismo monistico e dalla sua centralità etnocentrica rispetto alla quale tutto diventa periferia. Bisogna comprendere, per dirla con Mircea Eliade, che “in ogni posto c’è un centro del mondo” possibile. E quel “centro del mondo” è, per ogni uomo, la sua identità personale e comunitaria, il suo specifico territorio umano, naturale e culturale, supportato dalla biodiversità. Saranno la reciprocità economica, il paritario scambio culturale, il viaggio e l’ospitalità a tessere, come capi opposti di un unico filo, le trame di una convivenza qualitativa tra le diversità, appagando la necessità profonda, per noi moderni, di ritrovare nel contatto e nel confronto con l’altro da sé, la radice della nostra cultura, la risposta al disagio esistenziale indotto dalla civilizzazione di massa: una risposta alla insopprimibile ansia di radicamento».

Fondata nel 1996 come incontro di varie realtà che si riconoscono nella visione dell’ecologia profonda e del bioregionalismo, la “Rete Bioregionale Italiana” consente libertà di azione locale e il perseguimento di fini comuni, collegati e coniugati ai diversi territori e tematiche bioregionali. «La bioregione - recita testualmente il Documento d’Intesa della Rete Bioregionale Italiana - è un luogo geografico riconoscibile per le sue caratteristiche di suolo, di specie vegetali ed animali, di clima, oltre che per la cultura umana che da tempo immemorabile si è sviluppata in armonia con tutto questo.

Per bioregionalismo si intende la volontà di ri-diventare nativi del proprio luogo, della propria bioregione. Possiamo fare tutte le scoperte possibili, usare la tecnica, la scienza; possiamo andare sulla luna e comunicare via satellite, ma alla base della nostra sopravvivenza fisica, psichica e spirituale vi sono questi alberi, queste erbe, questi animali, queste acque, questo suolo del luogo dove viviamo. L’evoluzione sociale e tecnologica è ecologicamente compatibile solo in “piccola scala”, localmente, e se rimane ancorata ad una visione olistica del sapere.

L’idea bioregionale consiste essenzialmente nel riprendere il proprio ruolo all’interno della più ampia comunità di viventi e nell’agire come parte e non a parte di essa, correggendo i comportamenti indotti dall’affermarsi di un sistema economico e politico globale, che si è posto al di fuori delle leggi della natura e sta devastando, ad un tempo, la natura stessa e l’essere umano.


Durante l'incontro bioregionale tenuto a Tivoli il 20 e 21 giugno 2020 ebbi modo di prendere nota  del pensiero dell’amico Paolo D’Arpini uno dei fondatori del Movimento Bioregionale in Italia sin dai tempi in cui risiedeva a Calcata. Partendo dall’assunto che il bioregionalismo si riconosce soprattutto nelle identità locali individuate principalmente nell’ambito municipale e provinciale (ambiti territoriali in cui una comunità di solito irradia la sua influenza culturale), Paolo ribadiva la necessità di restituire dignità e salvaguardare i diritti delle piccole comunità locali.

Tuttavia le Regioni, così come impostate e studiate a tavolino, si pongono come stati antagonisti sia per lo Stato Italiano che per l’Europa stessa che faticosamente sta cercando di trovare un’identità condivisa.

A suo dire se degli Enti inutili vanno eliminati, bene sarebbe abolire le Regioni, ritenute mini-stati all’interno dello Stato, che non rappresentano interessi di omogeneità culturale e bioregionale, ma solo di gestione economica e partitica.

«Il bioregionalismo - sostiene Paolo D’Arpini - riportando in auge sia il rispetto della vita in termini di ecologia profonda sia il riconoscimento dell’identità locale, è l’unico metodo che possa garantire equanime distribuzione e pari dignità alle diverse presenze degli abitanti della Comunità Europea. Quindi l’Europa, politicamente unita, andrebbe suddivisa in ambiti bioregioniali (e non in Regioni o in Macro-Regioni, come proposto da alcune forze politiche), poiché abbiamo visto che le amministrazioni Regionali per loro natura tendono ad essere separative e indifferenti agli interessi delle comunità locali (dovendo infatti difendere la loro strutturazione spuria ed anomala rispetto alla identità bioregionale)».

Interpellato in merito all’ipotesi di una “Ristrutturazione del Lazio” in chiave bioregionale, riporto di seguito quanto da lui stesso riferitomi: «Negli ultimi anni è andata maturando una coscienza ecologica e sociale, una considerazione delle diverse necessità delle varie realtà urbane e suburbane, che richiede una revisione generale degli attuali modelli e confini regionali.
Tanto per cominciare esiste la realtà dei grandi agglomerati metropolitani, come ad esempio Roma, ed esiste poi la realtà delle piccole città, dei villaggi e del territorio agricolo e boschivo. Va da sé che l’amministrazione di entità che manifestano differenze così sostanziali non può essere gestita in modo “centralistico”, che altrimenti gli interessi dei grossi agglomerati porterebbe alla fagocitazione e rovina dei centri meno popolosi ed al loro snaturamento. Anche l’istituzione delle cosiddette “aree vaste”, per una collaborazione intercomunale nei servizi, etc., non aiuterebbe il mantenimento dell’identità locale se non corroborata dall’esigenza primaria della conservazione dell’habitat e delle risorse naturali.

In Europa già da tempo si sta attuando una politica “decentrativa” separando l’amministrazione delle grandi città da quella del territorio extraurbano. Ad esempio vedasi Parigi oppure Monaco di Baviera, entrambe definite “Città Regione” indipendenti dal resto del territorio.

In Italia se osserviamo la situazione amministrativa del Lazio, vediamo che l’ente Roma Capitale è solo un’operazione d’inglobamento delle realtà rurali limitrofe con accorpamento del territorio provinciale. Secondo il criterio bioregionale da noi proposto, invece, Roma ed una ristretta area metropolitana dovrebbe assurgere allo status di Città Regione.

E a quel punto non vi sarebbe nulla di strano nello scorporare l’amministrazione regionale in due enti: Roma Capitale e Lazio storico. Se ciò avvenisse, come avrebbe dovuto già avvenire, questo riaggiustamento sarebbe un buon sistema di rivalutazione per il territorio e per le piccole comunità.

L’attuale perimetrazione del Lazio, ricordiamolo, è il risultato di un ragionamento politico accentrativo (attuato subito dopo l’unità d’Italia e successivamente durante il fascismo) il cui risultato fu lo smembramento delle realtà amministrative preesistenti. Ovvero la Tuscia storica fu smembrata fra la Toscana e il Lazio, e qui ancora separata in Tuscia viterbese e Tuscia romana. Altrettanto accadde con i centri della Sabina, con Rieti tolta all’Umbria e con diversi altri centri inseriti nella provincia romana e così pure avvenne nella Ciociaria, suddivisa fra Roma e Frosinone, e nella provincia di Latina creata ex novo in seguito alla bonifica pontina ed integrata da territori dell’ex Regno di Napoli.

A ben guardare, l’identità bioregionale di Roma Capitale ed area metropolitana, in senso stretto, dovrebbe corrispondere agli stretti limiti dell’espansione urbana e adiacenze.

Poiché è ovvio che le realtà civiche periferiche della attuale provincia di Roma andrebbero restituite ai loro ambiti originari, anche per un riequilibrio nel numero degli abitanti.

Altrimenti, se tale operazione di riequilibrio non fosse attuata, la nuova Regione metropolitana di Roma, se compresa negli attuali confini della sua provincia, raggrupperebbe oltre i quattro quinti dei residenti totali nel Lazio, il che non aiuterebbe assolutamente il territorio a crescere, dovendo soddisfare le esigenze di servizi passivi da parte della metropoli. La metropoli deve imparare ad essere autosufficiente».

Stralcio di un articolo di Italo Carrarini




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