venerdì 1 marzo 2024

Conoscere il territorio. La leggenda del Fucino

"....rileggendo un vecchio testo dal titolo Antica Terra d’Abruzzo e incuriosito da vari argomenti mi sono ricordato che quando avevo circa dieci anni ho ricevuto in regalo un libro intitolato Abruzzo, della collana enciclopedia delle regioni, Meravigliosa Italia, dove sentii parlare per la prima volta del lago Fucino." (F.R.) 



Il toponimo Fucino deriverebbe dal termine latino Fūcinus che si ricollega all'etnico Fūcentēs, associato da Plinio il vecchio ai Marsi popolo italico  che viveva lungo le sponde sud orientali del lago. Il nome Fūcinus sarebbe riconducibile a una base fūk con il significato probabile di "luogo melmoso". Secondo un'altra ipotesi, il nome deriverebbe dalla presenza di alghe che al tramonto in determinati periodi dell'anno conferivano alla superficie lacustre un riflesso rosso, simile al colore della fucina.
 
Già sappiamo che un tempo la conca del Fucino era interamente coperta da un lago. Come si formò questo lago? 
 
La fantasia popolare ha saputo crearci una leggenda, in cui forse c’è qualcosa di vero… Si narra dunque che in tempi remotissimi il lago non esisteva e che nella conca si estendeva una grande e bella città che, essendo la capitale del popolo dei marsi era chiamata Marsia. Un giorno dice la leggenda, capitò a MarsiaGesù. Egli volle provare l’animo degli abitanti e cominciò a bussare di porta in porta, chiedendo in elemosina un pò di pane. Fatto il giro del quartiere dei ricchi, Gesù non ricevette nulla. Pensò allora di rivolgersi alle case dei poveri e anche qui raccolse ben poco. Alla fine giunto a una misera casupola, fù accolto da una vecchia donna che subito lo fece entrare dicendo: sii il benvenuto, ho ben poco da offrirti e quello che ho te lo offro col cuore. Gesù mangio un tozzo di pane, si riposò e alla fine disse alla vecchia donna: su, vieni con me, ora. Camminami davanti e guidami verso i monti della Marsica e non voltarti finché non saremo fuori da questa conca. La donna ubbidì. Giunta alle falde dei monti, si volse. Gesù non c’era più. Piena di stupore, vide la città era stata sommersa da un grande lago.
 
Archippe
 
Una delle leggende più interessanti, invece, è quella dell’antica città di Archippe, che compare anche nell’Eneide di Virgilio e che, come successe ad Atlantide, venne inghiottita dalle acque. Il mito di una città di cui la storia perse quasi del tutto memoria si lega al destino del lago del Fucino, bacino ormai scomparso che per secoli ne nascose ogni traccia, cullando nel profondo delle sue acque tutto il fascino della sua leggenda. 
 
Anche Alexandre Dumas già fantasticava sull’ipotesi che il prosciugamento del grande lago abruzzese desse modo di svelare i tanti misteri legati alla celeberrima Archippe, che si spinge a definire ottava meraviglia del mondo. Effettivamente, fino al definitivo lavoro di bonifica, ogni possibilità certa di chiarire l’origine della città sembrava vana.
 
Chiunque ne abbia scritto o fatto cenno in epoca antica, da Virgilio a Plinio, che prima di lui riprendeva Gneo Gellio, non avrebbe potuto davvero conoscerla, dal momento che Archippe, come altri insediamenti interni al bacino, sembrerebbe essere stata inghiottita seppur gradualmente dalle acque del Fucino intorno al IX secolo a.C., in seguito ad una lunga fase di cambiamenti climatici che definì un consistente aumento delle acque del lago in breve tempo.
 
Quello che di vivo restò e restò molto a lungo furono le mille storie e leggende legate allo splendore di una città monumentale che avrebbe potuto essere la prima di qualunque altra città dell’antico popolo dei Marsi. 
 
Del resto le nostre fonti antiche non sembrano aver dubbi sulla reale esistenza di Archippe, dal momento che per Plinio sarebbe stata addirittura la prima città marsa mai fondata, eretta ben prima di Marruvium e ben più ricca delle altre di cui la storia ci parla, mentre Virgilio, un secolo prima di lui, nomina un re marso, Archippo, che certamente va ricondotto al mito di Archippe, se non altro per l’assonanza non casuale del nome che porta. Nell’Eneide, infatti, il fortissimus Umbro, che arrivava a sostegno di Turno nella guerra contro Enea era il noto eroe locale Umbrone, sacerdote marso con l’elmo ornato d’una ghirlanda di ulivo fecondo, che il re Archippo spediva in guerra tra i più valorosi spiriti guerrieri di tutto il popolo (Aen. VII, 752 e ss.). Non restava dunque che far emergere la sacra Archippe, patria dei primi marsi, dalle acque scure del lago che ne serbò il ricordo per secoli e possiamo ben immaginare lo stupore crescente di studiosi ed amatori quando, alla fine dell’Ottocento, giunti quasi al completamento dell’opera di prosciugamento del Fucino, i resti di alcune strutture e sepolture vennero effettivamente alla luce. 
 
Dissolte le nebbie del lago, dunque, la storia sembrò dar ragione al mito e nell’area antistante l’abitato di Ortucchio, lì dove la fantasia e qualche racconto locale aveva sempre immaginato l’antica bellezza dei resti di Archippe, gli archeologi rinvennero infatti dei resti effettivamente riconducibili al X-IX sec. a.C. Molto probabilmente l’abitato fu luogo di scambi e vita sociale stabile per tutto l’Eneolitico, durante l’età del Bronzo e forse fino alla prima età del Ferro, epoca in cui si verificò il definitivo abbandono in favore di zone più riparate dalle acque in crescita. La lenta dissoluzione dell’abitato mitico di Archippe, all’epoca, fu dunque inevitabile e nulla poterono gli antichi abitanti della città contro le acque del lago. Furono dapprima costretti ad abbandonarla e poi ad assistere impotenti al lento crescere del Fucino che se ne appropriava, spingendo la prima e più splendida delle loro città negli abissi. Solo ora, che il lago non esiste più e gli uomini hanno deciso per queste terre un corso diverso nel loro destino, mito e verità storica hanno potuto finalmente svelare l’incanto della città che tanto affascinava Dumas: lì dove la piana ora è più fertile sorgeva davvero Archippe, città straordinaria rapita dalle acque. Tanti studiosi l’avevano immaginata nella vecchia Arciprete, una piccola località vicino Ortucchio, anche se alcune recenti scoperte archeologiche scagionano la somiglianza fonetica ed etimologica tra Archippe e Arciprete.
 
Lo storico Luigi Colantoni, nella sua opera dal titolo "La storia dei Marsi " pubblicata nel 1889, così ci parla della mitica città di Archippe: "I primitivi nostri antenati ebbero per capitale Archippe, castello fortissimo costruito dai Pelasgi ; il quale, per uno di quei cataclismi, che una volta erano tanto frequenti, scomparve dalla faccia della terra. Si ritenne ingoiato dalle acque del Fucino ; ma quando questo è stato disseccato nessuna traccia di monumenti antichi si è rinvenuta nel suo fondo. Essa era situata nella parte meridionale del lago, vicino Trasacco, e probabilmente presso il luogo detto prima Archipetra (oggi Arciprete). Virgilio, nell'Eneide, per l'incertezza della storia sulle origini italiche, confonde il nome di questo castello con quello di uno dei re Marsi, appellando Archippo re della gente marruvia."
 
L' archeologo prof. Giuseppe Grossi, in merito ad Archippe, scrive quanto segue: "Già dall'epoca di Paolo Marso ( XVI), del Febonio, del Corsignani e Di Pietro ( XVII- XIX secolo), si favoleggio' che bella località di Arciprete, posta nel territorio di Ortucchio, sorgesse la mitica città di Archippe, sommersa dalle acque del Fucino. Questo legame geografico fu provocato da un falso accostamento etimologico che vedeva nella medioevale Archipetra la sopravvivenza di Archippe. Pur tuttavia l'intuizione degli storici marsicani fu feconda in quanto effettivamente nel luogo sono dei resti che danno nel loro insieme l'immagine di un impianto urbano, con ogni probabilità riferibile al municipium Marso di Anxa. Della città di Archippe si è ampiamente parlato e sempre in chiave di lettura filologica, senza intravedere nel nome l'unico residuo di una tradizione genuinamente marsa che conservava un fatto storico di notevole importanza per la formazione dell' ethnos marso. Non a caso il suo nome viene utilizzato, insieme al nemus Angitiae, per nobilitare il nuovo municipium marso di Marruvium con la creazione di un Archippo re della popolazione marruvina. Questa saga riferita ad una città marsa sommersa dalle acque del Fucino, descritta da Plinio ( che la riprendeva da Gneo Gellio) e successivamente da Solino, ci dimostra come in un territorio come quello dei Marsi, ancora in età imperiale, fra i sopravvissuti della Guerra Sociale, ci fosse un così forte legame con i miti delle origini.
 
La saga di Archippe non è altro che il preciso ricordo di un avvenimento storico che per le sue proporzioni rimase profondamente radicato nell'animo marso. Infatti, come recenti ricerche hanno dimostrato, intorno agli inizi del IX secolo a.c. il Fucino ebbe un notevole innalzamento che porto' alla sommersione e il definitivo abbandono dei villaggi protovillanoviani di Ortucchio e Luco, posti sulle rive del lago. Sebbene questo innalzamento abbia portato alla distruzione dei due villaggi, anche se l'unico villaggio che può realmente aver legami con Archippe e' quello di Ortucchio, data la sua grandiosità e la ricchezza dei suoi bronzi. Lo studio delle foto aeree e le esplorazioni sistematiche sul terreno hanno consentito di valutare appieno l'importanza del villaggio, i cui resti sono disseminati su un'area di circa un chilometro di diametro; si e' potuto altresi accertare che esso, sorto in una fase di restringimento del bacino lacustre, si è via via spostato in avanti, inseguendo la sponda in arretramento, fino a quando dovette essere definitivamente abbandonato in seguito a una nuova espansione del lago.
 
Se dunque uno spunto reale deve ammettersi alla base della leggenda di Archippe, l'unico centro che può averlo fornito e' questo di Ortucchio, e deve essere definitivamente abbandonata l'identificazione con Arciprete, canonizzata nelle storie locali, dal Febonio in poi, in base ad un falso accostamento etimologico. Dopo l'abbandono di Archippe le genti di Ortucchio si trasferirono nell'interno della valletta di Arciprete, oltre i nuovi limiti delle acque del Fucino e sulle alture vicine. Durante lo scavo della necropoli della circonfucense di Arciprete, nel luglio 1978, furono rinvenuti numerosi frammenti di ceramica della prima età del Ferro che, oltre ad altri frammenti presenti nell'area dell'abitato romano, confermano che questo fu il luogo dove sorse il successivo insediamento delle genti di Ortucchio. E' probabile che in età arcaica la comunità insediata nel vicus posto nella valletta di Arciprete, per ragioni di difesa, si sia insediata sull'altura di monte Particelle, dove sorse l'ocri (centro fortificato) di Anxa, che divenne il centro abitato maggiore dell'area da noi presa in esame"
 
Archipreta: dal sintagma **archi petrae 'archi di pietra', riferito ai resti murari di Anxa, v. arco e preta; nome accostato paretimologicamente alla mitica città di Archippe e, su un piano popolare, al vocabolo 'arciprete’.


 
Il bosco sacro della dea Angizia
 
Poco lontano dalle rive dello scomparso lago del Fucino a Luco dei Marsi (AQ), la radura s’infittisce e un bosco misterioso procede verso l’alto, tra rocce, cavità naturali e veri e propri inghiottitoi. Gli antichi abitanti, come gli stessi romani, attribuivano a questo bosco il termine sacro, “lucus”, proprio per indicare che si entrava in un luogo non qualunque, dai richiami soprannaturali. I figli di queste terre, i Marsi, veneravano il bosco perché sacro alla principale divinità dei loro padri: la dea Angizia, divinità guaritrice, incantatrice di serpenti, sorella della più nota Circe. Sapevano riconoscere il suo passo di danza, narra la leggenda, nei vapori sprigionati dal terreno ad alta quota e tra gli alberi, influenzando per secoli queste terre. Suggestione o no, secondo i racconti, chiunque si avventuri in questo bosco può avvertire la sensazione che qualcosa di misterioso avvolga la natura circostante.
 
Le streghe del lago Fucino nei diari di un viaggiatore inglese del '700. 
 
Richard Colt Hoare è stato un archeologo, antiquario, scrittore e viaggiatore inglese. Tra il 1787 e il 1791 fece un viaggio in Italia e passò anche in Abruzzo. Nei suoi diari di viaggio, che oggi sono conservati al British Museum, annotò che a San Benedetto dei Marsi, si tramandavano delle misteriose storie sulle "streghe del Fucino".
 
Nei suoi diari ci racconta come la leggenda delle streghe del Fucino fosse molto più antica e che risalisse persino al tempo dei romani. Il viaggiatore inglese cita Quinto Orazio Flacco, che ne parlava già parecchi secoli prima nelle sue opere: "Marsis vocibus. I Marsi erano stimati i più bravi stregoni dell'Italia. Credevasi, che avessero ereditato la riputazione da Marso lor fondatore, figliuolo dell'incantatrice Circe, di cui hanno parlato cotanto gli antichi poeti. Anche adesso dal minuto vulgo si dice, che il paese de' Marsi sia il luogo, ove si radunano la notte le streghe".
 
Richard Colt Hoare ci racconta come, nelle notti di luna piena, le streghe uscissero dalle acque del lago, ispirassero nelle donne follie di passione e le spingessero a fondere la loro carne con quella degli uomini, generando nascite multiple e non desiderate tra la cittadinanza. La gente del posto, soprattutto le donne, per proteggersi da questi malefici si rivolgeva a Sant'Agnese, la santa che a sua volta venne accusata di stregoneria e per questo condannata al rogo. Dai suoi diari sembrerebbe che all'epoca esistesse anche una minuscola chiesa dedicata alla Santa, chiamata chiesa di Sant'Agnese del serpente, che a suo dire presentava un cupo fascino. Richard Colt Hoare, inoltre, racconta che la gente del posto usava realizzare delle piccole bambole di pezza, con due teste e quattro braccia, che sembrava riuscissero a placare in qualche modo l'ira delle streghe del lago Fucino. Gli abitanti del posto raccontavano che alcune volte era possibile vederle, solo se ci si addormentava davanti ad uno specchio rotto.
 
Il lago Fucino. secondo una leggenda, era abitato dal “Genio del Fucino” (o Dio selvaggio). Il Genio del Fucino sapeva essere sia generoso che crudele con coloro che vivevano nei pressi delle sue rive. Il Dio era generoso quando le acque del lago erano calme e veniva denominato Dio Fucino. Il Genio del Fucino si trasformava nel Dio Pitonio diventando crudele quando le sue acque invadevano le città. Alcuni avi ricordano, che questa leggenda, raccontata dalle nonne, che si parlava di una luce che la notte usciva e rientrava nel lago, e se c'era la luna piena, la luce di notte non usciva.
 
E’ sul fondo del lago Fucino che da sempre sono sommerse storie e leggende incredibili.
 
Nel 52 d.C. l’imperatore Claudio, per l’inaugurazione dell’emissario, organizzò sul Fucino la più grande naumachia della storia. Secondo le cronache dell’epoca tutta Roma si recò sulle rive del lago, per assistere allo spettacolo in cui 19.000 schiavi si diedero battaglia su 50 vascelli costruiti per l’occasione. Fu allora che venne pronunciata una delle frasi più celebri di Hollywood: “Ave caesar, morituri te salutant”, che Svetonio riporta una sola volta e solo per la celebre naumachia del Fucino. 
 
Quella più incredibile è legata al “mostro del Fucino”. Nel poema Alessandra di Licofrone, risalente al III secolo a.C., si narra di un ipotetico fiume, indicato in greco come ‘Python’, ossia pitone, di acqua purissima che attraversava il lago senza mischiarsi con le sue acque. Dalla traduzione, alla creazione di un mostro, il passo fu breve, soprattutto se in alcuni punti del lago accadevano fenomeni insidiosi, come alcuni mulinelli che si creavano nella località Petogna, in cui il lago possedeva il suo unico inghiottitoio naturale. Tutto ciò, mischiato all’ignoranza della popolazione, aveva consacrato la leggenda del temibile mostro del Fucino.  
 
Si trattava davvero solo di una leggenda o c’era dell’altro? Plinio definì sempre molto pescoso il lago del Fucino, e in alcune sue opere racconta che tra gli innumerevoli pesci ce n’era uno sconosciuto e molto particolare che possedeva otto pinne. Diversi scritti storici inoltre, anche recenti, testimoniano l’esistenza di singolari bisce acquatiche, che normalmente passavano il tempo a crogiolarsi al sole, e che in più di un caso sono state viste attaccare aggressivamente le barche dei pescatori, apparentemente senza motivo, con le loro ‘taglienti lingue’. Alcuni libri di storia raccontano di un’apocalittica invasione subita dall’antica città di Angizia: i rettili erano così numerosi e aggressivi che gli abitanti dovettero lasciare per svariate settimane le loro abitazioni; altre testimonianze scritte riportano che quando tornarono l’intero centro abitato era diventato completamente infetto a causa del cattivo odore che quei rettili morti esalavano nell’aria circostante. 
 
Non è certo un mistero che Angizia proteggesse gli abitanti del lago dai morsi dei serpenti, eppure sembra che la Dea avesse anche delle altre qualità. Il mito di Angizia ci racconta come “con la sua magia fosse capace di far scendere la luna dal cielo e le sue irresistibili nenie fermassero i fiumi e incantassero i serpenti placandone l’ira”. E se questo fosse collegato al mostro del lago? La creatura veniva avvistata maggiormente durante le notti di luna piena (probabilmente perché i pescatori uscivano a pesca sfruttando la luce della luna) mentre con “fermare i fiumi e incantare i serpenti con le sue nenie” intendessero proprio placare quel “Python” già menzionato in precedenza, quella mastodontica creatura così temuta dagli abitanti del lago.
 
 “Allorché giungemmo al valico dovemmo confessare di essere stati ben ripagati dei nostri sforzi dalla vista della bellissima Marsica. Alla nostra sinistra i bianchi picchi del Velino, alto più di settemila piedi, apparivano oscurati da minacciosi cumuli di nubi, mentre un selvaggio intrico di montagne chiudeva quel lato della scena. Molto più in giù, nella splendida luce del sole, si stendeva la lunga striscia blu del Lago del Fucino, con la sua bella pianura di boschi e villaggi scintillanti". Questo splendido paesaggio, così come apparve agli occhi stupiti del pittore e diarista inglese Edward Lear, il quale nel 1850 si era recato per esigenze artistiche sulle rive del Fucino, oggi è completamente mutato: le azzurre e limpide acque del lago non esistono più; al loro posto vi è una fertile pianura verde. 
 
Negli acquerelli di Edward Lear il lago appare immobile e quasi disabitato, tuffato tra sponde di canneti, con qualche barca approdata sulla solitudine acquitrinosa di una riva. Il lago ha segnato in maniera profonda anche la storia degli uomini che hanno abitato le sue sponde, a partire dai cavernicoli insediati nelle grotte delle pareti rocciose dei monti che lo circondano; uomini che più tardi scesero a valle per costruirsi villaggi di palafitte, finché non passarono ad insediamenti meno precari che costituirono il nucleo delle città sorte in epoca storica lungo le sue rive. Il Fucino ha determinato ed accompagnato le condizioni di vita delle popolazioni della Marsica, ne ha imposto gli insediamenti, ne ha influenzato costumi e carattere, ne ha condizionato le scelte economiche e, più tardi, quando è stato prosciugato le passioni e le lotte politiche.
 
Il regime del lago del Fucino era molto capriccioso e variabile, e lo era da sempre poiché era privo di emissari naturali, mentre veniva alimentato da numerose sorgenti e dai corsi d'acqua di tutta la zona, di cui il maggiore era il fiume  Giovenco (chiamato Iuvencus in epoca romana e Pitonius dai Marsi ) il quale sfociava nel lago nel territorio di Marruvium. L'unico sfogo naturale del lago era una serie di inghiottitoi carsici, situati sulla sua sponda occidentale, in una zona attualmente denominata La Petogna.
 
Il saggista inglese Keppel Craven, che visitò la zona del Fucino nel 1837, riferisce che, in tempo di piena, l'acqua del lago formava un vortice spaventoso da cui venivano inghiottiti legni abbandonati, barche, tronchi d'albero, fascine da pesca ed altri corpi galleggianti provocando in questo modo l'ostruzione del canale sotterraneo; la conseguenza immediata era un repentino innalzamento delle acque con disastrose inondazioni dei terreni e dei paesi circostanti.
 
Erano altresì frequenti le improvvise burrasche del Fucino che si gonfiava paurosamente, spinto dai venti di Tramontana, formando onde altissime. Il nome moderno La Petogna può essere accostato a quello di Pitonius, il mitico fiume che, si dice, attraversasse il Fucino senza mescolare le sue acque con quelle del lago per poi immergersi nelle viscere della terra e riemergere presso Subiaco per generare la sorgente dell'Aqua Marcia, da cui Roma stessa traeva il suo rifornimento idrico. Secondo l'antica religione dei Marsi l'inghiottitoio del Pitonio rappresentava l'accesso all'Ade di cui il Pitonio stesso evocava il ruolo di fiume infernale, attraverso il quale passavano le anime dei defunti.
 
Il primo scrittore antico a menzionare il Fucino fu il greco Strabone che, dopo aver localizzato i laghi laziali di Nemi ed Albano, passa ad indicare il lago della Marsica (Geografia,V°,3,13); l'occasione è fornita dalla presenza in quei luoghi della città di Alba Fucens la quale, secondo il geografo greco, è posta nell'entroterra, al confine con i Marsi, vicino al lago Fucino il quale, per le sue dimensioni, ha la grandezza di un mare. Strabone accenna anche al fatto che le acque del Fucino subivano delle variazioni di volume, per cui a volte si innalzavano fino a toccare le falde dei monti, a volte si abbassavano a tal punto da lasciare all'asciutto vaste zone, prima paludose, rendendole così fertili per l'agricoltura.
 
Un altro chiaro riferimento alla grandezza del Fucino ed alla sua somiglianza con un mare, si trova in un passo di Servio a commento dell'Eneide virgiliana. Servio, seguendo una certa tradizione che vuole Medea venuta in Italia al seguito di Giasone, dopo aver abbandonato i Colchi, dice che " la donna insegnò dei rimedi contro il veleno dei serpenti ad alcuni popoli, chiamati Marrubii, abitanti intorno al grande lago Fucino; quasi prendessero il loro nome dalla parola "mare"  per la grandezza dello specchio d'acqua del lago: Servio, parlando della sorte delle tre figlie di Eeta, che, lasciata la casa paterna si diressero in tre direzioni diverse, si scosta da quanto afferma Gneo Gellio, il quale dice che Circe andò ad abitare sui monti Circei, Angizia nei boschi intorno al Fucino, dove insegnò agli uomini come liberarsi dai morbi, Medea morta fu sepolta da Giasone a Butroto ed il figlio di questa ebbe il governo dei Marsi. Invece, secondo un passo di Plinio il Vecchio, i Marsi avrebbero avuto origine dal figlio di Circe e la loro storia sarebbe legata alla herbarum potentia ed al potere sui serpenti. Evidentemente intorno a queste fabulae ci doveva essere discordanza tra gli antichi autori, se, come in questo caso, i loro pareri erano diversi su nomi di divinità locali e capostipiti.
 
Anche un altro poeta, Silio Italico, sulla scia di Virgilio, ricorda non solo le virtù belliche dei Marsi, anche le loro virtù magiche di incantatori di serpenti, così pure Angizia maestra di veleni, di antidoti e di altri incantesimi, come quello di far occultare la luna, di fermare il corso dei fiumi e di far scomparire le selve dai monti; egli ci dice inoltre che Marsia, venuto dalla Frigia, impose il nome alle popolazioni di quei luoghi, e che la capitale di quelle città era Marruvio, il cui nome deriverebbe da Marro.
 
Per tornare alla natura del Fucino nell'antichità, possiamo aggiungere anche quanto ha scritto Vibio Sequestre su tale argomento; egli parla di un fiume Pitonius, che come abbiamo visto è da identificare con il Giovenco, che scorreva in mezzo al lago dei Marsi così che la sua acqua non si mescolava con quelle del Fucino: Un altro aspetto del Fucino desumibile dai testi degli antichi autori è quello di essere stato paludoso. Probabilmente zone di acqua stagnante dovevano esservi in tratti limitati di costa, soprattutto nei periodi di "magra" del lago o nei punti in cui veniva praticata la pesca con la tecnica delle "fascine", in cui lunghi tratti di costa lacustre venivano isolati dal resto del lago con degli sbarramenti di arbusti. Che ci fossero delle zone paludose è comunque intuibile anche dall'insistenza con cui i Marsi  chiedevano a Roma di intervenire sul loro lago, sia per evitarne le disastrose inondazioni, e anche per rendere coltivabili i terreni rivieraschi che evidentemente erano acquitrinosi.

Notizie storiche reperite da Ferdinando Renzetti





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