mercoledì 23 novembre 2022

Contadini cercasi per sovranità alimentare



Il 75% delle persone che abitano questo pianeta viene sfamato dai lavoratori delle campagne. Le loro competenze, voci, corpi, vite, diventino politiche.

Bando degli ananas, penuria di sushi, dazi sul poké: l’annuncio da parte del governo Meloni di voler istituire il ministero per l’Agricoltura e la Sovranità alimentare ha suscitato tra stampa e parte della comunità istituzionale ilarità e preoccupazioni su eventuali prospettive autarchiche per il settore agroalimentare nazionale. Quanto questo sia frutto di ignoranza e scarsa conoscenza del settore è presto spiegato. Quanto un cambio di denominazione non compia da solo il cambiamento di modello che pure oggi è necessario all’agroalimentare a livello globale, è anch’esso oggetto di questa riflessione.

 

Le rassicurazioni del ministro

Il neoministro all’agricoltura Francesco Lollobrigida[i], allo scoppio delle polemiche, si è affrettato a spiegare che la dicitura era mutuata dal governo del presidente Macron, e che il cuore di questa auspicata nuova centralità nazionale nelle politiche agroalimentari si concentrava, essenzialmente, nell’espandere le coltivazioni nei terreni oggi incolti, secondo quanto prescrive la politica agricola comunitaria, per limitare le emissioni climalteranti, recuperando fino a un milione di ettari coltivabili. Poi il rinnovo di contratti di filiera più chiari per aiutare i produttori di materie prime agricole, l’istituzione di nuovi fondi per le aziende in crisi. Infine la lotta all’etichetta Nutri-Score, che classifica il cibo in base alle calorie bollando come insalubri alcuni “pezzi forti” dell’export italiano come parmigiano e prosciutto, oltre alla lotta ai cibi contraffatti con nomi che scimmiottano quelli tricolori, cioè l’“Italian sounding”.

 

Il cibo nel mercato globale

Una “vera” sovranità alimentare, però, è tutt’altra cosa. Alle origini del mercato globale, quando all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale i vincitori si proposero di far ripartire l’economia nel mondo, grazie all’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT) si lanciò un sistema di regole valide per tutti che stabilivano le condizioni secondo le quali le merci potevano essere scambiate tra i Paesi che vi aderivano. L’obiettivo era di rendere questi passaggi progressivamente più veloci e meno costosi, abbattendo nel tempo dazi e quote. L’agricoltura però, in considerazione della sua strategicità e criticità per la sopravvivenza di vincitori e vinti, era stata eccettuata da questo processo di progressiva globalizzazione e sottoposta a un negoziato di lungo periodo.

Dopo la caduta del muro di Berlino, e la creazione, nel 1995, dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) con l’obiettivo di istituzionalizzare, e quindi di rendere politico, il processo in corso di liberalizzazione e integrazione progressiva dei mercati, l’agricoltura entrò tra i temi di liberalizzazione commerciale con uno specifico Accordo Agricolo[ii]. Il cibo cominciò ad essere utilizzato come merce di scambio, al pari di tutte le altre merci, nel quadro della negoziazione generale, come se fosse un tubo o una scarpa, e con esso anche le regole con le quali i diversi Paesi ne assicurano prezzi, salubrità per l’ambiente, sicurezza per chi lo produce e per chi lo consuma.

Produrre, infatti, cibo “buono, pulito e giusto” [iii], come recita lo slogan di Slow food, per chi lo produce e per chi lo consuma, ha costi decisamente più elevati per chi lo commercia. La compressione dei costi di produzione, oltre alla noncuranza anche da parte degli Stati membri della Wto per gli impatti ambientali e sociali negativi e visibili della intensificazione dei sistemi e degli scambi già in corso nel settore, sono state le preoccupazioni immediate dei movimenti dei contadini che in tutto il mondo già pagavano sulla propria pelle il prezzo di questa deriva dai tempi della rivoluzione verde e delle piantagioni coloniali.

 

La prospettiva e le lotte dei contadini

È con questa visione che nel 1996, quando la Fao lanciava a Roma il primo World food summit [iv], si riunì a Roma una rete di movimenti sociali, Ong e reti di piccoli produttori di cibo da tutto il mondo. Il “Forum delle Ong sulla sicurezza alimentare”, presieduto e organizzato dalla Ong italiana Crocevia insieme alla neonata rete internazionale che promuoveva la prospettiva dei contadini rispetto all’agroalimentare, La Via Campesina, lanciò il concetto di sovranità alimentare.

Sovranità alimentare significa, innanzitutto, riconoscere che il 75% delle persone che abitano questo pianeta lo sfamano i contadini, non le multinazionali e i supermercati. E che per questo le regole che riguardano campi e cibo dovrebbero essere pensate non per facilitare forniture e profitti di queste ultime, ma per promuovere una produzione di cibo che, sulla base dei saperi e di una scienza basati sull’agricoltura contadina, abbia come obiettivi principali quelli di combattere la fame e la povertà sviluppando e rafforzando economie locali, la democrazia e la promozione dei diritti umani.

Con questa verità in tasca, e con una lotta serrata che si è svolta in tutte le istituzioni nazionali e internazionali, i contadini hanno ottenuto che, ad esempio, la Fao riconoscesse nell’agricoltura contadina e nell’agroecologia la strategia maestra, non residuale e folcloristica, per alleggerire il pianeta dalle emissioni del settore agroalimentare che, sempre secondo la Fao, rappresentano circa un terzo delle emissioni climalteranti globali[v]. Un riconoscimento che si è accompagnato anche ad un cambiamento nella struttura decisionale dell’agenzia delle Nazioni Unite per il cibo, che ha visto i contadini e le proprie rappresentanze essere poste sullo stesso piano degli Stati e del settore privato[vi].

 

Quelle parole di Giorgia Meloni

La premier Giorgia Meloni, nel suo discorso d’insediamento al Parlamento[vii], ha chiarito che a suo giudizio “l’Italia deve tornare ad avere una politica industriale, puntando su quei settori nei quali può contare su un vantaggio competitivo. Penso al marchio, fatto di moda, lusso, design, fino all’alta tecnologia. Fatto di prodotti di assoluta eccellenza in campo agroalimentare, che devono essere difesi in sede europea e con una maggiore integrazione della filiera a livello nazionale, anche per ambire a una piena sovranità alimentare non più rinviabile”. Ovviamente, dice lei, ma lo avevamo capito anche noi, questo non significa “mettere fuori commercio l’ananas, come qualcuno ha detto, ma più banalmente garantire che non dipenderemo da nazioni distanti da noi per dare da mangiare ai nostri figli”. E qui, però, c’è il nodo della contraddizione che né Meloni né i suoi predecessori sembrano voler sciogliere.

 

Il prezzo salato del Made in Italy

Perché l’Italia, in realtà, da troppi anni non è autosufficiente non perché non potrebbe esserlo, ma perché ha scelto di schiacciare il proprio agroalimentare proprio sulle esportazioni. Che l’autosufficienza sia una priorità importante lo ha dimostrato la pandemia, come tutti gli altri disastri provocati dai cambiamenti climatici: quando i cargo, le navi, i camion non partono, o i prezzi del cibo globalizzato schizzano alle stelle per colpa delle speculazioni, i supermercati si svuotano. Se i sistemi locali di produzione e distribuzione del cibo, a partire dai mercati, non funzionano, o si basano sulle stesse filiere, banalmente le persone non mangiano. In tempi incerti come questi devi avere soluzioni alternative solide ai supermercati globalizzati. E per questo il Made in Italy cui la premier fa riferimento può davvero poco.

Gli ultimi dati[viii] confermano che l’Italia esporta sempre di più in valore, nonostante la crisi e l’inflazione, ma è un artificio algebrico: questo, infatti, non significa che un numero maggiore di prodotti italiani lasciano il nostro Paese per mete esotiche, ma che vengono venduti a prezzi più alti, anche per la crescita dei costi. Questi prodotti “Made in Italy” a prezzi alti per il 69% vengono venduti in Europa, ma negli anni sono sempre meno accessibili a lavoratrici e lavoratori del nostro Paese, tra i quali gli stessi contadini, che da trent’anni, pecore nere dell’Unione, vedono i propri salari calare[ix].

Questi prodotti indebitano il Paese, perché il dettaglio merceologico delle importazioni, che trascinano la nostra bilancia commerciale in deficit aggravando il buco del Pil, rivela che esse sono costituite in larga parte da materie prime non trasformate e prodotti semilavorati che parlano tutte le lingue del mondo e che noi utilizziamo per fare quel Made in Italy agroalimentare che esportiamo a caro prezzo. Il resto è prodotto a qualità e costi molto più bassi, che sono la base alimentare della classe media e dei poveri di questo Paese.

Queste materie prime, infine, le otteniamo a prezzi bassi perché le importiamo sempre di più da Paesi con i quali stringiamo accordi commerciali che ci permettono di concordare standard di qualità e di produzione, presenza di pesticidi, di tossine, di ogm, peso sull’ambiente e emissioni, intensità e numero di controlli sempre più deregolati. Il tutto a vantaggio di pochissimi gruppi e portatori d’interesse nazionali e internazionali, che negli anni stanno trascinando verso il basso anche il quadro delle regole europee e nazionali. Tutte le regole: perché quando si parla di cibo si parla di sopravvivenza, ambiente, lavoro, diritti umani. Le basi del contratto sociale.

Per questo la sovranità alimentare senza i contadini non si può che enunciare: per compierla c’è bisogno che le loro competenze, voci, corpi, vite, diventino politiche. Una pratica democratica che nessuno dei governi istituiti dalla sua dichiarazione nel 1996 ha mai voluto percorrere fino in fondo in questo Paese. Le reti de La via campesina o l’Associazione rurale italiana, le organizzazioni come Crocevia, le campagne come “Cambiamo agricoltura”[x] che chiedono passi concreti contro i cambiamenti climatici, le esperienze come la Food Policy milanese e romana, dove insieme, organizzazioni come la mia e istituzioni cittadine, si stringono intorno a una pratica partecipata delle politiche del cibo. Non basta dichiarare, serve riconoscere e fare sul serio. I governi passano, i cittadini votano.

Monica Di Sisto, giornalista dell’Osservatorio italiano su clima e commercio Fairwatch

 

(ripreso da comune-info)


[i] https://quifinanza.it/editoriali/video/francesco-lollobrigida-cognato-meloni-sovranita-alimentare/673125/

[ii] https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/111/wto-agreement-on-agriculture

[iii] https://www.slowfood.it/comunicati-stampa/ministro-sovranita-alimentare/

[iv] https://www.croceviaterra.it/sovranita-alimentare/cos-e-sovranita-alimentare/

[v] https://www.fao.org/news/story/en/item/1379373/icode/

[vi] https://www.csm4cfs.org/

[vii] https://formiche.net/2022/10/discorso-completo-giorgia-meloni-camera/

[viii] https://www.ismeamercati.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/12292

[ix] https://www.milanofinanza.it/news/italia-30-anni-di-salari-in-calo-202205171511219124

[x] https://www.cambiamoagricoltura.it/

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