Il
liquame baumiano ha invaso i solchi delle valli in cui abitavano le
tradizioni. Luoghi dove gli animi individuali si realizzavano secondo
il loro talento. La globalizzazione ha ridotto distinguo e
differenze, quindi le identità. Prima secondo quelle dei poli
industriali che come gorghi hanno risucchiato gli uomini dalle terre,
ora secondo le democratiche leggi della flessibilità, spostati per
necessità tecnica, come una chiave inglese.
Salvo le navi degli
armatori che solcano ora soddisfatti quelli che una volta erano i
confini, tutti arraffiamo brandelli di detriti per mantenere il
galleggiamento. Ci ricorderemo solo poi che cosa
significa
vivere inseguendo i benefit e dimenticando le radici, la terra, i
ritmi della natura.
Il
culto della specializzazione fondato sul sapere analitico-cognitivo
non implica, tantomeno prevede, la realizzazione del sé delle
persone. Piuttosto la distribuzione di individui in luoghi
tecnocraticamente corretti ma realizzativamente alienanti.
Nell’inconsapevole
si salvi chi può, come prima era business
is business
ora, senza soluzione di continuità, si è passati alla libera
applicazione di
mors
tua vita mea.
Come
non ha più senso – se mai ne avesse avuto – occuparsi e
preoccuparsi localmente dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua,
così è per le economie locali, siano comuni, regioni, stati.
Il
debito – come l’ossido di zolfo o di azoto, gli idrocarburi, il
metano, il monossido di carbonio, l’anidride carbonica,
l’ammoniaca, il protossido d'azoto, le polveri sospese, i metalli
pesanti e i composti organoclorurati (diossine, PCB, ecc.) –
pervade
tutti gli estratti conto del mondo istituzionale e non solo. Secondo
gli economisti esso è considerato elemento strutturale del sistema
economico. La loro conclusione è – da loro stessi – considerata
esaustiva: senza debito non c’è progresso. Ovvero, nessuno può
farcela da solo.
Evidentemente quanto l’opulente consumismo ha
prodotto nelle carni e negli spiriti, per loro, non è cosa
spregevole, anzi.
L’opera
degli amministratori non può limitarsi al rispetto della
costituzione, ai diritti delle persone, alla realizzazione dei
servizi primari e secondari. Nei loro bilanci la voce dedicata al
pagamento dei prestiti
è un falso in atto pubblico. La corretta dizione dovrebbe essere
pagamento del tasso
d’interesse
dei prestiti. Si danno da fare e alcuni anche virtuosamente, ma in
sostanza – come non possiamo liberare il nostro cielo dall’ossido
di zolfo – il prestito non è estinguibile.
Salvo
non si cambi la concezione della vita, da fatto economico a umano,
tanto i debiti, i cieli, i mari e via con tutta la catena che non
esclude alcuna – leggasi alcuna – espressione materiale e
spirituale della natura umana, animale, minerale, vegetale il ciclo
mostruoso che siamo un passo alla volta arrivati a realizzare non
avrà ragione di fermare la sua psicotica corsa.
Tutte
le amministrazioni, mentre lavorano per onorare il debito, ne
stringono il vincolo e ogni vignettista potrebbe tracciare le linee
di un cappio al collo o di un guinzaglio. Significa che chiunque
possa portare ossigeno ai letti della corsia delle amministrazioni
istituzionali ne detiene il 51%, il diritto di veto o di vita. Ne
detiene il mercato, il potere, la comunicazione. Detiene anche
l’ombra entro cui restare. Angolo oscuro dal quale butta come ai
piccioni briciole, di volta in volta opportune per distrarre anche
quelli col sangue più freddo. Socio-filologi in grado di portare i
loro fasci di luce in quei nascondigli del comando. Ma anche loro
necessariamente resi incerti dal proliferare di comunicazioni
differenti che – come nello shopping forzato – impediscono di non
cadere in scelte compulsive.
Se
questa è la formula matematica o astratta, in pratica significa che
siamo in mano al miglior compratore, che la democrazia è
definitivamente irrealizzabile, che il sistema capitalistico, per
quanto bello grasso, è sul letto di morte ipocritamente vegliato dal
suo figlio finanziario. Lui sì in buona salute.
Se
questa premessa potrebbe bastare a se stessa e a riempire di
preoccupazione, se non disperazione, chiunque ne voglia constatare
l’attendibilità, di fatto induce a riconoscere che tutto il
quotidiano affaccendarsi dei politici – che i media d’informazione
ubbidienti al mercato, sono costretti a diffondere per sopravvivere –
è un falso.
Indipendentemente
dal gradiente di buona fede che vogliono metterci, tutti gli
orizzonti – che poi sono sempre e solo uno, quello che fa capo al
ciclo del mercato consuma-per-produrre-per-vivere
– che ci paventano, non sono che stratagemmi, cucchiaini con i
quali nessun mare potrà essere svuotato.
Di
quali miglioramenti della vita ci parlano, se da decenni la giustizia
è impantanata su se stessa, nel campo della salute gli ospedali
hanno le formiche, i malati e le malattie crescono e l’educazione,
dalla formazione alle infrastrutture, è fuori controllo. La
disoccupazione si riduce di percentuali irrisorie rispetto a quelle
di riferimento, soprattutto a causa di conteggi interessati o mai
definitivamente dichiarati nella loro natura. E per le stesse
percentuali di riferimento, chi può mai credere siano un pezzo
sincero di realtà? Le carceri, le strade, il turismo, l’arte, i
trasporti, le piccole imprese, le medie e le grandi, le coste, le
valli seguono, anzi partecipano al coro di penitenza permanente per
il peccato del debito, del liberismo, del capitalismo, del
positivismo, del materialismo.
Per
il debito, i privati comprano televisori, auto e case. Le
istituzioni, mentre si occupano di sovranismo, spendono il necessario
per evitare il collasso, la rivolta e il sangue.
Senza
un cambio di registro resteremo in mano a chi ci ha acquistato, mafie
o oligarchie finanziarie che siano, o che sono. A seconda del lato
in
osservazione.
Tuttavia,
come dice Guenon nel suo anticipatorio La
crisi del mondo moderno,
scritto nel 1926 – che anticipatorio non è per ogni occhio che
guarda la realtà spogliata dai suoi suggestivi orpelli culturali –
«[…] non è nel dominio sociale che in ogni caso potrebbe prendere
inizio una essenziale rettificazione del mondo moderno».
Siamo
senza via di scampo? Certamente finché delegheremo al fuori di noi
la responsabilità della realtà con la quale avremo a che fare. Per
nulla, se saremo in grado di assumerci la responsabilità di tutto.
La sola rivoluzione è quella personale. Quelle politico-ideologiche,
la storia ce lo dice, sono rigurgiti, sputacchi sul grande arazzo. La
macchia si vede all’inizio e poi si perde assorbita da un contesto
in grado di digerirla. Foruncoli, niente più.
L’evoluzione
individuale, libera dal narciso desiderio proselitico è la via del
paradigma che vorremmo.
Continua
l’antropologo francese: «Nulla di stabile potrebbe mai risultarne
e bisognerebbe cominciar sempre di nuovo per aver trascurato
d’intendersi anzitutto circa le verità essenziali. Per cui, non ci
è possibile concedere alle contingenze politiche, anche dando a
questa parole il suo senso più ampio, altro valore se non quello di
semplici segni esteriori della mentalità di un’epoca.»
Richiamare
a sé la politica, naturalmente smascherata dalle suggestioni
dell’ideologia, è dunque la sola risorsa ancora disponibile tra le
cataste di macerie tra le quali viviamo. È un sentiero, un
camminamento lento, adatto a una sola persona. Porta ovunque, ai
valichi, alle vette, a nuovi orizzonti di sé, di noi. E anche a
vedere che – come prosegue il francese – «una idea, come quella
dell’”eguaglianza”, o del “progresso”, o di […] altri
“dogmi laici” che quasi tutti i nostri contemporanei hanno
accettato ciecamente» come catturati dal sortilegio di una
superstizione. «Se queste suggestioni venissero meno, la mentalità
generale sarebbe assai vicina a cambiar d’orientamento: per questo
esse vengono più accuratamente favorite da tutti coloro che hanno un
qualche interesse a protrarre il disordine, se non pure ad aggravarlo
- e tale è anche la ragione per cui in tempi, nei quali si pretende
di tutto, sottoporre alla discussione, queste suggestioni sono le
sole cose che non si debbono mai discutere».
Lorenzo Merlo -
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