martedì 22 novembre 2022

Raschiando "Il fondo del barile"...

 


Sul fondo del barile – Crisi sociale e recupero del sé è un libro  che ha tre generi di lettori: chi trova conforto alle proprie posizioni; chi è in cerca del significato di apertura; chi indaga come svincolarsi dalle proprie chiusure.

É dedicato alla possibilità energetica che molti di noi non sentono neppure più, in quanto sepolta sotto le macerie di idee materialiste, mortificata dal credo nel denaro e nella tecnologia, stuprata da una concezione dell’uomo ridotto a economia, profanata da una politica mai capace di valorizzare ciò che il razionalismo non è in grado di riconoscere come realtà.

L’eros come espressione del muoversi attraverso il sentire e il sé quale centro, in sostituzione dell’io mondano sono i fili che legano le pagine del libro.


In fondo al barile

Il titolo, Sul fondo del barile, allude alla nostra situazione sociale e spesso individuale. Una situazione dove tutti i cardini con i quali si è cresciuti e ai quali facevamo riferimento – in una parola, nella tradizione – si sono sciolti nell’acido del positivismo, del capitalismo, del consumismo, dell’opulenza, del neoliberismo. Sotto l’egida ormai divenuta sacra del business is business, ci si è permesso di tutto. E, per quanto non sia un processo avviato dall’uomo comune, la responsabilità non è solo delle élite. Tutti noi abbiamo assorbito fino a scalzare la solidarietà. Fino a considerare il bene comune come cosa secondaria agli interessi individualistici. Fino a ritenere la comunità un fatto risibile.

La globalizzazione ha fagocitato culture e tradizioni che distinguevano storie e geografie, biografie e valori, ora in estinzione e destinati al folklore. Il cuore è stato consumato in nome del profitto über alles. Tutto ciò ci ha portati sul fondo del barile, dove, è sottinteso, dobbiamo raschiare i residui di vitalità.


Crisi sociale

Il sottotitolo è meglio scomporlo in due parti. La prima, Crisi sociale, si riferisce a questi tempi, germinati negli anni ‘70 con le prime pretese di porre l’individuo al pari della comunità, istanze di un individualismo affermatosi nel decennio successivo. Quello dei grandi guadagni, della Milano da bere, dell’edonismo come nuova prospettiva con la quale misurare la propria autostima. In questa fase, si è dissolta l’ultima dimensione solidaristica. Ciò che prima era caposaldo culturale della sinistra è venuto meno, proprio a partire dalla sinistra stessa, sempre più interessata ad evolvere le attenzioni all’individuo, invece che alle classi. Una scelta accompagnata da una pari seconda attenzione proiettata al futuro. Liberandosi della pelle popolare che portava dalla nascita, non ha avuto incertezze nell’indicare a coloro a cui si era sempre rivolto direzioni politicamente, culturalmente, economicamente, psicologicamente opposte. Negli anni, in una parola, ha imbracciato la bandiera liberista e globalista, disinteressandosi delle categorie più basse della società, quelle sui cui tavoli di briciole arriva sempre il conto più salato. Il futuro che vedeva per i lavoratori sta ancora in una parola, neoliberista appunto: flessibilità.


Gli anni successivi hanno visto un crescendo, favorito dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine dell’Unione sovietica. Tutti passi che il capitalismo ha saputo cavalcare per ribadire in noi che non c’erano alternative, differenti dal concepire le persone come merce.

Nel frattempo, il consumismo, dopo aver riempito di beni l’occidente, dopo aver trovato nei paesi emergenti nuovi mercati e nuova vantaggiosa manodopera, si è visto a corto di prospettiva. Era il prodromo del neocapitalismo finanziario. I soldi non servivano più, l’economia reale non era più necessaria. E con essa la politica e l’informazione, che da servizio al cittadino, mutavano in maggiordomi di autorità mercantili e di controllo.

Nel 2008, la cosiddetta bolla finanziaria è scoppiata, lasciando a piedi milioni di persone, rischiando il fallimento di banche e paesi interi. Nonostante ci fossero elementi sufficienti per dedicarsi a cercare altre rotte sociali, nulla è stato fatto. Nel mentre, la situazione del clima, dell’ambiente, della crescita demografica mondiale, della salute, dell’istruzione, delle infrastrutture è andata precipitando. Ora ci si dedica a raschiare il barile da parte di tutti, istituzioni incluse.

Se i motori diesel, che da sempre ci avevano detto inquinavano meno della benzina, sono improvvisamente andati fuori legge, non è certo per una sensibilità ambientale o della salute. È un escamotage – come lo è l’imposizione di cambiare auto e tanto altro – per recuperare qualche denaro a favore di un pil che più d’essere un indice della ricchezza di uno stato, lo è della scelleratezza e dell’irreversibile agonia in cui giace. Gli stati sono falliti e l’esempio del diesel è soltanto l’indice più banale.


Caduta

Quanto detto finora è trattato nella prima delle tre sezioni del libro: Caduta. Essa è dedicata proprio alla sintesi socio-politica degli ultimi decenni a partire dal boom economico del dopoguerra. Anni nei quali si possono scorgere le ragioni che hanno eletto il sentimento populista e abbandonato quello infatuato alle ideologie.

Non si può scappare. Decenni di politiche astratte, anzi attratte dalla sola dimensione economica, hanno prodotto il populismo. Nasceva orfano. Destra e sinistra lo rinnegavano mentre esalavano l’ultimo respiro. Ora è cresciuto e ha vita dura. Nel pensiero di ciò che sopravvive dei suoi avi ha spesso valore negativo, di cosa spregevole. Della sconsideratezza dei genitori non fa mai cenno. Un ossimoro bio-ontologico.

Il populismo è giovane e, quindi, più contraddittorio di quanto non si possa mediamente dire della anziana saggezza. Anche di questo è colpevolizzato. E lo è perché considerato incapace di sistemare in settimane il dissesto assoluto realizzato in anni e anni da chi lo ha preceduto. Anche su questo ciò che resta dei suoi antagonisti fonda le spesso inconsistenti se non risibili argomentazioni critiche nei confronti del loro generato.

Era partito un modo di concepire la realtà e concepire se stessi convinto che le gravità delle politiche sociali dalla nervatura etica, fino ad allora sistema nervoso di un’Italia che sapeva riconoscersi nei valori elementali, fossero superate. Corpo morto che impediva all’Italia di essere alla pari con le potenze del mondo. Nonostante lo sfacciato spirito tardo-imperialista – forse solo un tentativo di imitazione della grandeur francese – quell’Italia morì insabbiata dalla corruzione fatta sistema politico, annegata nei Martini Dry dei radicalchic. Una morte per la quale nessuno mai si mise a lutto. La nazione si era sciolta, non c’era più, ma tutti pensavano al week end.

Ora, sul grande schermo del cinema della vita e dell’educazione, scorreva un modello differente da prima, quando tutti si rimboccavano le maniche e l’Italia era la loro Italia. Ora, sotto l’egida di un individualismo lasciato libero, le persone spendevano le loro migliori energie per sgomitare, sopraffare, arricchirsi… di un benefit, di una tv al plasma, di una Bmw, ognuno secondo la personale misura. E ciò che più conta, dannazz maledizz, con quell’unità di misura, misuravano il proprio successo, e il proprio diritto a pretenderlo.

Nel frattempo l’impegno sociale era stato sostituito da un altro diritto, quello del tempo libero. Un processo socio-entropico raccapricciante si era compiuto. Niente più Italia, comunità, nazione, comune sentimento di appartenenza. Pasolini era stato trucidato ancora.


Recupero del sé

La seconda parte del sottotitolo, Recupero del sé, riferisce di una possibilità, forse la sola, per un aggiornamento della rotta della motonave della storia. L’aggiornamento si rende necessario non solo per lo stato di crisi dal quale, a parte pezze e rattoppi, nessuno ha idea di come uscire, neppure utilizzando i mezzi classici. Ovvero quelle scelte ed azioni supportate dall’esiziale filosofia della crescita infinita. Ma anche perché, qualora dovessimo assistere ad una ripresa economica, questa avrebbe quale elemento di riferimento il profitto, quindi il consumo. Nessun aggiornamento di rotta potrà mai avvenire utilizzando il comandante che ci ha portato nel campo dei problemi in cui ci troviamo. Nonostante ciò, è stillicidio quotidiano sentirsi ripetere termini quali sostenibilità, riduzione della disoccupazione dello 0,3 per cento rispetto al pari periodo dell’anno scorso, ripresa economica. Lasciar pilotare ancora in quella direzione che sostanzialmente concepisce l’uomo ridotto a economia e che pensa di essere nel giusto in quanto procede – seppur a tentoni – impugnando la torcia del razionalismo, non potrà che allungare l’agonia nostra e del pianeta. Non potrà che fornire alle prossime generazioni un mondo ulteriormente critico e sommerso d’incertezze. Non potrà che risolvere i problemi con il controllo e la sottile repressione invisibilmente coercitiva. Intento, che chi detiene la comunicazione può realizzare a piacere e alla bisogna.

Per cambiare rotta può, invece, essere utile lavorare per resettare la concezione che abbiamo di noi stessi: da individui schiacciati – ridotti appunto da valori e modelli misurabili, economici, tecnologici, scientifici – a liberi e creatori. Perno del giro di boa è la responsabilità. Se prima veniva conferita ad altri, politici o istituzioni, ora va assunta in toto. Ciò comporta che la realtà che abbiamo non ha più il potere di abbatterci o esaltarci. Implica saper riconoscere il qui ed ora, affinché le migliori risorse creative e di forza possano esprimersi in noi vitanaturaldurante.

Affinché ciò possa avvenire, è necessaria un’evoluzione personale. Strada nella quale scopriremo le zone d’ombra di noi stessi, scopriremo come illuminarle in quanto sola modalità per ridurre o eliminare la sofferenza. Questo è recupero del sé. Riconoscere le caratteristiche autentiche di noi stessi, dopo averle spogliate dagli orpelli culturali nei quali ci eravamo inconsapevolmente identificati. Per mezzo dei quali avevamo preferito il benefit alla meraviglia della vita.


Presa di coscienza

Di tutto ciò tratta Presa di coscienza, il secondo capitolo del libro. Esso si dedica agli aspetti della realtà che dimostrano la presenza e la vitalità di un modo di sentire il mondo alternativo a quello materialistico-economico.

Quando qualcuno nella sua politica – fosse anche solo per campagna elettorale – ha fatto cenno a valori non solo economici, quando si è sentito parlare di attenzioni verso aspetti che destra e sinistra non avevano nei loro sussidiari, molti di noi hanno alzato le antenne, hanno sentito una vibrazione, non solo politica, ma di partecipazione, che dai tempi del 68 non attraversava più i nostri corpi.

In quel tipo di vibrazione si può cogliere l’essenziale energia per un cambiamento culturale. Se prima, senza volerlo, eravamo scivolati nel grande imbuto del pensiero unico – quello che ci ha fatto credere che la globalizzazione non avesse controindicazioni, che dietro il dito del business is business davvero nessuno potesse vedere le nostre malefatte e che l’economia potesse a diritto capeggiare la piramide della vita – ora si percepisce che l’esigenza di una dimensione spirituale non è più solo embrione in uteri sparsi nel cosmo della società e sconosciuti tra loro. La qualità della vita, a partire dal Butan, non è comprimibile nel Prodotto Interno Lordo. In quello semmai ci starà la miseria di chi ancora vuole eleggerlo ad indicatore della qualità della politica. Non a caso, sono gli stessi che reificano lo spread più di quanto già non facciano con le cose e le persone.


Sapienze

Sempre in questa seconda sezione, è presente – a volte in modo latente, altre più esplicitamente – una sorta di sincretismo o unione degli opposti. Entrambe le definizioni non sono strettamente appropriate, ma possono evocare come sapienza tradizionale e scienza moderna arrivino a traguardare il mondo attraverso la medesima prospettiva.

L’illuminismo ha valorizzato la nostra dimensione razionale, ma la cultura che ne è scaturita ha volgarizzato quel nuovo momento umano. Ne è rimasto il concetto che ratione è verità. La scienza così come la conosciamo e tutti la impieghiamo è la verità. Tutti noi siamo indotti a credere che se un dato non è misurabile, allora non esiste. Un disastro da un punto di vista umanistico. Se possiamo trovare riscontro a questa materialistica lettura e affermazione del mondo nella fisica classica, detta appunto meccanicistica, con l’avvento poi della fisica quantica tende a perdere di consistenza. La novità è che si è riscontrato che ciò che chiamiamo materia, a seconda delle circostanze, perde i suoi connotati per assumere quelli di onde, di vibrazioni, di energia. Non solo. In altri esperimenti, si è riscontrato che il comportamento di certe particelle varia in funzione dell’osservatore. Da ciò si possono fare due considerazioni di rilievo culturale.

La prima è che la realtà non corrisponde che alla nostra descrizione, ovvero che l’osservatore non può mai osservare la realtà senza esserne coinvolto. Un fatto esplosivo se si considera che la fisica classica riteneva e ritiene esattamente il contrario.

La seconda considerazione è che ciò che la fisica quantica ha iniziato a vedere corrisponde totalmente a quanto le tradizioni da sempre hanno affermato. Siamo, apparteniamo, ad un solo corpo. Tutte le analisi che tendono a scomporlo in parti perdono di vista la loro contiguità e le relazioni che creano l’insieme. Certe modalità di ricerca, analitiche appunto, se investite di essere le sole in grado di produrre conoscenza, non potranno che allontanarci dalla risoluzione di tutti i problemi. La conoscenza è già in noi. Noi facciamo la realtà. La realtà in sé non esiste, come non esistono le doti che crediamo delle cose finché non prendiamo coscienza di essere stati noi ad attribuirgliele. Da qui il sincretismo tra i due campi di ricerca proposto nel libro.


Risalita

Il terzo e conclusivo capitolo si chiama Risalita. È un lungo racconto sull’animo dell’uomo che potremmo essere. E che, consapevolezze permettendo, certamente possiamo essere.

Se la nuce di una luce, che gli affanni della sopravvivenza avevano dimenticato nel sottoscala dei valori, è rimasta accesa in quest’epoca di politica disumana, essa non deve bastare a soddisfare il sentimento di chi non si è mai sentito materialista, meccanicista, positivista. Quella nuce di luce ha bisogno delle personali rivoluzioni, affinché l’utopia che ci hanno fatto credere fosse solo una bella idea, possa compiersi e reificarsi in educazione, in politica, in quotidiano, in vita, valori, bellezza.

È il compito di un uomo nuovo, circolare, protagonista del nuovo paradigma. Un uomo che cerca in sé quanto per troppo tempo è stato indotto a cercare fuori da sé. Il solo uomo che sarà in grado di compiere il cambiamento. Il solo capace di imparare dalla propria sofferenza piuttosto che pretendere la cura dagli altri.

È troppo? No, è niente per coloro che già sono in marcia verso la personale evoluzione. Per tutti coloro che sono l’incarnazione di una verità tanto banale quanto occulta: senza il personale cambiamento, nessuna società diversa da quella che critichiamo potrà essere generata. La metafora del velo di Maya, da ristretto fatto aulico, sta scendendo in strada al nostro fianco. Ci farà risalire le rapide dell’opulenza e dell’attribuzione di responsabilità. E tutto cambierà.


Muro senza appigli

Parlare di evoluzione è per tutti un muro senza appigli, senza riferimenti. È uno degli incantesimi della cultura materialistica. Tuttavia, è possibile coltivare le abilità necessarie a scalarlo. Intanto è da fare presente che il mondo che ci siamo trovati venendo al mondo non era affatto il mondo in sé. Era ed è plastilina modulabile con le scelte degli uomini. Già questo è un aggiornamento che ad alcuni sfugge. Se poi dicono sia difficile o impossibile cambiarlo, certo capiamo a quale difficoltà alluda. Eppure, un cambiamento, una evoluzione, sta anche nel linguaggio che impieghiamo per descrivere la realtà. Non usiamo il termine difficile, che fa riferimento ad un tempo a disposizione, quello della nostra vita, effettivamente limitato per vedere i risultati che vorremmo. Non usiamo più difficile, né impossibile. Cancelliamolo dal lessico e iniziamo a lavorare come se fossa cosa breve, pur temendo sia cosa lunga. Così facendo, certamente i risultati verranno. Era così che procedevano i nostri nonni quando, guardando un pendio montano, iniziavano mentalmente a vedere dove fosse meglio realizzare i terrazzamenti che ancora oggi vediamo, sebbene spesso abbandonati. In quello sguardo iniziale c’era già il terrazzamento compiuto, sebbene solo i loro figli nipoti e pronipoti l’avrebbero realmente toccato. Lo vedevano e si realizzava. A parte i montanari, così facciamo tutti anche oggi per ogni azione dedicata alle nostre passioni, professionali e personali. Aggiornare la nostra concezione su ciò che possiamo o non possiamo ottenere corrisponde ad un rivoluzionario movimento su noi stessi. Per questo si tratta di una rivoluzione sociale che ha sede soltanto entro l’individuo. Non solo, a causa del poco noto principio che l’esperienza non è trasmissibile, questo cambiamento che necessariamente implica l’affermazione del nuovo paradigma umanista, non è da impugnare secondo le logiche del proselitismo. Piuttosto del messaggio nella bottiglia, qualcuno all’altezza di intendere cosa si sta dicendo certamente ci sarà. Per tutti gli altri, insistere è cosa inopportuna. Verrà il loro tempo e il messaggio a loro adatto.

Dunque evolvere non significa aver capito tutto, ma semplicemente aver riconosciuto e valorizzato quelle parti umane di noi che il sistema ha scelto di occultare. Suggestionati da una narrazione della realtà in mano agli scientisti, ai positivisti, ai materialisti, siamo come bovi inconsapevoli della forza che abbiamo, della capacità magica che è in noi.

Per questo il libro si conclude con un riprendiamoci lo spirito creativo che abbiamo calpestato in nome di una collanina di lustrini, la stessa che i colonialisti utilizzavano per depredare terre e popoli. Proprio come ora fanno con noi.

Lorenzo Merlo




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