venerdì 27 marzo 2015

Vita naturale, gusto del potere e "uscita dal gregge" di Andrea Bizzocchi


Se guardiamo alla storia umana, ci accorgiamo che per circa tre milioni di anni (cioè per il 99,6 per cento del nostro tempo su questo pianeta), prima degli ultimi diecimila, gli esseri umani hanno vissuto in unione simbiotica con la Natura (per Natura intendo la totalità dei viventi e dei “non viventi”, il cosmo e le virtualmente infinite interrelazioni tra tutti… insomma il Tutto). Esisteva la Natura, non le risorse. Esisteva una comunione di soggetti, non uno sfruttamento di oggetti. L’essere umano era e non possedeva. Rotto questo rapporto simbiotico abbiamo preso a possedere la terra (agricoltura), poi gli animali (pastorizia-allevamento), quindi le donne (società patriarcale) e poi chiunque altro (schiavitù, lavoro dipendente, massificazione). Queste sono tutte forme di avere e per avere devi prima controllare. L’avere presuppone il controllo. Come non bastasse, quando si comincia ad avere, l’avere non basta mai. Ed è anche logico: tolte le reali necessita fisiologiche l’avere è irreale, un semplice parto della mente. Per questo non ha limiti, per questo non basta mai. L’avere è prima di tutto un concetto, una malattia mentale. Tutto il resto sono inevitabili conseguenze.

Dicevamo che quando si comincia a possedere tutto diventa possedibile. La Natura passa dunque da elemento vivente con cui gli umani (con)vivono a magazzino di risorse che poi diventano merci. La Natura è formata da milioni e milioni di soggetti, animati e inanimati (“inanimati” per la nostra mentalità ovviamente): sono tutti diventati oggetti, e quando si comincia a mercificare qualcosa si finisce inevitabilmente con il mercificare tutto, noi umani compresi, siamo diventati “risorse umane” e la definizione non ci fa neppure orrore. La merce è per definizione un qualcosa che viene scambiato o venduto e se non ci si scandalizza della logica della mercificazione non ha senso scandalizzarsi che qualche umano (le élites che comandano ad esempio) mercifichi, oggettivizzi, cioè controlli, sfrutti, domini per arrivare eventualmente ad uccidere altri umani (oltre a tutto il resto). La mercificazione, cosi come il possedere, il dominare e lo sfruttare, è prima di tutto un concetto mentale, proprio come l’avere. Tutto il resto, fino ad arrivare all’inenarrabile squallore in cui ci troviamo oggi, non è altro che un’inevitabile conseguenza di quel concetto, di quella forma di pensiero, di quella visione della vita.

Questo processo di mercificazione, avviatosi con le prime timide forme di agricoltura e con la conseguente rottura dell’unione con la Natura, conteneva in nuce i semi della moderna economia (prima c’era l’economia del dono, che è tutt’altra cosa e che infatti non andrebbe neppure definita “economia” ma semplicemente “dono”). La nascita dell’economia avviene con i primi surplus della produzione agricola, surplus che era necessario scambiare perché poneva problemi di conservazione. Con l’avvento dell’agricoltura si rende anche necessaria una prima elementare forma di organizzazione della società umana. Nascono le società a struttura piramidale, cioè società strutturate in modo gerarchico e militare (nessun popolo della natura ha una struttura gerarchica né militare); dove siamo arrivati oggi in quanto a gerarchia e militarizzazione della società è sotto gli occhi di tutti. Da allora ad oggi abbiamo percorso una strada senza senso e soprattutto senza futuro. Le conseguenze che stiamo pagando sono quelle di un consumo spietato della Natura, di un suo degrado inarrestabile, di un analogo degrado umano.

La degenerazione contemporanea rappresenta, a tutti i livelli, l’inevitabile conseguenza di una mentalità reificatrice e dominatrice.

Che questo sistema sia pilotato dall’alto è ormai chiaro anche per i seguaci più accaniti dell’“Isola dei Famosi”. La domanda è dunque: “Ma i “piloti” sono a loro volta pilotati dal processo stesso?” Mi spiego meglio. Il denaro e l’economia, ancor prima che essere mezzi concreti di sfruttamento, sono uno schema di pensiero, una logica. Io non credo che chi sta sulla cima della piramide, cioè chi manovra il gioco, ne tragga nella sua realtà un beneficio effettivo. Chi manovra è a sua volta schiavo del “gioco” che crede di manovrare, perché schiavo di quello schema di pensiero che gli fa credere di dover controllare e dominare sempre più. Se domandassimo ai “manovratori” che senso ha questo sfruttamento e questa distruzione che stanno arrecando all’umanità e al pianeta, non saprebbero darci una risposta; perché una risposta non c’è. Esattamente come nessuno di noi può dare una risposta se qualcuno ci domanda che senso ha comprare mutande firmate o cambiare il cellulare (con il carico di devastazione ambientale, inquinamento, sfruttamento umano, tumori e infinito altro ancora che questo si porta appresso) a ogni lancio di modello nuovo. Siamo fagocitati, ognuno al suo livello, dal meccanismo. E ognuno di noi, nessuno escluso, è vittima, prima che di tutto il resto, di uno schema di pensiero.

Se questo “controllo globale” con cui ci stiamo confrontando è prima di tutto uno schema di pensiero, un “concetto”, per cambiare qualcosa, credo sia doveroso domandarsi anzitutto se questo “concetto” ha un senso ed eventualmente quale sia questo senso.

Bisogna domandarsi se porta pace, gioia, serenità, benessere autentico, appagamento, felicità, sia a chi controlla sia a chi e controllato. La risposta e sempre negativa. Zero riporto zero. Nel mondo moderno nessuno sta autenticamente bene e non c’è bisogno di stare a tirar fuori le statistiche di omicidi, suicidi, depressione per provarlo: basta guardarsi attorno. Nessuno sorride, fischietta o canta più; una totale assenza di joie de vivre attanaglia le nostre esistenze moderne. La Vita, ben che vada, ci pare un accidente.

Si dirà che se una persona è controllata, dominata e sfruttata non può stare bene ed essere felice; e questo è pacifico. Ma nemmeno chi controlla sta bene, è felice e vive con gioia. Basta guardare le facce imbalsamate, di cera, vecchie, spente e morte fin da giovani dei vari controllori di vario grado (basterà guardare Berlisconi, Draghi, Hollande, la Merkel, tanto per fare dei nomi abbastanza a caso per capirlo). Il motivo e semplice: sono schiavi del meccanismo esattamente quanto lo siamo noi. Allo stesso esatto modo. Certo, ne traggono dei benefici materiali, ma questo non sposta minimamente i termini della questione e cioè che non sono mai le persone a controllare il meccanismo ma sempre il meccanismo a controllare le persone. Esattamente come il denaro è una logica e noi non controlliamo il denaro, bensì è il denaro a controllare noi (sia che lo si abbia sia che non lo si abbia), cosi ogni meccanismo è la realizzazione pratica di una logica e se sei schiavo di quella logica sei giocoforza schiavo del meccanismo.

Chi controlla e domina infatti non vede altro. Il processo del dominio e del controllo non solo non ha un fine, ma nemmeno una fine. Se l’avere non ha limiti e il denaro può essere infinito, allo stesso modo funzionano il potere e il controllo. Non ci sono confini alla sete di potere e alla mania di controllo (del resto il denaro rappresenta proprio potere e controllo). La vita di chi domina e controlla diventa funzionale all’obiettivo del dominio e del controllo che, non essendo reali, non hanno mai fine. Abbiamo conquistato la terra? Conquistiamo gli animali (del resto sono “inferiori”). Conquistati gli animali si possono conquistare le donne (anche loro sono inferiori). Poi chi conquistiamo? Conquistiamo altri umani (schiavitù). Conquistata tutta la terra, c’è la luna, lo spazio, le galassie. Letteralmente, non c’è fine. Controllare e dominare hanno le esatte caratteristiche di una droga (assuefazione); perché lo sono. E lo chiamano progresso. È una malattia mortale.

Controllare e dominare quindi disumanizzano chi è dominato ma anche chi domina. Per questo motivo l’oligarchia finanziaria di cui abbiamo trattato nel libro è sempre più feroce, violenta, priva di scrupoli, spietata, assetata di potere, ma anche sotto pressione. “Il potere logora chi non ce l’ha” era la frase ad effetto di Giulio Andreotti. In realtà, una persona sana di mente e di cuore senza potere vive benissimo e vive benissimo proprio perché non ha nessun potere. Il potere, il denaro, il “successo”, al contrario, logorano proprio chi ce l’ha. La cosa è indiscutibilmente vera, eppure le nostre menti sono talmente condizionate dal pensare che per essere felici si debba avere potere, denaro, “successo”, che quando qualche personaggio importante (di potere, ricco e di “successo”) arriva a togliersi la vita, e gli esempi abbondano), siamo quasi sempre portati a pensare che quel gesto non abbia un senso. “Non gli mancava nulla” è il commento di tutti. “Aveva Potere. Era ricco: aveva tutto!”. Già, aveva tutto tranne quello che è indispensabile per vivere bene: amore, gioia, serenità, relazioni sane con altri umani e con il mondo. Nella realtà, con la quale non si può bluffare, gli mancava tutto. E quel “tutto” gli mancava cosi tanto da togliersi la vita.

Il potere e il controllo sono malattie e di conseguenza, chi domina e controlla è malato (bisogna capirlo che chi domina e controlla è malato). Questa è la più intima essenza di una logica del dominio e del controllo che partendo qualche millennio addietro ci ha condotto dove siamo oggi. Concludevo “Pecore da tosare” con questa frase: “la felicità non è mai nella conquista del potere ma nella capacità di saper vivere senza”. Ne sono convinto sempre più perché è in quel senza che possiamo davvero aspirare a essere noi stessi. Prendersela con i dominatori rimane un esercizio sterile e inutile, una comprensibile valvola di sfogo ma nulla più. Prenderne atto è forse la sola cosa sensata da fare, perché questa presa di coscienza rappresenta la sola cosa che ogni essere umano può ragionevolmente aspirare a cambiare: se stesso.

Il problema dunque non è “la crisi” e nemmeno “la ripresa che non arriva mai”. Il senso della vita non è “allungarla” ma semmai “allargarla” e cioè vivere autenticamente bene. Il “dramma” non è morire a settant’anni piuttosto che a ottanta, ma come si è vissuto. Il “dramma” non è non potersi permettere l’ultimo modello di tecnogingillo idiota che buttano sul mercato, ma la mancanza di gioia con cui ci si alza al mattino, con cui si trascorrono le giornate, con cui si va a dormire la sera. Facendo ripartire la produzione industriale automaticamente riparte anche la gioia di esistere? No, perché la gioia di esistere non viene prodotta in fabbrica, non viene trasportata in un camion per finire sullo scaffale di un supermercato e infine non la si può acquistare. La gioia di esistere, a differenza di qualunque merce, non fa crescere l’economia. Semmai la fa decrescere, perché chi sta bene non compra cose di cui non ha alcun bisogno. Non lo capiamo solo perché “non lo vogliamo capire”; il rospo da ingoiare è troppo grosso. Ma per capirlo basta andare in paesi dove ancora non è arrivata l’economia a distruggere tutto. Scrivevo nell’introduzione del mio libro Pura Vida: “Nel 1993 feci il mio primo viaggio fuori dall’Europa. Ero solo e andai in Kenya. Lì constatai che i kenioti erano più felici di noi, che avevano più gioia di vivere e che, ad onta di condizioni di vita molto più difficili, erano anche altrettanto più sereni”. All’epoca ero un ragazzetto ancora imbevuto degli schemi di pensiero del mio mondo e non riuscivo a coglierne il perché. Oggi sì.

di Andrea Bizzocchi *

Questo articolo segnalato da Claudio Martinotti Doria  è in gran parte tratto dal libro “Euroballe” (Ed. Il Punto d’Incontro, 2014)

*Andrea Bizzocchi è nato a Fano. Ha scritto di molti temi, tra cui energia, decrescita, truffe bancarie, viaggi. Ha pubblicato, tra gli altri, Ritorno al Passato (Edizioni della decrescita felice), Pura Vida e Non prendeteci per il Pil! (Terra Nuova Edizioni) e la trilogia Pecore da tosare, E io non pago e Euroballe (Edizioni Il Punto d’Incontro). Vive con poco e in maniera nomadica tra Italia, Stati Uniti e Centroamerica. Il suo sito è andreabizzocchi.it

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